Veicoli elettrici e ibridi nel dettaglio

Oggi in molti si sentono di affermare che le auto elettriche sono il futuro.

I singoli Stati si sono dati degli obiettivi a breve e a lungo termine, dopo essersi evidentemente confrontati con le case automobilistiche propense al cambiamento.

Il traguardo da raggiungere, si sa, è abbattere il consumo di gas tossici per l’ambiente, i maggiori responsabili del surriscaldamento globale, che ha già provocato danni irreparabili agli ecosistemi e non sembra fermarsi.

Ma quali sono i veicoli elettrici a disposizione oggi?

Full Electric

Si parte dal modello che più rispetta la riduzione delle emissioni inquinanti, anzi li azzera se si prende in considerazione soltanto l’utilizzo effettivo del veicolo, e non il processo di produzione e successivo smaltimento. È l’auto completamente elettrica, detta BEV (Battery Electric Vehicle).

È dotata di un solo motore elettrico alimentato da un pacco batterie ricaricabili. Oltre a non emettere gas tossici, è la vettura più silenziosa: dal motore si percepisce un leggero sibilo neanche lontanamente paragonabile al rumore dei motori a benzina o diesel.

Ottima per l’ambiente quindi, ma quanto costa?

Anche in questo caso, non essendoci serbatoi da riempire ma solo batterie da ricaricare, il risparmio è assicurato. Ma?

Ma chiaramente per godere di tutti questi risparmi c’è bisogno di un investimento iniziale consistente. Tra i veicoli ibridi e elettrici il BEV è il più costoso. L’autonomia dipende dal modello che si acquista, ma in generale essendoci la possibilità di rifornirsi direttamente in garage, il secondo investimento da fare è acquistare e installare una colonnina di ricarica.

Perché? Innanzitutto perché è ancora esiguo il numero di punti di rifornimento nel nostro Paese, quindi si rischierebbe di perdere tempo e kilometri solo per fare un pieno. Inoltre l’energia elettrica che si “preleva” da casa è meno costosa rispetto ai prezzi fissi delle colonnine di ricarica pubbliche.

Full Hybrid

Il timore delle batterie scariche con scarse possibilità di rifornimento e la grossa spesa iniziale sono degli ostacoli per tante persone, perciò il mercato ha dovuto adattarsi alle esigenze dei consumatori. Al fianco delle auto elettriche sono state proposte soluzioni intermedie tra l’auto tradizionale e quella del futuro: si tratta delle famose auto ibride.

In questo caso però non esiste una sola tecnologia, anzi se ne contano ad oggi 3 diverseFull HybridMild Hybrid e Plug-in Hybrid. L’inglese è la lingua internazionale ormai da anni, tuttavia dal semplice nome dato alle varie tecnologie non è così facile comprenderne il funzionamento.

La prima auto ibrida venne presentata in Giappone nel 1997 dalla Toyota. Il modello sfruttava la tecnologia “Full Hybrid”: due motori, uno a benzina l’altro elettrico, che lavorano in sinergia. Come? Quando è richiesta maggiore energia, ad esempio nelle accelerazioni, il motore elettrico sostanzialmente “accompagna” il termico nello sforzo. Quando poi la velocità sale e diventa costante, il sistema elettrico è “a riposo” e continua a lavorare solo il motore a benzina.È possibile per piccoli tratti e a bassa velocità “far riposare” il motore a benzina e viaggiare completamente in elettrico.

Dove sono i vantaggi? Rispetto a un’auto tradizionale, la spinta che l’elettrico offre in accelerazione permette sia di risparmiare sul carburante, sia di limitare l’emissione di sostanze tossiche, che vengono rilasciate in maggior misura quando i giri del motore salgono (ripartenza, accelerazione). Rispetto a un veicolo totalmente elettrico, invece, un piccolo vantaggio sta nel rifornimento. Non nel prezzo, perché bisognerà sempre riempire il serbatoio di benzina, ma nella comodità, poiché le batterie del motore elettrico si ricaricano autonomamente, sfruttando le frenate e il “rilascio” dell’acceleratore.

In conclusione: il risparmio esiste sia in termini economici (si mette la benzina ma il consumo complessivo è ridotto), sia sul piano ambientale poiché, come accennato, le emissioni nei momenti più critici vengono moderate dall’intervento del motore elettrico.

Mild Hybrid

La tecnologia Mild Hybrid, nata pochi anni fa, ha lo stesso funzionamento del precedente. La differenza sta nella grandezza del motore elettrico: nella Mild Hybrid è talmente piccolo che spesso viene posto all’interno del cambio.

Conseguenza? Ha molta meno potenza, perciò garantisce minori emissioni fornendo energia in accelerazione e recuperandola in frenata, ma non è in grado di far guidare l’auto in modalità completamente elettrica.

Essendo poco pesante e potente, è il motore consigliato per le auto di piccola misura.

Plug-in Hybrid

Aiutare in accelerazione e approfittare della frenata è il principio che regola anche l’ultima tecnologia rimasta, la Plug-in Hybrid. La differenza?

Il pacco batterie che alimenta il motore elettrico è molto più grande dei due precedenti, quindi il lavoro è più efficace. Inoltre le batterie possono essere ricaricate proprio come avviene per un’auto elettrica, tramite le colonnine. I veicoli sono in grado diviaggiare per circa 50 km in modalità elettrica “zero emissioni”, dopodiché le batterie si scaricano e si passa all’alimentazione tradizionale a diesel o benzina.

È il veicolo perfetto per chi si reca sul posto di lavoro in macchina. Chiaramente l’ufficio dovrà trovarsi nel raggio di 20-25 km dall’abitazione, in modo da guidare quotidianamente un’auto elettrica. Quando invece si effettuano lunghi viaggi si sfrutta il principio di tutte le auto ibride e si risparmia su emissioni e carburante.

La pecca? Essendo pesante il pacco batterie aumenta anche il peso complessivo dell’auto. E si sa, maggiore è il peso del veicolo, maggiore il consumo, maggiori le emissioni. I vantaggi restano evidenti, ma questo aspetto va considerato e calcolato.

Prezzi e considerazioni finali

Nel rispetto dell’ambiente, chiaramente, la scelta migliore da fare sarebbe il Full Electric: si azzerano completamente le emissioni nocive. Si è già detto dell’ingente investimento da fare, ma bisogna considerare: un pieno di carburante per effettuare 5-600 km si aggira ad oggi intorno ai 50€, in una colonnina elettrica “pubblica” intorno ai 30€. Un pieno sfruttando la corrente di casa andrebbe a costare intorno ai 15€, e il prezzo sarebbe ancora più irrisorio se si avesse a disposizione un impianto fotovoltaico.

