Tra il dire e il pane

“Buono come il pane”: si dice di una persona dal carattere pacifico, per nulla irascibile e solitamente molto accondiscendente. Come negare la sua naturale bontà?

“Non è pane per i tuoi denti”, ossia “lascia perdere, non fa per te”. Meglio rinunciare a una cosa così difficile da ottenere e puntare ad altro.

“Anche il pane più vecchio ha il suo formaggio” (Proverbio francese): ciascuno ha la sua anima gemella e non è mai troppo tardi per incontrarla!

“A pane e acqua”: questo detto cambia significato a seconda che sia preceduto o meno dal verbo “mettere”. In questo caso sarà un sinonimo di “punire”, lasciando appunto il colpevole a pane e acqua. Se non è introdotto dal verbo, “a pane e acqua” indicherà le condizioni (alimentari) umili del soggetto a cui si riferisce.

“Essere come pane e cacio”: dicasi di due persone che vanno pienamente d’accordo.

“Pane e sale van sempre d’accordo” (Proverbio russo): cosa penseranno i Toscani? 

“Rendere pan per focaccia”: quando il biblico “occhio per occhio” fa capolino in un panificio, ecco come si dice rispondere una cattiva azione con altre peggiori.

“A pane e acqua”: questo detto cambia significato a seconda che sia preceduto o meno dal verbo “mettere”. In questo caso sarà un sinonimo di “punire”, lasciando appunto il colpevole a pane e acqua. Se non è introdotto dal verbo, “a pane e acqua” indicherà le condizioni (alimentari) umili del soggetto a cui si riferisce.

“Pane al pane, vino al vino!”: una bella esortazione a parlare chiaro, schiettamente e senza mezzi termini!

“Evita chi non ama il pane e i bambini” (Proverbio svizzero): fai a meno di chi non apprezza le cose più semplici e genuinamente buone.

“Chi ha i denti non ha il pane e chi ha il pane non ha i denti”: la vita a volte è ingiusta, e tale proverbio ce lo ricorda. Chi ha delle aspirazioni spesso non dispone dei mezzi per realizzarle, mentre chi ha i mezzi non ha alcuna aspirazione da realizzare.

“Levarsi il pane di bocca”: compiere un gesto di estrema generosità, rinunciando al proprio cibo per darlo a chi ha fame.

“Mangiar pane a tradimento”: beneficiare di qualcosa senza aver fatto alcuno sforzo per guadagnarsela.

“Misurare il pane”: dicesi di chi, per la troppa avarizia, centellina ciò che mangia pur di risparmiare.

Molecole di gusto

Abbiamo già parlato di come la cucina non sia fatta solo di ingredienti e procedimenti, ma anche di vere e proprie reazioni chimiche che determinano il gusto, l’aroma, la consistenza e in generale la buona riuscita dei piatti. Sfruttarle al massimo è lo scopo della cucina molecolare, una scienza che, osservando le materie prime e sperimentando con i metodi di cottura, trasforma la struttura molecolare degli alimenti per dare vita a pietanze innovative ed esteticamente originali. Come avviene tutto questo?

Le origini

I padri fondatori della gastronomia molecolare sono il fisico Pierre Gilles De Gennes e il chimico nonché gastronomo Hervé This, che alla fine degli anni ‘80 decisero di indagare l’arte culinaria attraverso un approccio scientifico. Iniziarono a studiare e revisionare i metodi di cottura più classici impiegando strumenti come l’azoto liquido, il protossido di azoto e additivi come lecitina e alginati. Con i loro esperimenti arrivarono a destrutturare il cibo, creando dei piatti unici nel gusto, nel colore e nella consistenza. 

