Sangue freddo o sangue caldo?

Oggi non è del tutto attuale la battuta “stai al sole come una lucertola”, ma è legittima la domanda: “Perché durante gli scorci di sole che ci regala l’autunno trovo spesso una lucertola ferma sul balcone?”

Non è così facile incontrare una lucertola nei mesi freddi, ma quando compare il sole i nostri amici rettili sono sempre pronti a fare un giretto. Come mai?

Le differenze

rettili, così come gli anfibialcuni tipi di pesci e di insetti, sono animali a sangue freddo. Vuol dire che mantengono i nervi saldi? In realtà riescono a mantenere ben poco, ma hanno una grossa capacità di adattamento.

Gli animali a sangue freddo sono così definiti perché non hanno la capacità di termoregolazione tipica di mammiferi e uccelliNon riescono cioè a mantenere la temperatura interna al proprio corpo costante, bensì essa dipende completamente dall’ambiente esterno. Quindi, per tornare alla lucertola ferma sul balcone, il sole servirà al rettile per riportare il calore all’interno del proprio corpo.

Noi animali a sangue caldo, meglio definiti “endotermi”, siamo in grado di produrre calore autonomamente grazie al glucosio; riusciamo inoltre a mantenere la temperatura interna stabile tra i 36 e i 37 gradi, quindi ci si può definire allo stesso tempo “omeotermi”.

Le specie a sangue freddo invece vengono definite “ectotermi” poiché non riescono ad autoregolare la temperatura interna, ma anche “poichilotermi” dato che tale temperatura è variabile.

La differenza sostanziale la fa l’attività metabolica. Gli endotermi fanno lavorare costantemente le proprie cellule attraverso l’attività catabolica. In questo modo producono una grande quantità di energia, un quarto della quale serve per espletare le funzioni utili al nostro organismo, il resto dell’energia in eccesso si trasforma in caloreUna parte di quel calore ci servirà per mantenere la temperatura interna costante, l’altra parte viene espulsa dal corpo tramite la sudorazione e altri meccanismi.

Tale capacità, purtroppo, non è gratuita.Per garantire l’autoregolazione termica gli omeotermi devono ingerire una quantità di calorie 30 volte superiore a quella che normalmente un ectoterma sfrutta per sopravvivere.

Il vantaggio è che gli animali a sangue caldo possono svolgere tutte le funzioni vitali (ad esempio procurarsi il cibo) a qualsiasi temperatura esterna, quelli a sangue freddo invece sono “attivi” solo in determinate condizioni ambientali.

Lo spirito di adattamento

Quando fa troppo caldo o troppo freddo nella zona in cui si trovano, gli animali a sangue freddo non se ne stanno di certo con le mani in mano. Vanno infatti costantemente alla ricerca di ambienti favorevoli alla sopravvivenza. Diversi serpenti ad esempio si nascondono al di sotto della sabbia del deserto. I coccodrilli si riscaldano sulla terra ferma ed evitano l’eccessivo surriscaldamento entrando in acqua. Alcuni insetti utilizzano i propri muscoli per riscaldarsi, facendo vibrare ali e addome.

L’attività metabolica dei pesci, invece, rallenta o accelera in base alla temperatura: a basse temperature rallenta, ad alte accelera. Ricercano perciò ambienti “equilibrati”, poiché in acque troppo calde consumerebbero una quantità tale di energia da portarli a una morte prematura, in acque troppo fredde si arresterebbe l’attività metabolica, con conseguente morte.C’è da dire tuttavia che le escursioni termiche in acqua avvengono molto più lentamente rispetto all’aria aperta.

Una differenza interessante tra rettili e anfibi è data dal tipo di pelle che possiedono. Gli anfibi uscendo dall’acqua perdono calore tramite l’evaporazione. I rettili invece hanno una pelle impermeabile, quindi l’evaporazione non si verifica, ma rimane l’incapacità di trattenere il calore.

Un esempio pratico, per concludere, ci porta a capire meglio la differenza tra gli animali omeotermi e quelli ectotermi. Immaginiamo due predatori per eccellenza, un coccodrillo e un lupo, in una particolare condizione di temperatura molto bassa.

Il lupo avrà il cervello e tutti gli organi sensoriali attivi e pronti alla caccia, un coccodrillo invece sarà in estrema difficoltà e si occuperà di cercare un ambiente più caldo che gli permetta di sopravvivere. Se dovessero incontrarsi, si suppone che vincerebbe il lupo.

Ma se in quel luogo freddo il cibo scarseggiasse, il lupo non avrebbe la forza necessaria per cacciare, mentre il coccodrillo, che nel frattempo grazie alla capacità di adattamento avrebbe trovato un luogo favorevole dove “risparmiare le energie”, sarebbe pronto a difendersi o addirittura ad attaccare.

Non c’è quindi risposta all’ipotetica domanda: “Vivono meglio gli animali a sangue freddo o quelli a sangue caldo?” Ognuno di noi può decidere qual è la condizione di vita più favorevole.

Animali con “esperienza” da vendere

Avendo un cervello altamente sviluppato e potendo studiare tutti gli altri esseri viventi, agli esseri umani sembra impossibile che qualche altro animale possa vivere più a lungo di noi.

La donna più longeva del mondo, secondo il Guinness dei Primati del 2019, è la giapponese Kane Tanaka con i suoi 116 anni di vita.

Nel 1997 si è aperto un curioso dibattito in Francia, dove sembra essere morta all’età di 122 anni e 164 giorni Jeanne Clement, una donna nata nel 1875. Il matematico russo Nikolay Zak, intervistato da una rivista francese, aveva esternato la convinzione che la signora Jeanne sarebbe morta nel 1934 e che sua figlia Ivonne ne avrebbe assunto l’identità per evadere diverse tasse salate. A morire nel 1997 sarebbe stata perciò la figlia e nessuno, sempre secondo Zak, avrebbe potuto raggiungere quell’età nella nostra epoca.

Che sia un imbroglio o no, la certezza è che né la signora Clement né la Tanaka vantano il primato di longevità nel mondo animale.