Molto costosi sono anche i modelli Plug-in Hybrid, ma offrono la modalità “zero emissioni” per il tratto sopra menzionato, inoltre il guidatore non si ritroverebbe smarrito nel caso in cui le batterie fossero scariche, poiché potrebbe viaggiare in modalità tradizionale.

Queste due categorie, insieme alla Full Hybrid, godono di un ulteriore importante vantaggio, soprattutto per chi vive nelle grandi città: i parcheggi nelle strisce blu in diverse zone sono gratuiti, ed è gratuito anche il transito nelle aree ZTL.

La Mild Hybrid, sfruttando in misura decisamente minore il motore elettrico, non rientra in queste misure ma gode, come le altre, di tutti i bonus e gli incentivi messi in campo dal Governo.

L’importanza delle etichette

L’abito non fa il monaco, è vero. Bisogna tenerlo a mente quando si conoscono nuove persone e istintivamente si tende a fidarsi, ma davanti allo scaffale di un supermercato o di un’enoteca, siamo sicuri di poter rispettare questa massima? A meno che non si riesca a parlare con una bottiglia di vino, oppure si possiedano dei superpoteri che permettono di conoscere il sapore della bevanda quando la bottiglia è chiusa, bisogna fidarsi. Di cosa? Dell’etichetta, ovviamente.

Breve storia

Le prime descrizioni del vino risalgono agli Antichi Egizi, un popolo con l’arte nel DNA. Incidevano sulle anfore di vino il nome del produttore, i dati della bevanda, la provenienza e l’anno di produzione. Questa testimonianza arriva dai numerosi recipienti ritrovati nella tomba di Tutankhamon.

I Romani invece incidevano sulle anfore il nome del vino e anche la quantità di contenitori prodotti contenenti una specifica bevanda.

Il metodo dell’incisione venne abbandonato definitivamente nel 1796 con l’invenzione della litografia, che dava la possibilità di stampare più copie della stessa etichetta. Tuttavia già nel secolo precedente il celebre monaco francese Dom Pérignon decise di legare con uno spago una pergamena, contenente l’annata e le vigne di origine dei suoi Champagne, sul collo della bottiglia.

Nel 1840 venne presentata la prima etichetta illustrata, quella che conosciamo e utilizziamo ancora oggi. A introdurla fu lo svizzero Henri-Marc, proprietario dellaMaison De Venoge, che la propose per le bottiglie di Champagne.

Vivino

Da quel momento la struttura dell’etichetta è rimasta la stessa, anche se si sono susseguiti diversi disciplinari che imponevano alcune caratteristiche del vino da introdurre nella descrizione.Oggi viviamo nell’era digitale e anche un prodotto con una storia secolare come il vino ha la necessità di adattarsi alla modernità.

Lo hanno capito tanti produttori, ma i primi a proporre un’evoluzione della comune etichetta sono stati i danesi dell’azienda Vivino. Hanno ideato una piattaforma sulla quale è possibile consultare maggiori informazioni e recensioni sui vini a partire dall’etichetta. Come? Tramite la fotocamera dello smartphone: viene posto sul fondo delle etichette un particolare codice, il QR-code, che viene riconosciuto dal telefonino, permettendo al cliente di accedere alla piattaforma con un semplice tocco.

In questo modo, per utilizzare un’altra massima diffusa, non si giudica il libro dalla semplice copertina, ma si accede al giudizio di chi quel vino lo ha già assaggiato.

Innovativo, utile, ma non obbligatorio, per ora. Cosa deve contenere allora, secondo i regolamenti, l’etichetta di una bottiglia di vino?

Le etichette in UE

Il regolamento europeo numero 607 del 2009 stabilisce le informazioni obbligatorie che tutti i produttori degli Stati membri devono fornire ai consumatori.

  • Tipologia di vino o denominazione indicata per esteso (Esempio: Denominazione di Origine Controllata)
  • La percentuale alcolica (Esempio: 14% Vol.)
  • La capienza della bottiglia (Esempio: 0,75l)
  • L’imbottigliatore se è diverso dal produttore. In questo caso bisogna indicare il nome dell’azienda che si è occupata dell’imbottigliamento e il comune di provenienza.
  • Il lotto: una combinazione alfanumerica che permette di risalire alla data di imbottigliamento e ai registri della partita di vino, in modo che il prodotto sia rintracciabile. Il codice alfanumerico che indica il lotto è sempre preceduto dalla lettera L maiuscola.
  • La presenza di solfiti (SO2) se sono presenti in quantità maggiore di 10 mg/l.

Tutte le informazioni elencate devono essere contenute nel medesimo campo visivo, nel fronte o nella retroetichetta.

Cosa dovrebbe contenere

Nell’aprile del 2017 si è tenuto in Liguria il seminario “L’importanza delle etichette nella comunicazione del vino”, a cura diAlfio Antognetti,CEO e Art Director di RES Comunicazione.

L’esperto di marketing ha affermato: “L’etichetta non è un accessorio, ma è parte integrante del prodotto, ne decide la forma e dunque l’esperienza quotidiana del consumatore … deve essere funzionale, comunicare la storia del prodotto e di chi lo produce, suscitare sensazioni”.

Un’eccellenza italiana

Una donna divenuta ormai un’istituzione nel design delle etichette ritiene che bisogna considerare anche il luogo di vendita destinato ad un determinato prodotto. Si chiama Simonetta Doni e da 20 anni collabora con aziende di tutto il mondo dal suo studio nel centro di Firenze.

In merito alle differenziazioni ha affermato: “Se va sui ripiani di un supermercato l’etichetta dovrà avere un maggiore impatto visivo, se va alla ristorazione potrà essere più sofisticata e più leggera nella grafica poiché potrà contare su qualcuno che saprà presentare il vino al cliente, se va in un’enoteca si lavorerà su qualcosa di ancora più raffinato.”

Nei ristoranti e nelle enoteche lavorano spesso i sommelier, figure professionali esperte nella comunicazione del vino, i quali riescono a suscitare le emozioni nel consumatore di cui si parlava. L’impatto visivo quindi viene sostituito dall’impatto “uditivo” dato da una dettagliata descrizione.