Cottura senza fiamma

La peculiarità della cucina molecolare sta nei suoi metodi di cottura. Non usando quasi mai la fiamma, si ricorre a particolari tecniche che alterano la consistenza degli alimenti e ne esaltano il sapore originale. Tra quelle più usate ci sono la gelificazione e la sferificazione. Mentre la prima avviene per mezzo di additivi come pectina e gelatina, la seconda prevede l’uso di l’alginato di sodio, un altro gelificante di origine naturale. Questo viene addizionato a un liquido (un succo o uno sciroppo) e fatto gocciolare in una soluzione di acqua e cloruro di calcio. A contatto con la soluzione, il liquido si coagulerà trasformandosi in piccole sfere chiamate “drop”, morbide all’esterno e liquide all’interno.

Altre tecniche frequenti nella gastronomia molecolare sono l’emulsione – impiegata per ottenere spume leggerissime a partire da succhi o sostanze acquose e poco grasse –, e la frittura nello zucchero. Anziché nell’olio, il cibo viene immerso in un mix di zuccheri fusi che gli conferisce la classica crosticina senza però penetrare al suo interno, mantenendone inalterato il sapore.

Ultima ma non meno importante è la tecnica del raffreddamento in azoto. Grazie alla sua bassissima temperatura di ebollizione (circa -196˚C), l’azoto liquido viene mescolato agli ingredienti prescelti per realizzare il cosiddetto gelato istantaneo, un composto morbido e privo di cristalli di ghiaccio eccessivamente grandi.

Modalità di cottura spettacolari, abbinamenti inusuali e tanta creatività. La cucina molecolare attira l’attenzione di chef e studiosi, e si propone come alternativa alla gastronomia tradizionale offrendo al palato (e all’occhio) piatti innovativi e ricchi di gusto. Sarà questa la cucina del futuro?

Il fico che vale

Dopo aver parlato di quelli d’India, oggi scopriamo i fichi comuni (ficus carica), infruttescenze di una pianta ramosa tipica dei climi mediterranei. Questo particolare termine, in botanica, indica il complesso di frutti derivati da un’infiorescenza. Per forma e aspetto, le infruttescenze somigliano infatti a un frutto unico nonostante siano formate da tante piccole unità. Il fico è ciò che si definisce un’infruttescenza a siconio, prodotta dalle piante di fico femmina. Esistono anche piante di fico maschio, le quali però non producono “frutti” edibili.

Oltre a piante maschili e femminili, il fico si suddivide ulteriormente in “selvatico” e “domestico”, varietà che fruttifica due volte l’anno. Il fico domestico può produrre due tipologie di fichi: i primaticci, che si formano nei mesi autunnali per essere raccolti in primavera inoltrata, e i fichi veri, che nascono in primavera e possono essere raccolti fino a settembre. Esistono oltre 150 varietà di fichi, diversi per grandezza ma soprattutto colore: bianchi, marroni, viola, verdi e persino neri.

Le proprietà…

Sia secchi che freschi, i fichi sono un’importante fonte di vitamina AC e vitamine del gruppo B. Contengono grandi quantità di potassio, calcio e fosforo. Per l’alto contenuto di zuccheri, i fichi sono molto energetici ma sconsigliati a obesi e diabetici.

…e gli usi!

Hai mai assaggiato i fichi insieme a formaggi stagionati o prosciutto crudo? Freschi o secchi, sono usati in tantissime preparazioni dolci e salate. Come la pizza con i fichi, lo spuntino romano per eccellenza, con pochissimi ingredienti ma ricco di gusto. E ancora confetture, torte, biscotti tutti da realizzare con questo frutto di fine estate.

IPA Brut… Ma buona!

“Per me una birra champagne, grazie!”

Una richiesta forse strampalata ma sicuramente di tendenza. Le prime Brut IPA sono state prodotte negli Stati Uniti nel 2017: tutte chiare e contraddistinte da un’esplosiva combinazione di brioaromi ed estrema secchezza. Posseggono una gradazione alcolica relativamente alta e sono realizzate con luppoli particolarmente aromatici per ricreare il bouquet di uno spumante Brut. A causa della necessità di trovare l’equilibrio perfetto, produrre le Brut IPA è la migliore dimostrazione delle competenze di un birraio esperto a causa della necessità di trovare l’equilibrio perfetto.