Il segreto? A quanto pare vivere negli oceani, meglio ancora se al freddo.

Riccio

Attenzione a non calpestarlo, perché il Mesocentrotus franciscanus ha una vera e propria corazza fatta di resistenti spine a proteggerlo. Si tratta di un riccio rosso di mare che può vantare ben 200 anni di esperienza, quindi è meglio per gli esploratori subacquei evitare di sfidarlo.

Balena

Per la seconda della lista non servono avvertimenti, chi oserebbe disturbare una balena da oltre 150 tonnellate? La Balaena mysticetus nuota nelle acque della Groenlandia e, se non viene disturbata dai nemici pescatori, può vivere fino a 211 anni.

Tartaruga

Approdando dall’oceano alla prima riva disponibile delle isole Galapagos, si possono incontrare delle simpatiche tartarughe. Pensate che una di loro potrebbe essere il vostro amico a quattro zampe domestico? Dimenticatelo. Questi esemplari, della specie Chelonoidis nigra, arrivano a pesare circa 400 kg e si stima che siano in grado di vivere fino a 177 anni. Insomma, se si ha a disposizione un giardino grande come un campo da calcio potrebbe conoscere i nipoti dei nostri nipoti, ma l’Italia non sarebbe il suo habitat ideale, quindi meglio andarla a trovare in Sud America.

Facendo un viaggetto che attraversa l’Atlantico sfociando nell’oceano Indiano si arriverebbe in un altro arcipelago “paradisiaco”, quello delle Seychelles. Qui vive una tartaruga che depone le uova ogni 2 anni e può vivere fino a 150 anni. Considerando che in media una tartaruga di terra di queste dimensioni depone 10 uova alla volta, la Aldabrachelys gigantea (Tartaruga gigante di Aldabra) può arrivare a mettere al mondo intorno a 800 figli. Congratulazioni mamma tartaruga.

Squalo

Sembra che alle basse temperature dei mari del Nord i pesci si trovino decisamente bene. Ci trasferiamo di nuovo in Groenlandia, dove è stato trovato il vertebrato più longevo del nostro pianeta. Si tratta del Somniosus microcephalus, meglio conosciuto come “Squalo della Groenlandia”. Un esemplare finito per sbaglio nelle reti da pesca è stato analizzato da alcuni scienziati utilizzando lo strumento del radiocarbonio. Gli studiosi si sono concentrati su alcune proteine che non si rinnovano, stimando la nascita del grosso squalo nel lontano 1600. Inoltre, tramite gli stessi strumenti, sono state ritrovate tracce di eventi radioattivi, come i test nucleari degli anni ’60. Questo esemplare è stato studiato nel 2016, alla veneranda età di 416 anni.

Ma perché riescono a vivere così a lungo? Gli scienziati pensano sia dovuto al particolare percorso di crescita dell’animale. Crescerebbe di un solo centimetro all’anno fino a raggiungere i 5 metri di lunghezza e raggiungerebbe la maturità sessuale solo a 150 anni di età. Facendo qualche calcolo si può dire che se uno squalo della Groenlandia e una tartaruga delle Seychelles nascessero nello stesso giorno, nel momento in cui la tartaruga muore dopo aver messo al mondo 800 cuccioli lo squalo sarebbe pronto a riprodursi.

Vongola

Siamo sempre alla ricerca di pesce fresco per una genuina pasta alle vongole. I pescatori possono convincerci di averle pescate poco prima, ma perché non ci comunicano la data di nascita dei molluschi? Sicuramente non lo fanno perché non hanno gli strumenti adatti. Se li avessero a disposizione potrebbero scoprire dati sconvolgenti, come quelli fuoriusciti da un laboratorio islandese. Nel 2006 è stata pescata “Ming”.È un esemplare di vongola oceanica (Arctica islandica), alla quale dopo un’attenta analisi è stata attribuita l’età di 507 anni.

Chiudiamo con una triste notizia: Ming è stata accidentalmente uccisa dagli scienziati proprio mentre ne analizzavano l’età. Avrà sicuramente avuto tempo di godersi la vita e forse era alla ricerca del meritato riposo, nel frattempo ha donato una grande scoperta alla scienza.

Qualche curiosità sui pinguini

Cammina su due zampe e nuota in acque profonde ad alta velocità. Di che animale si tratta? Verrebbe da dire “sicuramente non è un uccello”, poiché potrebbe camminare quando non vola, ma l’immersione non è proprio una sua prerogativa.

Esiste però un uccello, il più curioso e simpatico che la Terra abbia mai conosciuto, capace di nuotare, camminare (goffamente), ma non di volare. È il pinguino, protagonista di diversi film, mascotte di celebri squadre sportive e immagine di brand di moda famosi nel mondo, che dà anche il nome a una delle più importanti case editrici britanniche.

Caratteristiche

È vero, guardando documentari, film e curiose immagini di questi fantastici uccelli marini si potrebbe pensare che il pinguino è uno e unico, dorso nero, ventre bianco e un po’ pienotto. In realtà ne conosciamo ben 18 specie, distribuite in varie zone dell’emisfero australe. Dodici di queste vivono al Polo Sud, in Antartide, le altre 6 specie si dividono tra Oceania, Sud America, Africa e isole Galapagos.

Il più grande (e anche più famoso), il pinguino imperatore, può arrivare a pesare intorno ai 40 kg ed è alto poco più di 1 metro, mentre il più piccolo ha dimensioni minuscole: altezza intorno ai 30 cm, peso poco più di un chilo.

Sono animali omeotermi, capaci di raggiungere i 400 metri di profondità in mare, resistendo intorno ai 20 minuti e nuotando a una velocità di circa 40 km/h; per intenderci, sono più veloci delle navi.

Il discorso cambia quando si muovono sulla terraferma: camminano goffamente dondolandosi a velocità ben ridotta.

Si nutrono principalmente di pesci e crostacei. La preda preferita è il krill, piccolissimi crostacei abbondanti nelle fredde acque polari. Quindi è vero che possono vivere solo al freddo?

