La nobile storia del Barolo

Torna il freddo, torna il Barolo, il vino piemontese con una storia millenaria alle spalle. Prima di trasformarsi in Barolo, questo vino è semplicemente Nebbiolo, il suo vitigno. Partiamo quindi dal principio.

Il Nebbiolo

Sul nome del vitigno esistono due teorie, entrambe collegata al fenomeno della nebbia. La prima dipende da una sostanza che ricopre gli acini d’uva: la pruina, che trasforma il colore bluastro in un grigio simile al colore della nebbia. La seconda invece si riferisce al periodo di vendemmia: è piuttosto tardiva, talvolta si prolunga fino a novembre, periodo in cui è frequente la presenza di nebbia.

È unvitigno non facile da coltivare, anche perché ilgermogliamento,lafioriturae l’invaiaturacoincidono conperiodi ancora molto freddi.

Necessita di zone collinari ben esposte al sole e di suoli calcarei e ricchi di tufo; esprime le sue maggiori caratteristiche fra i 200 ed i 500 metri, con una esposizione rigorosamente verso sud o sud ovest; non ama quindi i fondovalle ed i terreni poco soleggiati.

Le sensazioni aromatico-olfattive dei vini del Nebbiolo non sono mai prepotenti, ma sempre fini ed eleganti. Possono spiccare cenni di ciliegia sotto spirito, lampone, viola, rosa appassita e alcune spezie.

Dal Nebbiolo nascono diversi vini di qualità, dei quali il più famoso in tutto il mondo è indubbiamente il Barolo.

La storia del Barolo

La marchesa di Barolo Giulia Colbert Falletti è stata l’autrice della trasformazione di un vino dolce fermentato all’aria aperta nel Barolo che tutto il mondo conosce oggi. Fece costruire le cantine sotterranee, nelle quali il vino godeva delle condizioni perfette per poter sviluppare corpo e struttura in maniera controllata.

Dopo aver scoperto l’esistenza di questo rosso, Re Carlo Alberto di Savoia chiese alla marchesa di poterlo assaggiare. Dalla cittadina di Barolo vennero così spedite al re 315 botti, una al giorno esclusi i giorni di quaresima. Il re rimase stupefatto dalla qualità della bevanda e decise addirittura di acquistare una tenuta a Verduno, un paese nei pressi di Barolo, per produrre un proprio vino.

È probabilmente questa la spiegazione dell’espressione che da secoli accompagna il Barolo: “Vinum regum, rex vinorum”, ovvero vino dei re e re dei vini.

Qualche anno più tardi la sua celebrità era già molto diffusa, tanto che uno dei più grandi uomini politici dell’epoca, Camillo Benso conte di Cavour, decise di avviare una propria produzione di Barolo. Non solo, il vino fu utilizzato in più incontri istituzionali, compresi i festeggiamenti del 1861 per la raggiunta Unità d’Italia.

Agli inizi del ‘900 il patrimonio delle cantine di proprietà della marchesa Falletti passò nelle mani della famiglia Abbona, che fu abile esportatrice del vino e ideatrice di nuovi prodotti altrettanto di successo. Nel 1966 il vino ottenne la DOC, mentre nel 1980 entrò anche ufficialmente nei vini d’eccellenza, ottenendo la Denominazione di Origine Controllata e Garantita (DOCG).

Le caratteristiche

Solo 11 sono i comuni delle Langhe piemontesi, a pochi chilometri dalla città di Alba, nei quali il Barolo può essere prodotto. Tra questi c’è proprio Barolo, piccola città che ha dato il nome al famoso vino. Le colline di quest’area presentano una composizione del terreno molto variaperciò i vini che nascono sono molto diversi tra loro. Ogni produttore poi utilizza i propri metodi e i propri segreti, donando al vino mille sfaccettature.

Il disciplinare prevede, prima della commercializzazione, un periodo di affinamento rispettivamente di 38 mesi, di cui 18 in legnoper la versione base e di 62 mesi, di cui sempre 18 in legno, per la versioneBarolo riserva. Una volta imbottigliato, avrà una gradazione alcolica di almeno 13 gradi.

Essendo unvino da invecchiamento, il fascino del Barolo sta proprio nella sua evoluzione nel corso degli anni: le migliori annate degli anni ’60 sono ancora oggi molto apprezzate dagli appassionati. Berlo è un piacere, ma è anche sempre una nuova scoperta.