L’abito non fa il monaco dicevamo all’inizio, allo stesso modo una buona etichetta non identifica necessariamente un buon vino. Nel momento dell’acquisto però un’etichetta di qualità fa la differenza più delle caratteristiche organolettiche del vino, semplicemente perché queste ultime si scopriranno solo dopo aver comprato la bottiglia.

Cari amici produttori, se credete che il vostro vino abbia bisogno di una spinta in più per incrementare le vendite, forse è il caso di prenotare un appuntamento dalla dottoressa Doni o dalle altre figure specializzate nel nostro Paese.

Il re dell’Artico

C’è chi ama respirare il freddo gelido di questi giorni e chi invece rimarrebbe davanti a un bel camino intere giornate. C’è poi chi trascorrerebbe le vacanze natalizie nelle spiagge dell’emisfero australe e chi si avventurerebbe negli igloo della Groenlandia. Infine c’è un animale gigante che in questo momento si starà stiracchiando su delle lastre di ghiaccio e non ci pensa proprio a trovare riparo.

È il re dell’Artico, sembra bianco (ma non lo è) e a guardarlo in fotografia viene voglia di abbracciarlo, ma sicuramente incontrarlo da vicino genererebbe sensazioni opposte.

Caratteristiche

L’ursus maritimus, comunemente chiamato orso bianco o orso polare, è il carnivoro terrestre più grande del mondo. I maschi, che arrivano a pesare circa 800 kg per una lunghezza di 3 metri, sono grandi circa il doppio delle femmine, lunghe al massimo poco meno di due metri dal naso alla coda e (anche loro non proprio leggere) possono pesare intorno ai 300 kg.

La folta pelliccia ricopre anche le zampe, fungendo da isolante termico e, come accennato, copre una curiosa verità. Il riflesso della luce sul ghiaccio fa percepire ai nostri occhi la colorazione chiara dell’animale, ma sotto la folta pelliccia si nasconde una spessa pelle scura.

Riescono a nuotare in acqua per chilometri a una velocità media di 10 km/h, con le zampe posteriori che fungono da timone, mentre le anteriori vengono utilizzate come dei veri e propri remi.

Sono animali solitari, soprattutto i maschi, che si uniscono alle femmine per pochi giorni solo nel periodo della riproduzione. Le mamme orso si riproducono ogni 3-4 anni e partoriscono in media due cuccioli per volta. Se ne prendono cura per i primi anni di vita, insegnando loro i metodi di caccia. Quest’ultima attività occupa la maggior parte del tempo degli orsi polari, ottimi nuotatori ma anche pazienti predatori.

Di cosa si ciba

Si ciba principalmente di foche, trichechi, pesci e uccelli marini. Riesce a percepire l’odore della preda anche a chilometri di distanza e attende ai margini delle pozze d’acqua la risalita delle foche (per respirare), catturandole in un batter d’occhio.

I rischi a causa del Global Warming

Ad oggi si contano tra i 20 e i 30mila individui di orso polare, suddivisi dagli scienziati in 19 popolazioni distinte. Quattro di queste sono in pericoloso declino, per le altre la situazione sembra attualmente stabile, anche se con il costante surriscaldamento le condizioni sono destinate a cambiare drasticamente.

Il ghiaccio serve agli orsi per percorrere lunghe distanze in cerca di cibo e a riprodursi: le femmine partoriscono i cuccioli in grandi buche scavate nel ghiaccio.

Lo strano caso canadese

Una ricerca portata a termine quest’anno ha dato un risultato decisamente inaspettato. Una popolazione di orsi polari (Ursus arctos), che abita la baia di Kane, tra Canada e Groenlandia, sembra stia beneficiando del surriscaldamento globale per nutrirsi.

Gli scienziati hanno studiato 300 individui, riscontrando un miglioramento della salute di questi animali. Ciò è dovuto alla maggiore luce solare che raggiunge l’oceano, favorendo la produttività delle specie che lo abitano. In questo modo gli orsi hanno più cibo a disposizione e perciò godono di migliore salute rispetto agli anni ‘90.

Attenzione però, perché questa è una situazione temporanea e l’intero habitat, se la situazione dovesse continuare a peggiorare, si ritroverebbe danneggiato, perciò tutte le specie animali al suo interno andrebbero via via scomparendo.

Gli Eschimesi

L’orso, teoricamente, non ha predatori: nessun animale è in grado di cacciarlo (o forse non ne hanno il coraggio). Tuttavia le popolazioni che abitano la Groenlandia, gli Eschimesi, tradizionalmente si cibano di carne di orso cruda.

Curiosamente una parte del gigante viene gettata via, il fegato. Non è commestibile? Lo è, ma contiene una quantità troppo elevata di vitamina A, perciò se viene ingerito può portare un essere umano alla morte.

Il WWF porta avanti diversi progetti a difesa di questi bellissimi animali. Ognuno di noi può fare la sua parte, consultando il sito dell’organizzazione e “adottando” un orso polare (ovviamente a distanza).

Un albero a prova di gatto

È il momento di fare l’albero di Natale: una vera gioia per i nostri gatti di casa, che non vedono l’ora di arrampicarsi tra i rami decorati e giocare con gli addobbi. Un po’ meno per noi, che dovremo accucciarci sotto ai mobili e spostare divani per trovare quella pallina che fino a ieri sera se ne stava appesa al nostro abete.

Come proteggere il nostro albero dagli agguati degli indomiti felini?

I colori

Sfatiamo subito un mito: non è vero che cani e gatti vedono in bianco e nero.

La visione “a colori” ci è data da cellule particolari della retina: i coni. L’occhio umano ne possiede di tre tipi, utili a distinguere rispettivamente le frequenze luminose del rosso, del verde e del blu. I nostri pet, invece, possiedono solo quelli del verde e del blu: se la cavano quindi con i colori freddi, mentre rosso, arancione e marrone sono per loro quasi indistinguibili.

Deduciamo quindi che addobbi blu, gialli, verdi e violetti saranno molto più attraenti agli occhi del micio. Puntando sul classico rosso natalizio, quindi, andrai più sul sicuro.

La luce

Di notte cani e gatti hanno una capacità visiva ben 8 volte superiore a quella umana. Ciò dipende dai bastoncelli, cellule che catturano le luci fioche e le rendono più nitide, e dal “tapetum lucidum”, uno strato riflettente che convoglia tutta la luce disponibile verso la retina (se vedi gli occhi del tuo pet brillare al buio, quindi, non ti spaventare). Addobbi lucidi, in grado di riflettere la luce, saranno molto facilmente individuabili dalla tua tigre da salotto.