Solo al freddo?

Falso. Lo Spheniscus demersus ad esempio, meglio conosciuto come pinguino africanovive a temperature comprese tra i 20 e i 40 gradi in alcune isole dell’Africa sud-occidentale.

C’è però da dire che la maggior parte delle specie preferisce un clima freddo, in particolare quello gelido dell’Antartide.E al Polo Nord?

Non mi muovo da casa mia

Alcuni studiosi hanno provato a inizio ‘900 a insediare delle colonie di pinguini al Polo Nord, poiché le condizioni climatiche sono molto simili all’Antartide e poteva essere l’occasione di far crescere la popolazione.

Stranamente però le prove non sono mai andate a buon fine, poiché i pinguini scomparivano e alcuni venivano attaccati dagli indigeni. Si decise allora di interrompere l’esperimento. I motivi dell’incompatibilità rimangono misteriosi.

Un altro interrogativo che ci si pone da tempo è “perché i pinguini, capaci di ricoprire a nuoto lunghe distanze, non sono mai approdati all’altro emisfero?”. La risposta è quasi scontata: la distanza è troppo lunga e perciò sarebbe elevatissimo il dispendio di energie, inoltre bisognerebbe passare dalle acque equatoriali, troppo calde perché la termoregolazione dei pinguini funzioni e garantisca la sopravvivenza degli animali.

La “gravidanza” si fa in due

Si dice che il pinguino sia un animale monogamo. Questa affermazione è parzialmente veraparzialmente pericolosa, perciò è bene chiarire.

Il pinguino imperatore, la specie più diffusa con 600mila esemplari, sceglie il proprio partner durante la stagione riproduttiva e gli rimane fedele per tutto il corso di tale periodo. Tuttavia è molto probabile che nella stagione successiva la coppia non sia la stessa.

Un’altra specie, il pinguino Adelia, è stato studiato nei primi anni del ‘900 da un esploratore britannico, che ne ha rivelato i comportamenti ritenuti al tempo “osceni”, quindi non divulgabili. Naturalmente non si possono applicare i criteri umani sulla condotta degli animali, ma l’atteggiamento violento del pinguino in questione sconcertò non poco.

Chiusa la triste parentesi, è interessante concentrarsi sulla “dolce attesa” dei pinguini imperatore.

La femmina depone un solo uovo durante il gelido inverno del Polo Sud. A questo punto, camminando goffamente e tenendo l’uovo tra le zampe, lo porge al compagno. Questi dovrà covarlo per i successivi due mesi, poiché la partner ha perso troppe energie durante la gravidanza e ha bisogno di nuotare in mare aperto per fare rifornimento di cibo.

Il maschio durante questi due mesi tiene l’uovo costantemente tra le zampe, ricoprendolo con uno strato di pelle (si dice che la temperatura in questa pseudo sacca sia intorno ai 35°). L’unica attività che svolge in attesa del ritorno della femmina è prendersi cura del futuro figlio. Non può neanche nutrirsi, poiché se l’uovo dovesse cadere a terra rischierebbe di congelarsi.

Quando finalmente avviene la schiusa, la madre torna dal piccolo e insieme al padre se ne prende cura per i primi giorni di vita. A questo punto c’è il “cambio della guardia”: la mamma rimane a nutrire e proteggere il pulcino, il maschio va a fare il meritato “pieno” di cibo, dopo il lungo periodo di digiuno.

Ne esisteva uno gigante

Oltre ad essere il più tenero, fedele e romantico pinguino mai conosciuto, l’imperatore era fino al 2004 anche il più grande.

In quell’anno però sulle spiagge di Otago in Nuova Zelanda è stato ritrovato un fossile importantissimo. Gli scienziati hanno scoperto che quelle ossa appartenevano a una specie di pinguino “gigante”: 180 cm per 100 kg. È stato ribattezzato infatti Kumimanu biceae, dalle due parole maori “Kumi”, mostro mitologico e “manu”, uccello.

Il nostro amico imperatore può stare tranquillo, nessuno può togliergli il trono (per il momento): il gigante in questione sembra essere vissuto tra i 56 e i 60 milioni di anni fa.

Salviamo l’Adriatico dalla plastica

È evidente, non si può entrare a casa di ogni cittadino e verificare che venga effettuata una corretta raccolta differenziata, così come non è possibile tenere sotto controllo tutte le aree nei pressi di fiumi e laghi per assicurarsi che non vengano inquinati. Un modo per evitare il disastro ambientale derivante dall’arrivo di plastica (e altro materiale inquinante) in mare potrebbe esserci. Si tratta di un progetto nato in Italia, realizzato su alcune zone che si affacciano sul Fiume Po, nominato “Po d’aMare”.

Un Po d’aMare

La prima sperimentazione ha avuto luogo presso il Comune di Ferrara nel 2018Sono state installate delle barriere in polietilene galleggianti che non interferiscono con la flora e la fauna del fiume, progettate da Castalia e posizionate nel tratto del Po in località Pontelagoscuro a 40 km dalla foce. L’obiettivo era quello di contrastare il fenomeno del “marine litter” (rifiuti in mare), intercettando tutto ciò che sarebbe sfociato nel mare Adriatico, per poi avviare i materiali raccolti al riciclaggio.

A Settembre 2019 l’iniziativa si è trasferita a Torino, con l’utilizzo degli stessi strumenti e condividendo il medesimo obiettivo della città emiliana.

Il progetto è stato predisposto da Fondazione per lo sviluppo sostenibile, Consorzi Castalia e Corepla, Autorità di Bacino distrettuale del fiume Po con il patrocinio del Ministero dell’Ambiente, dell’Aipo e la collaborazione del Comune (di Ferrara nel 2018 e di Torino nel 2019).

I risultati

Nel ferrarese il progetto pilota ha lavorato “a regime” per quasi 100 giorni, dal 18 luglio al 16 novembre 2018, raccogliendo circa 3 quintali di rifiuti. Alla Fondazione per lo sviluppo sostenible spiegano che “La frazione non plastica è costituita, per la maggior parte, da scarti vegetali e sono stati intercettati anche contenitori in vetro. La quota più rilevante in termini di peso del rifiuto plastico captato è rappresentata daPEproveniente da fusti di capacità maggiore a 25 litri, imballaggi utilizzati in ambito agricolo o industriale”.