Come per tutte le IPA, i luppoli sono i principali responsabili dell’aroma caratteristico e tipico del prodotto. Tuttavia a contraddistinguere le Brut IPA è la secchezza finale, legata allo scrupoloso lavoro di fermentazione operato dai lieviti. Un lavoro nel quale è essenziale la mano dell’uomo per l’aggiunta di enzimi specifici.

Come si fa?

La maggior parte dei birrai ricorre al potere dell’amiloglucosidasi (AMG), un enizma amiolitico che favorisce la trasformazione degli zuccheri complessi in zuccheri semplici più o meno fermentescibili. Nello specifico, l’AMG può staccare dalla complessa molecola dell’amido singole unità di glucosio, che fermenterà facilmente a contatto con il lievito. L’amiloglucosidasi era stata già impiegata nella produzione di Imperial Stout e delle IPA più luppolate, notando proprio in quest’occasione come la secchezza accentua gli aromi del luppolo.

A tavola

Per loro somiglianza con gli spumanti secchi, le Brut IPA possono essere abbinate a piatti come salumi, formaggi stagionati ed erborinaticarne alla grigliapesce e perfino a crostaceifrutti di mare e ostriche. Delle “birre champagne”, come molti amano definirle, che si abbinano perfettamente alle specialità più raffinate e sfiziose.

Sei pronto ad assaggiarla? In alto i boccali!

I lieviti in cucina

Il lievito è una sostanza che assumiamo praticamente tutti i giorni, fin dai tempi degli Egizi. Viene infatti utilizzato nella preparazione di pane, focacce, dolci e moltissimi alimenti e bevande che incontriamo nella quotidianità.

Distinguiamo innanzitutto i lieviti dagli agenti lievitanti. I primi sono popolazioni batteriche e fungine che fermentano, producendo anidride carbonica in modo graduale: sono adatti alla preparazione di pane, focacce, pizze e in generale impasti abbastanza viscosi da poter trattenere l’aria al loro interno. Gli agenti lievitanti sono invece sostanze che, reagendo tra loro, liberano questo gas in maniera più rapida: sono perfetti per i dolci. 

Lieviti 

Il lievito più utilizzato è il lievito di birra, poiché è quello più semplice e veloce da lavorare.
Tradizionalmente veniva ottenuto raccogliendo i depositi sul fondo dei tini, come residuo di lavorazione di questa bevanda; oggi viene prodotto su scala industriale tramite un processo di coltura e germinazione di cellule di lievito selezionato, che viene poi lavato ed essiccato nel caso del lievito di birra secco. 
È una ricca fonte di vitamina B e contiene discrete quantità di selenio, cromo, potassio e magnesio. Naturalmente, non possiamo pensare di supplire al nostro intero fabbisogno di queste sostanze con una semplice pagnotta.

Il lievito madre non è altro che una miscela di acqua e farina lasciata fermentare. Mentre il lievito di birra è composto principalmente da Saccharomyces, il lievito madre include una microflora più vasta: comporta una maggiore digeribilità, una migliore assimilazione di minerali e proteine, non procura gonfiori intestinali e contribuisce a riequilibrare la flora batterica. In più conferisce un indice glicemico minore rispetto al lievito di birra, anche utilizzando farine non integrali.

Agenti lievitanti

Il cremor tartaro è molto utilizzato in pasticceria: salutare e non invasivo a livello di gusto, si trova facilmente nel Regno Unito e negli Stati Uniti, mentre in Italia è meno conosciuto. Si tratta di un sale leggermente acido, che si attiva se abbinato a bicarbonato o a impasti particolarmente basici (come quelli ricchi di albume), generando anidride carbonica che fa lievitare velocemente i dolci. 

Il lievito chimico è quello più diffuso in pasticceria, specialmente in Italia: è composto da una base debole (solitamente bicarbonato di sodio) e da un acido debole (ad esempio difosfato disodico) che, a contatto con l’acqua, si attivano liberando anidride carbonica. 