Importante non far giocare il gatto con gli addobbi prima di appenderli all’albero: se li considera come propri giocattoli, farà di tutto per cercare di recuperarli.

Gli odori

Alcuni odori che per noi sono gradevoli non piacciono affatto ai nostri gatti. Agrumi e citronella sono tra questi: puoi sfruttare l’aspetto decorativo delle arance essiccate, oppure spruzzare degli olii essenziali sui rami del tuo albero.

Addobbi pericolosi

I nastri argentati creano bellissimi giochi di luce, ma spesso sono piuttosto semplici da rompere in piccoli pezzi, che potrebbero soffocare i gatti più curiosi e “masticoni”. Occhio anche alle decorazioni di cioccolato: per i gatti è tossico e potenzialmente mortale!Se stai pensando di mettere le luci, copri adeguatamente i cavi con del nastro isolante, per evitare che il tuo micio li rosicchi.

Insomma, avere un gatto comporta qualche piccolo sacrificio in termini di arredamento e decorazioni, ma siamo certi che le sue fusa vi faranno presto dimenticare gli addobbi a cui avete dovuto rinunciare.

La torta: dall’antichità ai giorni nostri

Oggi è il compleanno di qualcuno a cui tieni molto e vuoi organizzare una festa. Cosa bisogna inserire nella lista della spesa? Sicuramente qualche stuzzichino, dei palloncini colorati e il suo piatto preferito. Poi bisogna pensare a della buona musica per rendere l’ambiente festoso e invitare un po’ di amici. Ci siamo? Certo che no. Che festa sarebbe senza una torta di compleanno?

Da dove arriva?

Non si finisce mai di stupirsi scoprendo la grande cultura e le tradizioni nate nell’Antico Egitto. Le prime prove di “dolci per una ricorrenza” risalgono proprio al popolo africano, ed è curioso che venissero preparate per l’occasione “opposta” a quella moderna. Non si celebrava infattiil giorno della nascita, bensì quello della morte. Strano? No, perché si trattava comunque di un augurio affettuoso, quello per una serena vita del defunto nell’aldilà. Si preparavano dellepagnotte addolcite con il miele, quelle che possiamo considerare le antenate della nostra amata torta di compleanno.

Gli sviluppi

Dall’Egitto si passa in Grecia, una civiltà piuttosto curiosa verso le “buone abitudini” dei popoli stranieri (pur considerandoli barbari).

I Greci erano politeisti e organizzavano diverse manifestazioni in onore degli dei. La dea della Luna, Artemide, veniva omaggiata con una pagnotta tonda, per ricordare la forma del satellite, preparata con farina e miele.

Le candele

Secondo alcune fonti, la torta veniva illuminata con delle candele. Chiaramente la divinità non scendeva sulla Terra per spegnerle ed esprimere un desiderio, ma lo facevano i fedeli al posto suo, con l’obiettivo di allontanare gli spiriti maligni.

Nella Germania del Medioevo, le candele venivano usate per allontanare gli spiriti malevoli nel giorno del compleanno di un bambino. Lacandela veniva accesa all’alba e, a fine giornata, si spegneva e finalmente si mangiava un dolce.

Il XVII secolo

Lo zucchero prima del 1600 era molto costoso, infatti era il miele l’ingrediente base dei dolci per le ricorrenze. Non è un caso che il termine gâteau, “torta” in francese, derivi da gastel, un biscotto tipico transalpino piatto e rotondo, preparato con farina, miele e grasso. Nel XVII secolo il prezzo scese e le famiglie più abbienti potevano permettersi di festeggiare con una torta.

Tra 1800 e 1900

Alla fine del 1800 i pasticceri iniziarono a rendere le torte più colorate per dedicarle ai bambini e a decorarle con delle scritte di auguri. Nel 1900, quando radio e successivamente televisione divennero alla portata di tutti, intorno alla torta di compleanno si costruì un vero e proprio business, esportato in tutto il mondo.

Curiosità

Esiste un libro, intitolato “Cake: A Slice of History”, che racconta nei dettagli la storia delle torte di compleanno, scritto dalla storica britannica Alysa Levene.

In Cina non si aspetta il compimento di un anno per la prima torta, ma se ne prepara una a forma di tartaruga al primo mese di vita, per augurare al neonato una lunga e sana esistenza.

Sembra che la buonissima cheese cake, nata ufficialmente a New York nel 1872, abbia origini ben più lontane. Nel De agricultura di Catone il Censore si parla di un dolce, la placenta, realizzato con formaggio in mezzo a due dischi di pasta.

Dal latte materno al latte vaccino

È l’alimento che ci accompagna nei nostri primi mesi di vita: una soluzione che contiene tutti i nutrienti di cui abbiamo bisogno sin da quando usciamo dal pancione. Cambia mentre noi cresciamo e, una volta passati alle pappe, iniziamo a eliminarlo e sostituirlo con quello di mucca. Quanto è importante il latte nella nostra vita?

Come nasce il latte materno

Con l’inizio della gravidanza i seni iniziano a cambiare. Dalla quarta settimana all’interno della ghiandola mammaria si formano le cellule produttrici di latte, i lattociti, insieme ai dotti lattiferi che trasporteranno il latte al capezzolo. I lattociti si attivano già dalla quindicesima settimana di gravidanza.

Dal primo al sesto giorno di vita il neonato riceverà il colostro,la prima forma di latte materno ricco di proteine e sali minerali, che consente al bambino di recuperare i liquidi persi dopo il parto (per 9 mesi il feto ha vissuto in un ambiente liquido). Il colostro è inoltre ricco di anticorpi , come ad esempio le immunoglobuline.

Dal sesto al quindicesimo giorno le mammelle producono il cosiddetto latte di transizione: diminuisce la quantità di proteine e sali minerali, mentre cresce quella di grassi e lattosio. In questo modo vi sarà un maggiore apporto calorico, per soddisfare il fabbisogno energetico del bambino.

Il latte maturo è invece l’ultima varietà di latte materno che viene prodotta dal quindicesimo giorno fino allo svezzamento. Rimane alta in questo caso la concentrazione di glucidi e lipidie aumenta anche quella di anticorpi: non a caso la produzione di questo latte coincide con la fase in cui il bambino inizia ad afferrare gli oggetti e portarseli alla bocca!