I rifiuti intercettati sono stati avviati al riciclo e, con il supporto di Corepla, il rifiuto plastico è stato poi inviato al centro di selezione che ha separato e avviato a riciclo le diverse frazioni polimeriche. I granuli di plastica ottenuti dalle operazioni di riciclo sono stati poi inviati a un’azienda inglese per la realizzazione di una casetta rifugio.

Decisamente minore è la quantità di rifiuti intrappolati nelle barriere situate in prossimità del centro storico di Torino, fra i ponti Vittorio Emanuele I e Umberto I. In totale sono stati raccolti 63 kg di materiali, di cui circa il 60% provenienti da imballaggi in plastica di vario tipo: bottiglie in PET (polietilene tereftalato), flaconi in PE (polietilene), polistirolo espanso, pellicole e vaschette. Il restante 40% invece è materiale di vario genere tra cui tessuti, materiale organico, alluminio, acciaio, vetro e oggetti vari.

La Sindaca del capoluogo piemontese si è detta orgogliosa dei risultati ottenuti, dichiarando: “La quantità esigua di materiale rinvenuto è il frutto dell’impegno di un ‘sistema’ fatto di istituzioni, aziende e consorzi che consente di intercettare e riciclare i rifiuti prima che arrivino ai fiumi. Nonché di tutti i cittadini che, con il loro comportamento virtuoso, possono essere davvero protagonisti nella difesa del nostro ambiente. Cosa che è e rimane una priorità, per noi e per le prossime generazioni.”

Quanto è importante

L’80% dei rifiuti che si trovano in mare, secondo gli esperti, proviene dalla terraferma. L’iniziativa portata avanti in Italia puntava a capire come e quanto il fiume Po, con un bacino che include circa 16 milioni di persone, 7 regioni e 3.200 Comuni, contribuiva all’inquinamento marino, in modo da poter intervenire immediatamente e sviluppare un piano di prevenzione.

Le parole di Edo Ronchi, Presidente della Fondazione per lo Sviluppo sostenibile, ci aiutano a comprendere l’importanza di un progetto di questo tipo: “Un progetto importante che è riuscito a dimostrare la possibilità di intercettare i rifiuti prima che raggiungano il mare e diventino così un grave problema ambientale. Una volta in mare, infatti, i rifiuti a contatto con l’acqua salata, sono difficilmente riciclabili e nello stesso tempo le plastiche si trasformano nelle pericolose microplastiche.” Ronchi ha poi concluso il discorso auspicando un deciso intervento legislativo, volto a combattere con forza il problema, allargando ad altri fiumi e laghi le sperimentazioni concluse sul Po.

Sull’argomento è intervenuto colui che ricopre il massimo ruolo istituzionale in materia ambientale, il ministro dell’Ambiente Sergio Costa: “Come sapete siamo ormai prossimi all’arrivo in Consiglio dei Ministri della legge Salvamare, dove è prevista la collaborazione dei pescatori per il recupero della plastica in mare, ma posso assicurarvi che stiamo già lavorando affinché sia possibile raccogliere la plastica anche nelle acque dolci. È un problema che mi sta enormemente a cuore, tutti insieme riusciremo a liberare dalla plastica il mare.”

Bucce d’arancia e batterie

È forse una delle gag più divertenti della storia del cinema: Ollio mangia una banana e getta a terra la buccia, che fa scivolare un pasticciere con una torta in mano. Da qui parte una carrellata di torte in faccia, di cui la prima vittima era colui che aveva abbandonato la buccia a terra. Era il 1927, il film in questione è “La battaglia del secolo”, con protagonisti Stan Laurel e Oliver Hardy, Stanlio e Ollio.

Oggi parliamo però di un’altra buccia, priva di potenziale comico ma estremamente interessante da quello ecologico.

Premessa

Le batterie che terminano la loro energia provocano non pochi grattacapi: vanno gettate nei rifiuti speciali perché al loro interno contengono preziosi minerali che vengono recuperati.

Il metodo classico di recupero prevede una fusione della batteria a circa 500 gradi, in modo da raccogliere i metalli allo stato liquido. È facile intuire che per raggiungere una temperatura simile c’è bisogno di un alto apporto energetico. Inoltre, la fusione produce deigas tossici.

Un altro processo di estrazione sfrutta le proprietà di alcuni acidi mischiati al perossido di idrogeno, che consentono di recuperare i metalli dopo aver triturato il rifiuto. Questo non prevede alti consumi di energia, ma le reazioni degli acidi con la batteria producono comunque gas pericolosi.

La soluzione

Un team di scienziati della NTU (Nanyang Technological UniversitySingapore sembra aver trovato la soluzione a questi problemi. All’interno dell’università è stato installato un laboratorio, SCARCE, volto a sviluppare metodi più ecologici per riciclare batterie e altri rifiuti elettroniciEssiccare la buccia d’arancia al forno e successivamente macinarla e mischiarla all’acido citrico(acido organico debole presente negli agrumi) a contatto con la batteria sono i processi che portano dritti all’obiettivo: recuperare e riutilizzare vecchie batterie.

La chiave sta nella cellulosa che si trova nella buccia d’arancia, che viene convertita in zuccheri durante il processo di estrazione. Questi zuccheri migliorano il recupero dei metalli dai rifiuti delle batterie. Gli antiossidanti naturali presenti nella buccia d’arancia, come flavonoidi e acidi fenolici, contribuiscono ulteriormente all’efficienza” dicono gli scienziati.

Gli esperimenti fatti in laboratorio hanno portato all’estrazione con successo di circa il 90% di cobalto, litio, nichel e manganese da batterie esaurite. Dai materiali recuperati i ricercatori hanno quindi assemblato nuove batterie agli ioni di litio, che hanno mostrato una capacità di carica simile a quelle commerciali.