Il lievito fa male?

I lieviti, come abbiamo visto, contengono diversi micronutrienti utili per l’organismo: in alcuni casi il lievito di birra è anche venduto come integratore di vitamine del gruppo B. 
È stato tuttavia osservato che un consumo consistente è correlato ad un’alterazione del microbiota intestinale: rimane comunque un fattore da accertare con ulteriori ricerche.
Come per ogni alimento, si può dire che “è la dose che fa il veleno”: un consumo eccessivo di prodotti da forno non è mai consigliabile. Per un’alimentazione equilibrata è meglio preferire i cereali interi, meglio se integrali, limitando gli alimenti lievitati ad una o due porzioni al giorno. 

Intolleranza al lievito

In generale non è comprovata l’esistenza di un’intolleranza al lievito.

È possibile che si verifichi l’insorgenza di stanchezza, gonfiore, meteorismo o diarrea, ma si tratta di eventi transitori e per lo più riconducibili a una cottura non completa, con aggiunta di alfa-amilasi e di “miglioratori”, la cui fermentazione nell’intestino può comportare la formazione di gas e una digestione lenta.

Se questi disturbi dovessero perdurare nel tempo, possono essere considerati dei campanelli di allarme di un’eventuale malattia intestinale cronica.

Escluse con certezza, attraverso test specifici, le allergie alimentari al grano, all’alfa–amilasi e ad altri componenti insieme ai quali il lievito viene ingerito, sarà consigliabile una visita specialistica da un gastroenterologo per determinare la vera natura dei sintomi avvertiti e la possibile presenza di malattie croniche intestinali.

Chi ha inventato le caramelle?

Usate per migliorare (temporaneamente) l’alito, per alleviare il mal di gola o semplicemente per soddisfare la voglia di dolce, le caramelle oggi esistono in tantissimi gusti e varietà.

Ma chi le ha inventate? 

Il primo dolcificante conosciuto dall’uomo era il miele, che veniva prelevato insieme al favo direttamente dagli alveari sin dalla preistoria: la frutta candita con il miele può essere considerata la cosa più simile ad una caramella che si poteva consumare nell’antica Grecia o nell’Impero Romano. 

Per l’estrazione dello zucchero dalla barbabietola dovremo aspettare fino al 1747 e prima di allora data l’unico zucchero reperibile era quello di canna, proveniente dall’Asia. Forse l’idea di trasformare il succo di canna da zucchero in dolcetti nacque per la prima volta in India intorno al IV secolo: questi pezzetti di caramello venivano chiamati Khandatermine dal quale sarebbe poi derivato l’inglese candy. In Occidente le caramelle arrivarono intorno al IX secolo d.C., portate dai Crociati in ritorno dalla guerra. Si trattava in realtà di semplici barrette di zucchero di canna caramellato, senza aromi, chiamate Canna Mellis (cioè “miele di canna”). 

Ma fino a metà Settecento lo zucchero in Europa rimase relegato all’uso medicinale: mescolato a spezie ed erbe officinali, serviva a curare i sintomi del mal di gola e il bruciore di stomaco. La pasticceria era un lusso riservato alle corti e ai nobili, poiché zucchero e cacao dovevano arrivare da dalle piantagioni avviate nelle Americhe, attraversando l’Oceano. 

Quando si cominciò ad estrarre saccarosio anche dalle barbabietole, il prezzo dello zucchero da tavola crollò, e con la Rivoluzione Industriale nacquero le prime fabbriche di dolciumi. Nel 1800, negli Stati Uniti, c’erano già 400 stabilimenti e presto i candy shop divennero i luoghi dove i bambini potevano spendere i loro primi spiccioli. L’invenzione della candy press, nel 1851, permise di modellare le caramelle nelle forme più fantasiose, aumentando ancora di più le varietà disponibili sul mercato. 