Gli abbinamenti più tradizionali sono quelli con piatti saporiti a base di carne rossa, come arrosti, brasati, stracotti, selvaggina, ma anche formaggi stagionati a pasta dura e cibi aromatizzati. Il Barolo è ottimo anche per accompagnare i dolci secchi, soprattutto alcuni biscotti della zona piemontese

Gli esperti lo indicano anche come ottimo vino da bere senza accompagnatori, come calice da meditazione. L’ideale per una serata autunnale coi fiocchi.

Professione sommelier

Da non confondere con l’assaggiatore di vino, con cui condivide la conoscenza tecnica e degustativa, la professione del sommelier richiede un’ottima capacità comunicativa e una discreta abilità “psicologica”. Bisogna infatti saper selezionare i prodotti, produrre una carta dei vini di qualità, raccontare le caratteristiche territoriali, storiche e organolettiche del calice che si sta proponendo e infine adattarsi al cliente che ci si trova davanti.

Come si diventa sommelier

In Italia oggi contiamo più di 60000 diplomati, considerando solo le scuole più famose: AIS, FISAR, FIS, ASPI. Ma qual è il percorso da seguire per essere pronti a gestire la cantina di un’attività ristorativa? Esistono due possibilità.

Ci si può iscrivere a una delle associazioni sopra elencate e intraprendere i corsi che vengono organizzati annualmente. In questo caso ci sarà bisogno di un investimento economico, dai 1500 ai 2000 euro in base alla città di residenza, e di tempo a disposizione per frequentare le lezioni obbligatorie.

I corsi si dividono solitamente in 3 moduli: il primo è dedicato alle origini della viticoltura e dell’enologia, la tecnica della degustazione, i principi basilari del servizio a tavola, comprensivi di temperatura del vino, formazione e gestione di una cantina.

Il secondo livello si concentra sul legame tra vino e territorio: si conosceranno quindi le peculiarità di ciascun vitigno e la storia della produzione, italiana e straniera. Si approfondiranno inoltre le tecniche sulla degustazione del vino, per coglierne tutte le sfumature di gusto e cominciare ad abbinarlo alle pietanze.

L’abbinamento cibo-vino è l’oggetto di studio per quasi tutto il terzo livello. Questo sarà il modulo di studio più pratico, dedicato in larga parte alle prove di assaggio, con vini dalle diverse tipologie e l’attenzione sarà rivolta anche allo studio delle pietanze.

Alla fine dei tre moduli, ciascuno della durata di circa 6 mesi e con un massimo di due assenze totali, si svolge l’esame diviso in due parti: una teorica e una pratica.

La seconda strada che si può intraprendere è definibile con una sola parola: gavetta.

Bisogna crearsi conoscenze nel settore, magari iniziando da cameriere nei ristoranti e concentrandosi via via sempre di più sull’aspetto enologico. Alla pratica va abbinata una buona dose di teoria, affidandosi a dei manuali che approfondiscano le basi acquisite nel lavoro quotidiano.

Come si può intuire, la via autonoma permette di risparmiare denaro, anzi nel frattempo si riesce a guadagnare, e tempo: non ci sarà bisogno di un anno e mezzo per ottenere un certificato e di conseguenza cercare un’occupazione.

Opportunità lavorative

I due metodi di formazione sono sullo stesso piano dal punto di vista “legale”, poiché non esiste alcun inquadramento normativo su questa figura professionale. In sostanza, chi lavora come sommelier in un ristorante è a tutti gli effetti un sommelier, pur non avendo ottenuto un diploma.

Chi sa “comunicare il vino” non ha opportunità solamente nella ristorazione, ma anche in enotechewinebargastronomie di pregio, grande, piccola e piccolissima distribuzione.

È importante conoscere le basi della lingua inglese e francese (considerata la lingua del vino), soprattutto in Italia dove è altissimo il numero di turisti stranieri.

Proprio all’estero c’è grande richiesta di sommelier italiani, probabilmente grazie alla qualità dei prodotti riconosciuta in tutto il mondo, oltre che evidentemente una buona preparazione dei nostri concittadini in materia.

La retribuzione di un sommelier professionista, ovviamente, varia a seconda dell’impiego svolto e del datore di lavoro: se un dipendente di un grande albergo o di un ristorante stellato arriva a guadagnare anche 3, 4 mila euro al mese, gli altri percepiscono uno stipendio medio di circa 1.500-2.000 euro al mese. Discorso diverso per i freelance, che si fanno pagare a prestazione: per cui fatturano dopo ogni singolo workshop, evento o fiera a cui lavorano.