Il prossimo step consiste nel trasformare quel 90% in un 100%, sfruttando sempre più materiali organici non inquinanti. In tal modo si conserva il grande potenziale energetico delle batterie, combattendo allo stesso tempo il problema di cui accennavamo all’inizio: gli scarti alimentari passeranno dalle strade ai laboratori, in un ri-ciclo senza sosta.

Giornata Mondiale della Consapevolezza sugli Tsunami

Il 5 Novembre 1854 un’”onda di porto”, termine originale giapponese tradotto in italiano in “maremoto”, colpì violentemente il Giappone. Al villaggio Hiro-Mura, nella periferia di Wakayama, era stata organizzata quel giorno una festa in spiaggia per tutti i cittadini.Qualcuno era in ritardo, per fortuna. Si chiamava Goryo Hamaguchi, l’uomo che riuscì a salvare migliaia di persone da una fine inevitabile.

Il ritardatario avvertì nella sua abitazione una scossa di terremoto, e non lasciò correre. “Dopo un terremoto, arriva uno tsunami”, pensò.Di corsa raggiunse la collina e avvistò una massa d’acqua che si stava avvicinando pericolosamente alla spiaggia. Decise allora di appiccare un fuoco, interpretato dai suoi concittadini come segnale di pericolo: tantissime persone dalla spiaggia si riversarono sulla collina e si misero in salvo da un’enorme tsunami che pochi minuti dopo devastò l’intera costa.

Il World Tsunami Awareness Day

L’emblematico 5 novembre è stato scelto dai depositari del protocollo di Sendai (15 marzo 2015), per rappresentare la Giornata Mondiale della Consapevolezza sugli Tsunami (WTAD).

In diverse località delGiapponesi possono trovare statue di Goryo Hamaguchi che corre con i fasci di paglia. Il racconto del 5 novembre 1854 viene tuttora insegnato nelle scuole elementari di tutto il Giappone, per spiegare ai bambini come comportarsi in caso di tsunami.Un gesto istintivo che risultò efficace in un’epoca in cui non esistevano sistemi di allerta.

Nel 1946 un terremoto con epicentro in Alaska si trasformò in uno spaventoso maremoto che attraversò tutto il Pacifico nel giro di 6 ore, abbattendosi violentemente sulle isole Hawaii: un gran numero di persone perse la vita.Quell’evento diede una scossa alle istituzioni del settore geofisico, che realizzarono un primo sistema di allerta tsunami provocati da terremoti. Le ricerche vennero costantemente portate avanti, permettendo di istituire, in ordine di tempo, rispettivamente: i sistemi di allerta per l’intero Oceano Pacificopoi per l’Oceano Indiano, quello dei Caraibi e, in ultimo, quello del NEAMTWS(North East AtlanticMediterranean and connected Seat Tsunami Warning System).

Gli obiettivi della Giornata Mondiale istituita si possono così riassumere: riflettere sull’importanza di sviluppare sistemi di allerta accurati e tempestivi, rafforzare la governance del rischio da catastrofi e garantire la partecipazione attiva di tutte le istituzioni interessate.

Lo tsunami

A differenza delle “normali” onde generate dal vento, che muove solo la massa d’acqua in superficie, lo tsunami si genera da un terremoto sui fondali oceanici, capace di sollevare tutta l’acqua sovrastante il fondale stesso. L’enorme massa d’acqua, spostandosi in prossimità delle coste, attraversa fondali sempre meno profondi, tendendo a sollevarsi. Uno tsunami, seguendo tale processo, può arrivare anche a 10 metri di altezza: nessuna barriera portuale è in grado di contrastare un simile “palazzo d’acqua”.

La velocità? Anch’essa impressionante se si considera che, quando si trova su una zona di oceano profonda 4000 metri, il maremoto si muove a 700 km/h!

In Italia

Nel 2017 una direttiva del Presidente del Consiglio dei Ministri ha istituito il Sistema d’Allertamento Nazionale per i Maremoti di origine sismica (SiAM), coordinato dal Dipartimento della Protezione Civile, in collaborazione con Ingv (Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia) e l’Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (Ispra).

L’Ingv effettua la prima parte dell’allertamento, determinando i parametri del terremoto e stimando in tempo reale il relativo potenziale tsunamigenico. A questo punto fornisce i dati al Dipartimento della Protezione Civile, che ha il compito di distribuirli alle diverse istituzioni del SNPC attraverso la piattaforma tecnologica Siam.

Conclusione

Ilrecente tsunami in Indonesia, provocato da un terremoto di magnitudo 7.3 avvenuto il 28 settembre 2018, ha mostrato che la consapevolezza del rischio può fare davvero la differenza tra la vita e la morte. Le onde di tsunami si sono abbattute sulle coste dell’isola di Sulawesi pochi minuti dopo il terremoto. Molte persone hanno perso la vita perché hanno indugiato sulle spiagge o in prossimità delle coste. Nel video ripreso da due telecamere installate nel giardino di una casa si vede, meno di 4 minuti dopo lo scuotimento provocato dal terremoto, l’arrivo rapido e impetuoso dell’onda di tsunami che travolge l’abitazione.

Il WTAD avrebbe potuto prendere il nome di “Giornata Mondiale degli Tsunami”, se si fosse voluto solamente ricordare al mondo l’esistenza di tale fenomeno naturale distruttivo. L’inserimento del termine “consapevolezza” mira a informare e sensibilizzare le persone sull’enorme rischio che si corre, attuando una comunicazione chiara e che si riferisca alle azioni da compiere in caso di imminente maremoto.

Riciclare non basta

Raccolta differenziata

Un concetto relativamente recente nel nostro Paese: fino a metà degli anni ’90 (e in realtà anche oltre) erano rare le famiglie italiane che separavano diligentemente la carta dalla plastica e pochi i Comuni che si impegnavano a chiederlo ai residenti.

Di passi avanti ne abbiamo fatti: se nel 1997 i rifiuti riciclabili conferiti separatamente erano solo il 9,4%, nel 2017 siamo arrivati al 55,5%L’Italia rappresenta oggi un esempio virtuoso di economia circolare.