L’invenzione del lecca-lecca

Nel 1905 il proprietario dell’azienda dolciaria Mc Aviney ebbe un’idea: vendere i bastoncini utilizzati per mescolare lo sciroppo di zucchero, che a fine lavorazione restavano coperti di caramella. Nacquero così i primissimi lecca lecca, con il nome di used candy sticks. L’idea fu perfezionata dalla Racine Confectionary Machine Company, con una macchina che applicava le caramelle sui bastoncini, e pochi anni dopo dal russo Samuel Born, con un impianto che invece applicava il bastoncino alla caramella. Una differenza che può sembrare irrilevante, ma che in realtà rese la produzione molto più semplice e redditizia: la Born Sucker Machine fu considerata talmente rivoluzionaria nel settore che il suo inventore fu premiato con le chiavi della città di San Francisco.

Ad attribuirsi gran parte del merito fu tuttavia George Smith, proprietario della Bradley Smith Company, che registrò il termine lollipop ispirandosi al nome di un cavallo da corsa, Lolly Pop. 

Per il vero e proprio boom dell’industria dolciaria dovremo aspettare il secondo dopoguerra, quando la ripresa economica permise anche alle fasce meno agiate della popolazione di concedersi qualche sfizio in più. Oggi conosciamo tantissime varietà di caramelle oltre alle classiche dure, ma di questo magari parleremo un’altra volta.

L’arte dell’Origami

Piegare e modellare un semplice foglio di carta per realizzare un oggetto senza bisogno di colla o forbici. In un’unica parola, origami. L’arte di trasformare un foglio di carta in un oggetto tridimensionale è antica quanto la carta, inventata in Cina da Ts’ai Lun, un funzionario della corte dell’Imperatore Cinese Yuan Hsing, nel 105 d.C

In Giappone la carta era associata alla sfera divina: “carta” e “dei” in giapponese si pronunciavano allo stesso modo, kami. D’altronde la fabbricazione della carta, lunga e laboriosa, richiamava i concetti di rinascita e trasformazione particolarmente cari alle religioni orientali. La prima forma di origami erano i gohei, strisce di carta piegate in forme astratte con significato spirituale, utilizzate per delimitare gli spazi sacri e come dono per la vittoria degli atleti. Per la comparsa di soggetti figurativi come fiori e animali dovremo aspettare il periodo Heian (749- 1185 d.C.), al quale risale la figura della gru

Per una diffusione dell’origami a fasce più ampie della popolazione giapponese dovremo però attendere l’arrivo della stampa nel Paese del Sol Levante, nel periodo Edo.

fine Ottocento, con l’inizio degli scambi con l’Europa, gli origamisti iniziarono a viaggiare nel Vecchio Continente e mostrare la propria arte, venendo accolti come prestigiatori. A interessarsi in modo particolare all’arte dell’origami fu Fröbel, precettore che ne intuì le potenzialità in campo educativo; la sua idea fu ripresa da Akira Yokizawa, il quale utilizzò l’origami per insegnare la geometria agli impiegati di una ditta. L’arte di piegare la carta fu insegnata per un decennio anche al Bauhaus. 

Se oggi possiamo seguire autonomamente le istruzioni per fare una farfalla o una gru di carta, lo dobbiamo sempre ad Akira Yokizawa, che elevò l’origami da tecnica ad arte, introducendo il concetto di pieghe morbide e donando maggiore tridimensionalità alle figure. Grazie alla collaborazione di Samuel Rendlett e Robert Harbin elaborò diversi simboli per indicare le pieghe e nel 1952 pubblicò la prima raccolta di lavori con le relative indicazioni per riprodurli

Pieghe e scienza

Oggi gli origami vengono impiegati nella riabilitazione di pazienti con ritardi cognitivi naturali o acquisiti, al fine di ripristinare la coordinazione oculo-manuale, le loro capacità motorie e stimolare la concentrazione. Questo è ciò che, sotto l’occhio attento di psicologi ed esperti, avviene nel centro riabilitativo Origami di Roma. 