Come per tutti i mammiferi, il latte prodotto dalla mamma è il miglior alimento per garantire una corretta crescita del bambino (o cucciolo), in quanto contiene tutti gli elementi nutritivi nelle proporzioni adeguate.

L’importanza della lattasi

Quando nasciamo il nostro organismo produce un enzima, la lattasi, in grado di scindere il lattosio in galattosio e glucosio, zuccheri più semplici che il nostro corpo è in grado di utilizzare.

Crescendo la produzione di lattasi diminuisce e in molte persone arriva a scomparire quasi del tutto intorno al quinto anno di età. Questo determina l’intolleranza al lattosio, che interessa adulti di tutto il mondo, ma in particolare gli abitanti autoctoni di Africa e Asia. Come mai?

In Scandinavia 9 adulti su 10 continuano a digerire il lattosio anche dopo l’infanzia e in tutto il Nord Europa le persone che riescono a digerire il lattosio sono la maggioranza. Questo dipende dal gene dominante LCT, che determina la persistenza della lattasi: si tratta probabilmente del tratto più favorito in assoluto dalla selezione naturale umana. I popoli del Nord dipendevano fortemente dalla pastorizia: chi poteva digerire latte e derivati godeva di una miglior salute e aveva maggiori possibilità di mettere al mondo figli a cui trasmettere il gene.

Il calcio

Uno dei principali problemi nelle persone intolleranti al lattosio, specialmente in età avanzata, è la maggior predisposizione a osteopenia e osteoporosi. Questo perché il latte e i latticini sono tra le nostre principali fonti di calcio e il lattosio stesso ne facilita l’assorbimento dalle pareti dell’intestino. Per fortuna le persone intolleranti possono comunque consumare formaggi stagionati come il Parmigiano Reggiano DOP, particolarmente ricco del prezioso minerale.

Ci sono poi altre fonti di calcio che provengono dal mondo vegetale: mandorle, i fichi secchi e fagioli di soia, ma anche semi di sesamo e basilico secco, due ingredienti che possiamo facilmente aggiungere ai nostri piatti.

Sarebbe un peccato poi dimenticare la tanto bistrattata acqua di rubinetto, il cui temutissimo calcare altro non è che una fonte di calcio pronto a rinforzare le nostre ossa (e non ad affaticare i reni).

Per gli adulti

Prima dei 30 anni il calcio è decisamente importante per il corretto sviluppo del tessuto osseo. Dopo questa soglia di età (approssimativamente) il “bilancio assunzione-perdita” inizia a essere negativo: le ossa perdono più calcio rispetto a quello che riescono a immagazzinare. Ciò non dipende esclusivamente dall’età, ma si combina a stili di vita scorrettielevato apporto di proteine animali, eccesso di alcol, caffeina e sodio, ma soprattutto la sedentarietà sono fattori determinanti che accelerano l’espulsione del calcio dalle ossa.

Di che colore vuoi i capelli?

C’è chi è biondo, ma voleva essere moro, chi invece è rossa ma si preferisce castana. Si dice addirittura che Cleopatra, così come altre donne in Egitto, usasse nascondere i suoi capelli grigi, sintomo di vecchiaia, con l’henné, un colorante in uso ancora ai giorni nostri.

Ma a cosa è dovuto il colore dei nostri capelli? E come funzionano i coloranti? E perché a un certo punto i capelli diventano bianchi?

Da cosa dipende il colore

La colorazione naturale dei capelli dipende da un pigmento prodotto dai melanociti, la melanina, che si presenta in due forme differenti: eumelanina e feomelanina.I capelli neri o castani, quindi scuri, dipendono dalla presenza di una grande quantità della prima forma. L’alta concentrazione di feomelanina invece determina i colori più chiari, rosso e biondo.

Secondo le attuali conoscenze in campo genetico, la colorazione scura deriva dai geni dominanti trasmessi dai genitori, mentre i colori chiari dai geni recessivi.

Bisogna chiarire che il colore dei capelli, così come quello degli occhi, non dipende esclusivamente dai genitori, ma dal patrimonio genetico che essi hanno a loro volta ereditato.

Se siete entrambi castani e vostro figlio nascerà con i capelli biondi perciò non chiamate l’esorcista (si scherza), ma cercate nel vostro albero genealogico i biondi responsabili.

Arrivano i capelli bianchi e grigi

Sappiate anche che il bimbo non rimarrà biondo per tutta la vita, perché con l’avanzare dell’età potrà venire incontro a due possibili scenari: la perdita dei capelli, o il passaggio ai capelli grigi o bianchi. Perché?Fisiologicamente ogni persona, tra i 30 e i 40 anni, scopre la presenza dei primi capelli bianchi. Ciò dipende dal fatto che il corpo, a partire da questa età, riduce la produzione di melanina.

Se ne compare qualcuno a 20 anni quindi vuol dire che si sta già invecchiando? No, è ancora una volta una questione genetica: in questo caso è molto probabile che i consanguinei abbiano subito la stessa sorte. Lo stesso discorso vale per i nonni sempreverdi, quelli che presentano ancora il colore naturale dei capelli a 60-70 anni.

Ci sono però altri fattori che determinano queste condizioni. I capelli bianchi in età giovanile ad esempio possono dipendere da uno stile di vita stressante e poco equilibrato.

Perché alcuni anziani hanno i capelli bianchi e altri grigi? Il bianco indica la scomparsa totale della colorazione naturale e quindi l’arresto definitivo della produzione di melanina. Il grigio invece indica la presenza di una minima parte del colore naturale dei capelli, solitamente neri, e quindi la produzione di melanina è ridotta ma non terminata. Il rimedio? Uno e unico, tingersi i capelli.

Come funziona la tinta

Esistono tre tecniche differenti di tinturauna temporanea che agisce sull’esterno del capello, una permanente che entra in profondità e colora i capelli dall’interno, e una via di mezzo tra le due.

La prima si realizza con dei prodotti che si trovano facilmente sugli scaffali dei supermercati o dei negozi per cosmetici. Sono delle sostanze già colorate che si limitano a depositare il colore sull’esterno del capello. Sono costituite da coloranti con PH acido che si legano debolmente alla cheratina dei capelli. La debolezza del legame fa sì che questi coloranti vengano facilmente rimossi con il lavaggio, per questo si parla di tintura temporanea.