Peccato che una pratica così utile non sia accompagnata da una strategia altrettanto valida di riduzione dei consumi; se la nostra attenzione alla separazione dei rifiuti è aumentata molto, non è diminuita la nostra produzione totale di spazzatura. Tendiamo a pensare che un foglio di carta riciclata sia a “impatto zero”, ma non è affatto così: solo una parta di quella carta sarà di recupero e per raccoglierla, trasportarla e ritrasformarla occorrono risorse e non sempre rinnovabili.Tutte operazioni che hanno un costo energetico, economico e ambientale.

Sia chiaro, meglio investire risorse nella reimmissione dei rifiuti nel ciclo produttivo che stoccarli in una discarica, bruciarli o, ancora peggio, abbandonarli nell’ambiente. Dobbiamo però essere consapevoli dei costi di quello che utilizziamo e scartiamo, per trovare una soluzione che vada al di là dei bidoni separati.

Plastica

Noi diciamo “plastica”, ma si tratta di molti polimeri diversi tra loro… E non tutti sono riciclabili. Trattandosi di materiali sempre più eterogenei, ricliclarli è complicato: non tutto quello che buttiamo nel bidone sarà recuperato. I più consumati sono polietilene (PET)polipropilene PP, riciclabili (per fortuna) ma solo per un limitato numero di volte.

Vetro

Il riciclo del vetro è vantaggioso per due motivi: riduce la necessità di materie prime e abbassa i costi energetici di fusione fino al 25%. Il problema principale di questo materiale è il suo peso, che richiede più energia per essere trasportato rispetto a imballaggi più leggeri.

Alluminio

Come nel caso del vetro, l’alluminio è riciclabile – idealmente – al 100% e il suo riciclo ha costi molto più bassi della produzione in termini sia energetici che ambientali. Rispetto al vetro è più leggero da trasportare.

Carta

Se dispersa nell’ambiente ha un impatto minore di quello della plastica, ma il settore cartario italiano è uno dei maggiori utilizzatori di energia elettrica (7 miliardi di kWh) e gas naturale (15% del consumo industriale nazionale). La produzione di tipo continuo richiede energia e l’asciugatura dei fogli necessita di calore.

Non ci sono dubbi: riciclare è meglio che produrre da zero. Il problema dei rifiuti, riciclabili e non, è che ne produciamo troppi, circa 180Mt l’anno in Italia.

Due soluzioni

La soluzione migliore è sempre quella che non ci piace: consumare un po’ meno. Limitare i prodotti usa-e-getta quando non sono necessari: dischetti di cotone per il viso, carta assorbente , tovaglioli di carta, bottiglie di plastica e stoviglie monouso possono tranquillamente essere rimpiazzati nella maggior parte delle occasioni.

Per consumare un po’ meno, dobbiamo anche buttare un po’ meno: ci torna utile il concetto di riuso, che – attenzione – non va confuso con il riciclo.

  • Riciclo: reimmissione nel ciclo produttivo come materia prima o prodotto intermedio.
  • Riuso: riutilizzo di un prodotto senza doverlo trasformare

Un foglio stampato può essere usato sul retro per fare un disegno, prendere appunti, lasciare un messaggio sul frigo o annotare la lista della spesa.

Il barattolo dei sottaceti può essere messo in lavastoviglie e riutilizzato come contenitore per alimenti (ad esempio conservare per un paio di giorni la zuppa avanzata).

La maglietta che non mettiamo più può essere regalata a un amico. È rovinata? Sicuramente non troppo per diventare uno straccio per le pulizie in casa.

Ricordiamo poi che comprare oggetti e vestiti di seconda mano è un gesto responsabile dal punto di vista ambientale e sociale. Ogni manufatto richiede il tempo e il lavoro di qualcuno: dare una nuova vita a un oggetto significa valorizzare questo lavoro… E anche il nostro, visto che risparmieremmo un po’ di soldi.

Emergenza climatica

La scoperta dell’effetto serra

La presenza di gas serra è fondamentale per la vita: è grazie a loro che una parte del calore solare rimane sulla Terra, rendendo possibile la vita.

Il primo a teorizzare questo meccanismo fu Fourier nel 1822, quando osservò che la temperatura sulla Terra non rispettava la sua teoria di diffusione del calore. Secondo i suoi calcoli, infatti, la temperatura media del pianeta avrebbe dovuto essere di -18°C (come effettivamente è sulla Luna), mentre, se il calore portato dai raggi solari fosse stato completamente trattenuto, avremmo raggiunto la temperatura del Sole stesso.

Ipotizzò così la capacità dell’atmosfera di trattenere una parte del calore sulla superficie terrestre, ipotesi che fu confermata da Eunice Newton Foote.

Gli esperimenti della scienziata dimostrarono la capacità dell’aria di trattenere il calore e, tra i gas osservati, la particolare efficienza della COin quel senso. Concluse che “un’atmosfera di questo gas darebbe alla nostra Terra una temperatura elevata.

I suoi risultati furono presentati presso l’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza nel 1856, ma trattandosi degli studi condotti da una donna non furono presi in considerazione. Qualche mese dopo l’American Journal of Science and Arts pubblicò un articolo a riguardo, ma cadde velocemente nel dimenticatoio.

Gli stessi esperimenti di Foote furono ripetuti tre anni dopo da John Tyndall, il quale fu ritenuto universalmente lo scopritore dell’effetto serra fino al 2011, quando l’articolo sul lavoro di Foote fu finalmente riscoperto.

Emergenza climatica

Dall’Ottocento a oggi la quantità di CO2 dell’atmosfera è aumentata della sua metà: più di quanto abbia fatto in 3 miliardi di anni.

Le attività umane hanno sempre inciso sugli equilibri degli ecosistemi, che si trattasse di caccia e pesca, agricoltura, allevamento o produzione di energia. Dopo la Rivoluzione Industriale, tuttavia, la loro portata è cresciuta enormemente e così il loro impatto ambientale.