La parola origami si traduce soprattutto nella possibilità di usare o, meglio, piegare materiali ultra leggeri per realizzare dei microrobot che raggiungano anche le parti più piccole del corpo umano. È accaduto in Svizzera e in Massachusetts dove è stato sviluppato un microrobot ingeribile da comandare a distanza tramite minuscoli magneti. Il suo compito è quello di muoversi attraverso le parti più flessibili del corpo come l’esofago o i vasi sanguigni, ed eliminare corpi estranei oppure somministrare farmaci in maniera localizzata. A essere ripiegati possono essere anche gli stessi filamenti di DNA, che vengono riorganizzarli in strutture bi- e tridimensionali per il trasporto di sostanze. La DNA-origami è una tecnica che mira a creare dei nanovettori capaci di somministrare un dato principio attivo a una parte del corpo specifica, senza toccare altri tessuti o organi.

Un’arte antica, quella dell’origami, che incuriosisce artisti e incentiva le ricerche della comunità scientifica internazionale.

La moda eco-friendly

Quando anche il settore dell’abbigliamento inizia a guardare al benessere dell’ambiente, arrivano in passerella gli abiti eco-friendly. Capi realizzati con tessuti biologici e colorati con l’utilizzo di ortaggi, frutta, foglie, fiori e persino radici. Accanto a questi ci sono vestiti e accessori realizzati secondo processi di lavorazione green, riducendo l’impatto sull’ambiente e nel rispetto di chi lavora allo sviluppo del brand, come il vestito “alla birra” di cui abbiamo parlato qui

Green fashion

L’associazione femminile di Cia-Agricoltori Italiani, Donne in Campo, è pioniera della moda ecologica made in Italy. Utilizzando fibre naturali come gelso da seta e canapa, i loro abiti da sera e prêt-à-porter “Agritessuti” sono stati realizzati nel 2019, molti dei quali colorati mediante scarti agricoli: bucce di cipolla, foglie di carciofo e scorze di melograno. Accanto ai coloranti tessili a costo zero, l’associazione punta a coinvolgere sempre più produttori di fibre naturali e piante tintorie come lavanda e camomilla, per espandere la loro attività e avanzare proposte concrete per ridurre l’inquinamento causato dall’industria tessile.

Ecologia e sostenibilità

A quanto riporta Vogue, sono circa 300 i brand e le start up attive nell’ambito della moda eco friendly, molte delle quali si trovano a collaborare fra loro per promuovere un modo nuovo e sostenibile di guardare al fashion. Caso interessante è quello di Slow Nature, vetrina virtuale che raccoglie più marchi green nel settore moda. Entrare a far parte di questo marketplace non è facile, poiché occorre rispondere a standard precisi ed esigenti, per accertarsi che i brand lavorino tutti con materiali ecologici, nel rispetto dell’ambiente e dei propri collaboratori. Secondo il WWF, l’industria tessile e dell’abbigliamento dovrebbe contribuire a creare un mondo in cui uomo e natura convivono in armonia. Un progetto ambizioso quanto laborioso, se si guarda alla produzione di capi stimata dalla stessa organizzazione per 2030: 102 tonnellate.

Fortunatamente, la crescente sensibilità verso le tematiche ambientali sta facendo aumentare la domanda di capi sostenibili. I consumatori, insieme alle grandi catene di produzione e le piccole realtà dei settori agricolo e tessile, sembrano determinate a sancire un rapporto fruttuoso e sostenibile tra moda e natura.

Carruba, che sorpresa!

Tra gli alberi che caratterizzano le campagne siciliane e sarde c’è il carrubo, una pianta sempreverde tipica del Mediterraneo i cui frutti trovano largo uso in cucina e non solo. Si presentano con una scorza scura e crostosa che racchiude una polpa carnosa e 10-15 semi molto duri. Dalla macinazione delle carrube si possono ottenere due prodotti diversi: la farina di polpa, ricavata polverizzando l’intero baccello, e la farina di semi, un composto chiaro e impalpabile.