L’80% del mercato delle tinture è rappresentato dalla seconda tipologia, quella permanente.Per permettere che il colore desiderato rimanga appunto a lungo sui capelli devono verificarsi alcune reazioni chimiche, sia sul prodotto che all’interno del capello.

La tintura si ottiene da due prodotti separati. Uno, detto “crema colorante”, contiene tutti i precursori dei coloranti e l’ammoniacaL’altro contiene additivi che si occupano di conservare la consistenza e a preservare i componenti della crema colorante. L’ingrediente predominante di questo secondo prodotto, detto “latte rivelatore”, è il perossido di idrogeno, meglio conosciuto come acqua ossigenata.Appena i due prodotti entrano in contatto parte la prima reazione chimica, che porta al colore da applicare. Se prevale l’acqua ossigenata rispetto ai precursori dei coloranti si avrà una colorazione più chiara e viceversa.

A questo punto la tintura ricavata viene spalmata sui capelli. Qui inizia la seconda reazione portata avanti dall’ammoniaca, una sostanza che alza fortemente il PHlasciando strada libera all’acqua ossigenata per le successive reazioni. Prima di tutto l’H2O2 rompe la struttura chimica della melanina, comportando una “decolorazione” dei capelli. Ciò è fondamentale poiché la nuova colorazione darà risultati solo se la melanina è inattiva.

Facendo un passo indietro, la reazione che avviene tra latte rivelatore e crema colorante comporta anche una trasformazione chimica molto importante, quella responsabile della permanenza a lungo termine.Quando i due prodotti vengono a contatto infatti alcuni precursori dei coloranti, detti accoppiantitrasformano la loro struttura molecolare, legandosi ad altri prodotti: da una molecola piccola si passa a una molecola molto più grande.

Applicando la soluzione di colore ottenuta rapidamente al capello, succede questo: le molecole piccole (portatrici del colore) si insidiano nel capellodove poi trasformano la loro struttura e rimangono intrappolate perché sono troppo grandi per poter uscire.

Non rimane che descrivere la via di mezzo, che sostanzialmente applica entrambi i meccanismi sopra menzionati. Non sfruttando però a pieno le reazioni chimiche tipiche della tintura permanente, tramite tale tecnica la colorazione rimarrà invariata per un periodo indicato sulla confezione, variante in media dai 20 ai 28 lavaggi.

Come nasce un tappeto persiano

Spesso ci si stupisce davanti ai prezzi di alcuni oggetti, semplicemente perché si considera l’utilità e non ci si interroga sul lavoro che c’è dietro alla realizzazione. È il caso dei famosi tappeti persiani, vere e proprie opere d’arte che anche nel nostro Paese sono fortemente apprezzati dagli intenditori.

Breve storia

I tappeti vengono realizzati con dei materiali che col tempo si degradano, quindi è molto difficile trovare un pezzo antico ancora ben conservato e soprattutto identificare l’epoca delle prime realizzazioni.

Alcune ipotesi immaginano la motivazione della nascita dei tappetile popolazioni nomadi dell’Asia centrale, alle quali ancora oggi appartengono i migliori artigiani, avevano bisogno di coperte consistenti per affrontare l’inverno negli accampamenti. Avrebbero deciso di utilizzare la lana delle pecore che vivevano in quelle zone per realizzare coperture per le tende fatte a mano, inserendo tramite alcune tecniche delle decorazioni sui materiali. A supportare la tesi ci sarebbe la teoria che l’unico strumento indispensabile fosse il telaio, sul quale si poggiava la lana per poterla lavorare, e che questo fosse semplice da trasportare, essendo composto di due semplici assi di legno.

La prima testimonianza storica sui tappeti risale al 400 a.C. e deriva dalla letteratura greca, in particolare dal libro “Anafasi” di Senofonte. Nel testo si parla di oggetti preziosi, di lusso, utilizzati come doni per le istituzioni.

La prova concreta dell’esistenza dei tappeti persiani già nell’avanti Cristo è stata rinvenuta in Siberia nel 1947, in seguito a degli scavi che hanno portato alla luce un’antica tomba sciita.Gli studiosi fanno risalire il prezioso tappeto al V secolo a.C. e affermano che la conservazione è stata resa possibile dalle basse temperature.

Ma come venivano, e vengono ancora oggi, realizzati i tappeti?

I materiali

La lana ovina ricavata dalle pecore delle tribù nomadi Qashqai e Bakhtiari è quella da secoli più utilizzata per ottenere i tappeti persiani. Anche il cotone, coltivato direttamente nella maggior parte dei Paesi produttori, può far parte dei materiali di realizzazione. La seta invece si utilizza per i fili dei tappeti più raffinati ed è ottenuta dai bachi da seta.

Le tecniche

I metodi dei nomadi sono stati acquisiti negli anni in tutta la Persia, l’attuale Iran, il più grande produttore dei preziosi tappeti.

La prima parte del processo di realizzazione, la lavorazione della lana a mano, è svolta soprattutto dalle donne all’interno delle abitazioni.

A questo punto si passa alla colorazione dei fili di lana, tramite una tecnica naturale molto sofisticata.Si conservano ad esempio gusci di noci o bucce di melograno e si fanno bollire a fuoco lento. Per quante ore? Diverse, si parla di alcuni giorni, ma c’è da ricordare che queste “ricette” sono segrete perciò non si avranno mai indicazioni precise.La lana viene quindi immersa nel colorante e poi lasciata ad asciugare.

La fase più impegnativa, nonché quella con le tempistiche più lunghe, è la tessitura: consiste nell’annodare i fili colorati a quelli tesi verticalmente nel telaio. Lo stile del tappeto è definito proprio dal tipo di annodatura scelta. In linea generale il valore di un tappeto è tanto più alto quanti più nodi verranno fatti in fase di tessitura. Le realizzazioni tradizionali prevedono l’annodatura a mano, ma alcuni artigiani si servono di strumenti a forma di uncino. Quanto dura questa fase? Dipende dalla grandezza del tappeto che si vuole realizzare, ma in media si parla di diversi mesi. È ancora possibile affermare: “sono troppo costosi”?

Non è finita qui, prima di essere messo in commercio il tappeto ottenuto deve superare altri 4 “ostacoli”.

La cosiddetta rasatura, ovvero il taglio del tappeto nelle forme e dimensioni desiderate; il lavaggio, che consente di eliminare i residui tessili e di fissare i colori definitivamente. Dopodiché si passa all’asciugatura e infine alla revisione, una sorta di controllo qualità, atto a verificare che non ci siano buchi o danni di ogni tipo.