Sia le foreste che i combustibili fossili rappresentano grosse riserve naturali di carbonio, “intrappolato” sottoterra o nella struttura delle piante. Quando li bruciamo, quel carbonio torna nell’atmosfera sotto forma di CO2, innescando così un circolo vizioso: le alterazioni climatiche inficiano sul ciclo dell’acqua, sulla vita di flora e fauna selvatiche e sugli equilibri tra le specie.

Gli incendi delle foreste in Australia, Amazzonia e Africa, le invasioni di insetti provocate dalla scarsità di predatori naturali e le precipitazioni violente a cui stiamo assistendo con frequenza crescente ci fanno capire l’entità del problema.

La soluzione che non piace a nessuno

Il protocollo di Kioto, pur rappresentando una presa di coscienza da parte della politica internazionale, pone degli obiettivi insufficienti a invertire il surriscaldamento dell’atmosfera, anche se fossero rispettati alla lettera (cosa che comunque non avviene).

Bisogna ridurre drasticamente le emissioni di gas serra e aumentare i serbatoi naturali di carbonio. Sono due fronti che si integrano a vicenda: gli ecosistemi delle foreste sono fragili e dipendono dal clima. Se non tuteliamo entrambi,con il passare del tempo avremo meno alberi a proteggerci, un clima più ostile e meno possibilità di tornare indietro.

Abbiamo pochi anni per intervenire e un approccio blando non basterà: ce la faremo?

Parliamo di Sali Minerali

Perché, se costituiscono solo il 6/7% del nostro peso corporeo, i sali minerali rientrano nella categoria “alimenti essenziali”?Perché tali micronutrienti svolgono una serie di funzioni per il nostro organismo, senza le quali faremmo fatica anche solo a respirare. 

Teoricamente: le proprietà

Abitano nel nostro corpo sia allo stato liquido, all’interno del sangue e dei liquidi biologici, che allo stato solido, sotto forma di cristalli nelle ossa e nei denti.

Possiamo distinguere tre differenti gruppi di sali minerali in base alle quantità che bisognerebbe assumere quotidianamente: i macroelementi, gli oligoelementi e i microelementi.

Dei primi abbiamo un fabbisogno giornaliero in termini di grammi o decimi di grammo, sono infatti i più presenti all’interno dell’organismo. Si tratta di elementi quali calcio, fosforo, cloro, potassio, magnesio, sodio e zolfo. Per fare un esempio: l’ossigeno occupa il 65% del nostro corpo, il fosforo l’1%, perciò dobbiamo assumerlo in piccole dosi, appunto grammi o decimi di grammo.

Gli oligoelementi più importanti sono invece: ferro, rame, zinco, iodio, selenio, cromo, cobalto e fluoro. Rientrano in tale categoria tutti quei sali minerali di cui il corpo ha un fabbisogno giornaliero sotto i 200 mg.

Possiamo invece assumere i microelementi di sali minerali al di sotto di 100 mg al giorno.

L’uomo non è in grado di sintetizzare i sali minerali autonomamente, perciò è importante assumerli, rispettando le quantità necessarie, nella dieta quotidiana.

Contribuiscono insieme ad altri micronutrienti allo sviluppo di tessuti e organi (soprattutto denti e ossa). Intervengono inoltre in numerose reazioni indispensabili per le funzioni energetiche dell’individuo.

Praticamente: le funzioni

Si distinguono perciò due ruoli: uno strutturale e uno funzionale, tuttavia alcuni sali minerali possono ricoprirli entrambi. Un esempio di elemento “completo” è sicuramente il calcio,componente fondamentale e insostituibile dello scheletro e dei denti. Il suo passaggio tra interno ed esterno delle cellule muscolari e dei neuroni, attraverso specifici “canali” presenti nelle membrane plasmatiche,gioca inoltre un ruolo chiave nella contrazione muscolare e nella trasmissione nervosa. È coinvolto in numerose reazioni biochimiche cellulari, fondamentali per il corretto funzionamento del metabolismo. A livello plasmatico, contribuisce alla modulazione dellacoagulazionedel sangue.

Sodio e cloro sono fondamentali nel processo digestivo, in quanto contribuiscono alla secrezione degli acidi grassi. Insieme al potassio sono responsabili del bilancio idrico a livello renale. Inoltre svolgono un ruolo importante nella regolazione della pressione arteriosa.

Gli oligoelementi permettono invece l’attività di diversi enzimi e garantiscono il benessere di ossa, tessuto connettivo, milza e fegato.Il fluoro, ad esempio, è essenziale per la formazione dello smalto dei denti e aiuta a contrastare le carie, mentre lo iodio è indispensabile per il corretto funzionamento della tiroide.Il ferro è il componente chiave dell’emoglobina, da cui dipendono il trasporto e gli scambi di ossigeno e anidride carbonica tra polmoni e tessuti.

A eccezione diiodio, selenio e zinco, per i quali è stata necessaria la produzione di particolari integratori, tutti i sali minerali sono largamente presenti negli alimenti della nostra dieta.Tuttavia, anche se il nostro organismo ha bisogno di minime quantità di tali micronutrienti, possono verificarsi delle carenze pericolose dal punto di vista sanitario.

L’intensa sudorazione è uno dei principali responsabili di deficit di sali minerali. Anche lo stress può portare ad accelerare l’eliminazione di sali, così come quelle particolari diete che eliminano intere categorie di alimenti da tutti i pasti.

Debolezza muscolare, stanchezza fisica e mentale, difficoltà di concentrazione, sonnolenza e nervosismo sono i sintomi più comuni di deficit lievi-moderati di sali minerali. I più gravi si registrano soprattutto a livello circolatorio, con rischio di anemie severe e disturbi della coagulazione.

Pelle più viva nel Mar Morto

I sali minerali sono abbondanti in natura, non solo sotto forma di alimenti, ma anche e soprattutto all’interno di elementi naturali quali rocce e mari.