La polpa di carruba polverizzata ha un colore marrone chiaro, ricca di sostanze zuccherine e proposta come alternativa al cacao amaro. Può essere usata in diverse preparazioni dolci, sia in cottura che a crudo, anche se sarà bene sottolineare che, una volta cotta, il sapore della farina di polpa di carruba diventa molto più intenso e aromatico. Bisogna perciò dosarla e combinarla preferibilmente ad altri ingredienti che ne mitighino il gusto.

La farina di semi di carrube invece è conosciuta con la sigla E40 ed è uno stabilizzante naturale utilizzato soprattutto nell’industria alimentare per addensare formaggi o ancora gelati. Per via della pectina contenuta nei semi, questo composto, una volta disciolto in acqua calda, dà origine a soluzioni viscose.

Preziose curiosità 

La parola “carato” deriverebbe dall’arabo qirat, ossia carrubo. Un tempo i semi della pianta venivano utilizzati per pesare oro e pietre preziose poiché si pensava avessero forma e peso costanti, pari a ⅕ di grammo. Successivamente l’Università di Zurigo ha smentito tale credenza, dicendo che la massa di questi semi varia al pari di quella di tutti gli altri.

Proprietà e benefici

Dal punto di vista nutrizionale, la carruba è un frutto particolarmente ricco di vitamine (dei gruppi, A, B e D) e minerali, specie di calcio. 

Facente parte della famiglia dei legumi, la carruba è anche fonte di aminoacidi essenziali e proteine di origine vegetale. È anche ricca di antiossidanti e fibre che la rende ideale per trattare vari disturbi intestinali e favorire la digestione.

Gatto delle sabbie: il principe del deserto

I deserti sono popolati da creature capaci di sopravvivere in un ambiente ostile, dove cibo e acqua scarseggiano. Rettili, insetti, roditori: tutti sono specializzati nel vivere in condizioni estreme. Uno degli abitanti dei deserti africani e asiatici è il gatto delle sabbie (felis margarita): a giudicare dall’aspetto, sembrerebbe un normale gatto domestico ma le sue capacità lo rendono un felino unico. 

Un manto a prova di caldo

Durante il giorno, la sabbia può raggiungere una temperatura pari a 80°C, tale da bruciare le zampe di qualsiasi gatto ma non quelle del nostro principe del deserto. La pelliccia del gatto delle sabbie copre persino le zampe, proteggendole dal suolo bollente. Ciò dà a questo animale diversi altri vantaggi, come quello di non lasciare (quasi) traccia del suo passaggio e di resistere alle rigide temperature notture, che possono arrivare a -5°C.

L’udito come arma

Le sue orecchie sono ampie, con un canale uditivo grande quasi il doppio di quello di un gatto domestico, il che li rende capace di percepire anche le frequenze più basse e captare la preda a più di 500 metri di distanza. Ma oltre che a procacciarsi il pasto, il gatto delle sabbie sfrutta il suo potente udito per trovare i suoi simili. Dozzine di chilometri di sabbia possono dividere due esemplari che, grazie alle loro capacità uditive, potranno trovarsi e accoppiarsi.

Acqua? No, grazie

Per sopravvivere in un ambiente estremamente arido, il gatto delle sabbie ha imparato a fare a meno dell’acqua. L’unica fonte di idratazione sono le sue prede – specie le più grandi come può essere un topo – dalle quali trae tutto il nutrimento possibile.

Piccolo e indipendente

Con 2,8 kg di peso e circa 50 centimetri di lunghezza il gatto delle sabbie è il più piccolo dei felini selvatici, una creatura minuta ma temeraria. I suoi piccoli – solitamente tre per cucciolata – si abituano subito alle condizioni ostili del deserto, raggiungendo entro il primo anno di vita la totale indipendenza dalle madri.