Cosa dicono i guru del settore

Andrea Gori, oste dell’antichissima trattoria Da Burde a Firenze, ha dichiarato: “La maggior parte dei diplomati sceglie però il corso di sommelier come alternativa allo yoga. E continua: “I corsisti ideali sono medici, avvocati, notai, gente che ha una visione edonista di questo mondo, non professionale.”

Una visione più positiva è offerta da Beppe Palmieri, il maestro del vino dell’Osteria Francescana, più volte sul podio e già in un’occasione premiata come miglior ristorante del mondo: “sala e cantina stanno vivendo un momento incredibile, anche grazie a un pubblico sempre più colto in materia. Credo infatti sia la curiosità dei clienti a migliorarci.”Sulle continue richieste ricevute di aprire una scuola di formazione ammette: “la vera formazione si fa tra i tavoli e un periodo dai tre ai sei mesi può già essere un’ottima palestra”.

Come ultima testimonianza proponiamo quella di Armando Castagno, ex formatore professionale di sommelier, che esorta all’aggiunta di un’abilità fondamentale nella formazione: “Nella sommelleriela difficoltà numero uno è la gestione del patrimonio. La cantina può essere considerata una bomba a mano, perché può fare la fortuna o la rovina di un locale, per questo è indispensabile una preparazione economico-aziendale”.

I maestri del settore sono d’accordo su un punto imprescindibile: bisogna avere una grande passione per i vini, prima di avventurarsi in qualunque tipo di percorso formativo.

Vino, vetro e dimensioni

È proprio il momento di una bottiglia di vino.

Già, bottiglia. Non è reato immaginare solo il liquido (bianco, rosso o rosato che sia) quando sentiamo questa espressione: è ciò che percepiamo e gustiamo davvero. Perché allora dovrebbe interessarci il recipiente che lo contiene?

Perché quegli odori e quei sapori non arriverebbero nel nostro calice, se non esistesse un contenitore adatto.

Il vino in vetro

Il Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari e Agro-ambientali dell’Università diPisae il Dipartimento di Scienze e Innovazione tecnologica dell’Università di Alessandria hanno condotto uno studio al fine di identificare il miglior materiale per conservare il vino.

Sono stati analizzati tre tipi di contenitore: bag in box, tetra brik e bottiglie di vetro; e quattro tipi di tappo: sughero, materiale polimerico, a corona e a vite.Per una visione completa questi materiali sono stati testati su quattro tipologie di vino, che avevano diversa sensibilità all’ossidazione.

Le bottiglie in vetro scuro sono risultate il miglior contenitoreconservano un’alta concentrazione di antiossidanti naturali, possiedono poco nichel (materiale tossico) rispetto agli altri e hanno un maggior contenuto di sostanze volatili, capaci di accentuare profumo e gusto della bevanda.

Il tappo più funzionale sarebbe quello di sughero e si consiglia di conservare le bottiglie in posizione orizzontale: garantirebbe una miglior conservazione di tutti gli aromi.

Tutte le dimensioni in commercio

Lo studio non si è limitato a definire il tipo di contenitore, ma si è concentrato anche sulle sue dimensioni ideali.

Per garantire una miglior conservazione, è importante ridurre al minimo la superficie di scambio di ossigeno tra il vino e l’esterno. La Magnum (1.5 litri) è stata incoronata regina delle bottiglie: al diminuire del volume del contenitore utilizzato, aumenta infatti il rapporto tra la superficie esposta e il volume. Anche se la Magnum non è la più grande bottiglia di vetro in commercio, è quella con il miglior rapporto tra volume e superficie esposta.

A titolo informativo, andiamo a vedere tutte le dimensioni riconosciute dal regolamento UE, e quindi tutti i tipi di bottiglia commerciabili:

  • Piccoloo Quarto Di Bottiglia:0,2 L
  • Chopin: 0,25L
  • Demi o mezza bottiglia: 0,35L
  • Standard: 0,75L
  • Magnum: 1,5L
  • Jéroboam o Doppia Magnum: 3L
  • Réhoboam: 4,5L
  • Mathusalem: 6L
  • Salmanazar: 9L
  • Balthazar: 12L
  • Nabuchodonosor: 15L
  • Melchior: 18L
  • Solomon: 20L
  • Somereith: 25L
  • Primato o Goliath: 27L
  • Melchizédech: 30L

Approfondiremo la storia di questi nomi biblici, regali e facoltosi in un’altra occasione, ora ci concentreremo su un componente della lista: la bottiglia standard, la più utilizzata in commercio. Perché proprio questa particolare unità di misura?

La standard 0.75 L

Esistono varie teorie che potrebbero rispondere alla domanda.