Il mare più salato al mondo, più precisamente lago salato, il Mar Morto, è decisamente ricco di questi materiali. I sali minerali al suo interno permettono di rimanere a galla con estrema facilità, riducendo la pressione sulle articolazioni. La consistente quantità di magnesio presente offre effetti antiallergici su pelle e vie respiratorie.Il bromo invece garantisce un pieno recupero delle forze, grazie alla sua azione “calmante” sul sistema nervoso.Sembra che per problemi dermatologici, come ad esempio la psoriasi, questo mare sia una cura naturale pressoché miracolosa.

Ciò che rende famoso nel mondo il particolare mare del Vicino Oriente sono i suoi fanghi, considerati benefici.Lo zolfo in grande quantità e gli altri sali minerali in essi contenuti, riescono a rendere la pelle liscia e luminosa.

I sali minerali svolgono quindi un ruolo fondamentale sia all’interno dell’organismo sia all’esterno, fungendo da ottimi prodotti naturali per la cura della cute.

Insomma, che dire: facciamoci un tuffo!

Alcuni benefici della soia

È uno degli alimenti alla base della dieta orientale, ma qui in occidente, fino a qualche decennio fa, non ci soffermavamo sugli effetti benefici della soia.

Oggi non è più necessario recarsi in una città cosmopolita per assaggiare piatti tipici di altre culture. L’unica azione da compiere è anzi scegliere in quale tipo di cucina addentrarsi. La scelta ricade spesso sul sushi? Ottimo, la soia abbonda a fianco del pesce crudo giapponese. Ma quali sono le sue proprietà?

In generale

La soia è un legume che contiene tutti e tre i macronutrienti principali: proteine, grassi e carboidrati. Per ogni 100g di prodotto crudo si registrano in media 36g di proteine, 20g di grassi e 30g di carboidrati. I valori indicati variano ovviamente in base al tipo di prodotto contenete soia che viene consumato.

La soia è inoltre ricca di vitamina C, vitamine del gruppo B ed è una buona fonte di fibre. Anche i micronutrienti più importanti fanno quindi parte dei valori nutrizionali del legume “orientale”.

Gli effetti benefici attribuiti alla soia dipendono in gran parte dalla presenza nei suoi semi degli “isoflavoni”, delle molecole ad azione molto simile agli ormoni femminili (gli estrogeni) e ampiamente utilizzate per curare i disturbi da menopausa.

Per le ossa

Alcuni ricercatori dell’Università di Hull (Inghilterra) hanno selezionato 200 donne, che attraversavano appunto la prima fase della menopausa, per condurre uno studio che dimostrasse i benefici di alcuni cibi tipicamente orientali.

La ricerca, durata sei mesi, prevedeva la divisione delle volontarie in due gruppi, entrambi sottoposti a una dieta ricca di soiaA uno dei due raggruppamenti veniva inoltre somministrato un supplemento di 66 milligrammi giornalieri di isoflovoni.

Entrambi i gruppi hanno dimostrato buoni risultati nelle analisi sulla salute delle ossa, che nel periodo della menopausa rischiano in maggior misura di fratturarsi, a causa della bassa produzione di estrogeni.

Le analisi delle donne che avevano ricevuto il supplemento di isoflavoni hanno evidenziato valori del marcatore di debolezza delle ossa ancora più bassi.

Presentando i risultati preliminari dello studio nel 2015, gli scienziati hanno potuto affermare che una dieta ricca di soia e isoflavoni è in grado di migliorare la salute delle ossa nelle donne in menopausa.

Per il cuore

Secondo uno studio internazionale, che ha tenuto conto di 11 lavori diversi volti a dimostrare le proprietà anti-colesterolo della soia, il legume è in grado di abbattere dal 10 al 15% la quantità di colesterolo cosiddetto “cattivo” (LDL).

Un’altra analisi sul medesimo argomento, condotta da alcuni esperti dell’Università di Toronto, ha evidenziato che aggiungendo cibi di origine vegetale (come la frutta secca), già noti per ridurre il colesterolo nel sangue, alla soia si ottiene una riduzione dei fattori di rischio cardiovascolare del 30%.

Un flash per gli sportivi

Le proteine della soia sono tra le pochissime proteine vegetali considerate “complete”, costituite cioè da tutti i 9 amminoacidi essenziali. La soia inoltre è un’ottima fonte di aminoacidi a catena ramificata (BCAA), che svolgono un ruolo decisivo nella costruzione muscolare.

Gli integratori di amminoacidi BCAA vengono utilizzati per migliorare le prestazioni fisiche e soprattutto in seguito a intensi sforzi, per accelerare il processo di recupero.

La soia può essere quindi considerata un ottima alternativa “naturale” agli integratori.

Controindicazioni

Essendo la soia ricca di isoflavoni, negli anni si è discusso il problema di una esagerata assunzione di soia da parte degli uomini. Ci si chiedeva in particolare quali effetti avrebbe potuto avere sul testosterone, l’ormone androgeno prodotto dai testicoli. In pochissimi casi si è registrato l’abbassamento di testosterone, ma secondo gli esperti ciò era dovuto a un’eccessiva quantità di soia consumata, legata ad una dieta complessivamente sbilanciata.

Abitudini alimentari equilibrate e un’assunzione di soia controllata portano, secondo gli esperti, a un effetto neutro sul testosterone.

Ultima curiosità per chi è intollerante al lattosio o segue una dieta vegana: da una ricerca dell’Università McGill è emerso che la bevanda di soia, comparata con le altre bevande vegetali più comuni (mandorla, avena, riso e cocco), è la più equilibrata dal punto di vista nutrizionale.

Conclusione

“Siamo quello che mangiamo” diceva il filosofo Feurbach più di duecento anni fa.

L’alimentazione è una cosa seria, da essa dipende gran parte della nostra salute. Gli effetti benefici della soia in determinate situazioni sono stati ampiamente dimostrati, ciò non la esclude da un principio comune a tutti gli alimenti: non esagerare.

Prima di modificare le proprie abitudini alimentari è bene rivolgersi a nutrizionisti esperti, in modo da poter beneficiare di tutti i cibi che fanno bene al nostro organismo.