Ma dopo un lavoro del genere, i produttori possono godersi un enorme ritorno economico, giusto? Negli ultimi anni non è proprio così. Perchè?

Il mercato dei tappeti persiani oggi

Sostanzialmente l’Iran ha subito una serie di sanzioni internazionali, a causa di una programmazione sull’energia nucleare molto discussa e contestata dall’ONU.

Non c’è bisogno di entrare nel dettaglio, ma una conseguenza importante delle sanzioni è che, ad esempio, i turisti stranieri fanno molta fatica ad acquistare i lussuosi tappeti. Non possono prelevare contante in Iran, così come non possono acquistare tramite carta di credito, se non in pochi casi specifici.Ciò ha portato a una grossa crisi del settore, spingendo i produttori a cambiare i metodi di realizzazione, inserendo sul mercato prodotti di bassa qualità. Allo stesso tempo all’interno del Paese, dove il mercato era redditizio, hanno preso il sopravvento tappeti provenienti dalla Cina e dall’India, venduti a basso costo.

È interessante concludere con un esempio che evidenzia e sottolinea le enormi qualità degli artigiani iraniani.

Il tappeto più grande del mondo

Si trova ad Abu Dhabi nella moschea Sheikh Zayed, ed è il tappeto più grande del mondo, rigorosamente persiano e fatto interamente a mano. Tenetevi forte per le prossime cifre.

Pesa 48mila chilogrammi. Misura 5600 metri quadri, poco meno di un campo da calcio, ed è composto da circa 2 miliardi di nodi.

Quante persone hanno lavorato per realizzarlo? 1200 artisti iraniani, per un totale di 18 mesi di lavoro. Qualcosa da aggiungere? È stupendo.

Digerire meglio

“È durato da Natale a Santo Stefano”. L’espressione si riferisce normalmente a qualcosa la cui durata è stata inaspettatamente breve.

Se pronunciamo questa frase riferendoci al pranzo di Natale, però, il significato cambia radicalmente. Nel giorno di Santo Stefano i nostri eroici stomaci affaticati si trovano di fronte a una nuova, titanica, sfida: gli avanzi da finire. 

Posto che una buona idea per non rimanerci è congelare il cibo in effetto per consumarlo a piccole dosi nelle settimane successive, ci sono alcuni piccoli stratagemmi che possiamo mettere in campo per rendere i pasti un po’ meno faticosi. 

Ecco 4 falsi miti sulla digestione e 5 consigli per favorirla davvero. Prego, non c’è di che!  

1. Un bicchierino di amaro per digerire: Falso

Gli alcolici amentano la secrezione gastrica, ma non è necessariamente un “bene”: quando il nostro stomaco è già pieno e all’opera, un eccesso di acidità gli renderà le cose più difficili e allungherà i tempi di digestione. Va poi detto che l’alcool non è per niente amico delle mucose. Meglio consumarne con parsimonia

2. Un bicchierone di acqua gassata e passa la paura: Falso 

C’è chi beve solo naturale e chi non può rinunciare alle bollicine. Nessun problema, basta non esagerare: bere troppa acqua durante un pasto abbondante renderà la digestione più lunga. È un bene quando cerchiamo di tenere a bada la fame e limitare l’introito calorico, ma se abbiamo già messo in conto di sgarrare è meglio non esagerare con l’acqua durante il pasto o subito dopo. Meglio bere piccoli sorsi tra un boccone e l’altro, masticando con calma. Le bevande gassate, poi, aggiungono ulteriore senso di gonfiore: meglio moderarne il consumo. 

3. Allora risolviamo con un bel caffè! …Falso

Dopo un pasto leggero, il caffè può favorire la digestione stimolando la secrezione gastrica, ma se stai leggendo questo articolo è probabile che il tuo pranzo non sia stato leggero. In questo caso, quindi, il caffè avrà un’azione abbastanza insignificante sulla digestione. È però un ottimo alleato contro la sonnolenza post-prandiale, quindi rimane nostro amico. 

4. Sigaretta? Assolutamente NO.

Il fumo fa male e lo sappiamo tutti, anche e soprattutto i fumatori stessi. E proprio loro giustificheranno quella sigaretta dopo pranzo con: “così digerisco”. Beh, si sbagliano. Le sostanze contenute nella sigaretta hanno un effetto irritante sul canale digerente e dopo un pasto abbondante non abbiamo bisogno di un eccesso di acidità nello stomaco. E neanche di fumo nei polmoni. 

Hai appena constatato che tutto ciò che hai sempre fatto è sbagliato e ti stai tenendola testa tra le mani (probabilmente no, ma è più divertente immaginarti così)? Ecco i nostri consigli per non passare la giornata con un macigno nella pancia!

1. Mastica lentamente

Banale, sì. Ma senz’altro efficace. Più lavoro per i denti, meno fatica per lo stomaco: se i pezzi che arrivano sono piccoli piccoli, sarà una passeggiata scioglierli nei succhi gastrici (non una bellissima immagine, lo sappiamo). Nel frattempo la saliva provvederà a scindere gli amidi e prepararli all’assorbimento. In più, dedicando più tempo a ogni boccone, il senso di sazietà arriverà prima del bis. 

2. Concludi con una tisana

Oh pianta che provieni dall’oriente il cui rizoma è usato come eupeptico
In farmacia, cucina e nei liquori e ovviamente nel Natale
Sapete poi cosa vuol dire eupeptico? Significa che ti fa digerire
Per cui dopo il cenone di Natale diciamoci l’un l’altro “eupepsia”!

Elio e le Storie Tese, nella canzone “Natale allo Zenzero“, ci ricordano le proprietà digestive della radice dal sapore piccantino.

Ma anche liquirizia, tarassaco, carciofo, anice, camomilla e finocchio sono grandi amici della digestione: sfruttiamone le proprietà in una bella tisana calda, da sorseggiare mentre chiacchieriamo o giochiamo a carte con la nostra famiglia. Con tutti i gusti di tisane che ci sono, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Consiglio della casa? La tisana di melissa, zenzero e liquirizia Bio Pam Panorama è perfetta per l’occasione!

3. Alzati! 

Il miglior modo per contrastare la cattiva digestione e alzarsi in piedi: la forza di gravità ti darà una mano. Puoi approfittarne per raccogliere i piatti e sistemare la cucina, così ti togli subito il pensiero. La scusa della digestione potrebbe essere un ottimo stratagemma per convincere tutti i membri della famiglia a contribuire. 

4. …E cammina

Se è possibile farla, una passeggiata a passo tranquillo (tenendo la pancia al caldo) darà un boost alla tua digestione. E aiuta anche a bruciare qualche caloria, che dopo due giorni di abbuffate non è proprio malaccio. 

5. E a casi estremi… Bicarbonato!

Abbiamo visto che il bicarbonato non serve a granché nella cura della casa. Rimane però un rimedio efficare e indolore per l’acidità di stomaco. Una volta raggiunto lo stomaco, infatti, reagisce con l’acido cloridrico dello stomaco dando come risultato sale (NaCl) e acqua. Voilà! 

E per concludere, come dice Elio, non ci resta che dirci l’un l’alto… Eupepsia! 

Le eroine del Natale

Ha fabbricato tutto l’anno giocattoli e oggi inizierà a impacchettare. San Nicola, in tedesco Klaus, nel mondo Santa Claus e in Italia Babbo Natale, è pronto per il viaggio planetario di domani

Ce la farebbe il nostro eroe senza le sue amiche renne? Impossibile. Ma cosa rende questo animale così speciale?

Fisico da renna

Fanno parte della famiglia dei cervidialte in media 120 cm e lunghe intorno ai 200, il loro peso varia dai 60 kg ai 300. I maschi sono più imponenti delle femmine. Entrambi i sessi presentano i palchi (si chiamano così le loro corna ramificate), caratteristica unica nel mondo dei cervidi, nel quale per il resto delle specie sono solo i maschi a possederli. 

Sono animali velocissimi: nelle fughe possono raggiungere 80 km/h. I maschi sopravvivono in media 5 anni, mentre le femmine possono arrivare anche a 15. Sono gli unici mammiferi in grado di vedere la luce ultravioletta. Altri superpoteri? Arrivano. 

Resistere al freddo

Nei mesi più caldi vivono nelle regioni boreali, tra la primavera e l’autunno compiono massicce migrazioni verso sud, percorrendo fino a 5000 km di distanza. Possono spostarsi anche di 60 km in un giorno. 

Il loro naso riesce a trasformare l’aria gelida in aria calda. Le zampe in inverno registrano una temperatura di circa 30 gradi inferiore al resto del copro, grazie a una particolarità dell’apparato circolatorio: le vene e le arterie sono disposte in modo da scambiarsi vicendevolmente calore, per non disperdere quello accumulato.

Anche il pelo è ottimizzato per il freddo, infatti riesce a trattenere efficacemente il calore.

Altra peculiarità si trova negli zoccoli: sono duri quando si muovono sul ghiaccio e sulla neve per evitare di sprofondare, su terreni morbidi (senza neve), invece, fuoriescono dei cuscinetti spugnosi che rendono più agevoli gli spostamenti

Con tutte queste qualità saranno i più grandi predatori del Polo Nord. Falso. Sono dei ruminanti erbivori e in pochissimi casi si possono nutrire di uova d’uccello e di lemming, piccoli roditori.

Oltre a non essere aggressivi sono molto socievolivivono e si spostano in mandrie che arrivano fino a 15000 esemplari

Ma perché, se riescono a sopravvivere al freddo, compiono le lunghe migrazioni? Per mangiare, chiaramente, anche se hanno un’ulteriore qualità: l’olfatto sviluppatissimo. Riescono a scovare fonti di cibo nascoste sotto la neve fino a 60 cm. 

Perché proprio la renna per Babbo Natale? 

Si è detto che sono velocissime e possono percorrere diversi chilometri, sarà questo il motivo per cui Babbo Natale ha scelto loro per la sua magica slitta?

Possibile, ma bisognerebbe chiederlo a Clement Moore. Fu il poeta americano nella poesia “A visit from St. Nicholas” del 1823 a presentare al mondo l’anziano pancione che, con l’aiuto delle renne, portava i regali a tutti i bambini del mondo. 

La scelta delle renne dipenderebbe dal fatto che questa specie abbonda al Polo Nord, in particolare in Lapponia dove Babbo Natale vive insieme agli elfi. 

Inoltre, tornando per un attimo sul pianeta Terra, le slitte trainate dalle renne sono il più diffuso mezzo di trasporto nei Paesi artici

Illuminaci, Rudolph!

Nel 1939 alle 8 fedelissime renne del Natale si è aggiunta Rudolph“inventata” da un altro scrittore americano: Robert May. Babbo Natale era preoccupato perché prima di partire il cielo era ricoperto di nebbia. Fu in quel momento che vide Rudolph, la renna dal naso rosso. Proprio grazie alla caratteristica del suo naso avrebbe potuto guidare la slitta, illuminando il percorso

Curiosità 

Sia maschi che femmine di renna possiedono le corna, ma le “cambiano” ogni anno: cadono in un certo periodo e ricrescono velocemente per i restanti 12 mesi (i maschi hanno palchi molto più grandi delle femmine).

Alcuni studiosi hanno fatto un’osservazione molto interessante: i palchi dei maschi cadono in inverno, mentre quelle delle femmine in primavera, ma tutte le immagini della slitta mostrano renne con le corna. Inoltre in autunno, durante la stagione degli amori, i maschi smettono di mangiare e impiegano tutte le proprie energie nella ricerca della partner. Come fanno, a dicembre, ad avere abbastanza energia per trainare una slitta carica per tutta la notte?

Forse abbiamo attribuito quei 9 nomi maschili un po’ troppo in fretta! 

Eroine non solo a Natale 

Gli scienziati dell’università di Umeå, Svezia, hanno portato avanti una ricerca a dir poco interessante e importante. Analizzando le zone della tundra artica nelle quali le renne brucavano l’erba, e confrontandola con le zone in cui invece tale attività era nulla o ridotta, hanno fatto una scoperta sensazionalemangiando, le renne combattono il riscaldamento globale!

Si è scoperto che nelle aree in cui le renne brucano intensamente la vegetazione si abbassa in quantità e altezza. Sembrerebbe un effetto negativo, in realtà però in questo modo l’albedo (la capacità di riflettere le radiazioni solari dalla Terra allo Spazio) aumentafacendo aumentare di conseguenza il calore che il nostro pianeta respinge! Grazie di tutto, amiche renne.