1: il vetro entrò nel mondo del vino intorno al 1700, quando ci si accorse delle sue proprietà conservative. A quel tempo non esistevano fabbriche e macchinari capaci di produrlo, perciò veniva letteralmente “soffiato”. Si pensa che i vetrai avessero un’ottima capacità polmonare. Riuscivano infatti a gonfiare e quindi creare in un solo colpo delle bottiglie di vetro da 60-70 centilitri. La capacità massima si sarebbe arrestata a 0.75L e ciò spiegherebbe la dimensione delle prime bottiglie.

2: un’altra teoria si riferirebbe a una scelta mirata, e non necessaria. Gli antichi calici da osteria contenevano in totale 0.125L di vino. Per riempire 6 bicchieri ci sarebbe bisogno esattamente di una bottiglia da 0,75. La nostra domanda è: chi dice che una bottiglia di vino dovesse essere condivisa tra 6 persone, o che comunque 6 fosse il numero di commensali ideale?

3: in questo caso si ha un collegamento con un’antica unità di misura, utilizzata soprattutto in Inghilterra: i galloni. Si pensa che ogni cassa di vino poteva contenere solo 2 galloni e gli inglesi decisero di inserire 12 bottiglie per ogni cassa: il risultato è 0,75 litri a bottiglia. Anche in questo caso permangono troppi dubbi.

L’origine della bottiglia standard rimane perciò poco chiara, ma ci si può chiedere perché ancora oggi rimanga il contenitore più utilizzato. A detta degli esperti sarebbe più facile da trattarele strutture di cartone che le contengono sarebbero più facilmente costruibili e si adattano meglio al trasporto.

Lo “Stato d’oro” si dipinge di bianco e rosso

Si produce il 90% di tutto il vino americano, ossia 16,77 milioni di ettolitri l’anno, su una superficie vitata di oltre 194.000 ettari.A oggi, il vino prodotto in California soddisfa il60%della domanda vinicola complessiva degliStates, con 229 milioni di casse. Il restante quantitativo, circa 47 milioni di casse, è dedicato all’export, prevalentemente nei Paesi UE, i quali rivestono il ruolo di principale partner commerciale. Il valore complessivo del mercato vinicolo nel Golden State è di 31,9 miliardi di dollari.

Due uomini, una storia

Tra il 1850 e il 1860 la produzione di vino è entrata concretamente a far parte della splendida California. Il merito è attribuito a un soldato ungherese, Agoston Haraszthy, che importò dall’Europa oltre 300 varietà di vitis vinifera e fondò la Buena Vista Wineryla prima vera cantina commerciale americana. Subito dopo si è reso promotore di diverse iniziative: ha scavato ampie grotte adibite all’invecchiamento, ha proposto l’idea divigneti non irrigati,e ha suggeritol’utilizzo della sequoia per le botti di rovere.

Circa un secolo più tardi, nel 1976, un uomo nato a Chicago umiliava i Francesi, i più grandi produttori di vino nel mondo, in una gara di degustazione tenutasi a Parigi, con un vino prodotto in California. Jim Barrett partecipò alla degustazione organizzata dal trentaquattrenne Steven Spurrier, che aveva in mente un evento ben organizzato, ma informale.I vini francesi in gara comprendevano prodotti di grande prestigio, i californiani erano pressoché sconosciuti.Inove giudici erano tutti Francesi, figure di spicco tra critici, sommelier e produttori. Ivini furono decantati e posti in bottiglie “neutre” senza etichette, per impedire agli espertissimi degustatori di poterli riconoscere “a occhio”.

Jim convinse tutti con il suo Chardonnay Chateau Montelana ’73, avviando il Golden State al successo internazionale di cui gode oggi.

Napa e Sonoma

Il vino premiato a Parigi proveniva da quella che gli Americani chiamano Napa County, un luogo dalle colline dolci e vellutate di vigneti verdi e rossi. Ricorda la Toscana, con l’unica differenza che qui, tra un filare e l’altro, si vedono spuntare le palme. È la zona vitivinicola più famosa di tutti gli Stati Uniti, apprezzata nel mondo per lo stile “internazionale” dei suoi bianchi e rossi.

Quasi il 60% delle aziende vinicole situate in California ha sede a Napa, il capoluogo della Contea, e nella parallela Sonoma Valley, che insieme formano il cuore della Wine Country californiana. Molto vicina alla costa dell’oceano Pacifico, Sonoma è caratterizzata dall’alternanza di nebbia e sole, notti fresche e giornate calde.Si coltivano praticamente tutte le varietà di uve diffuse in California, anche se Sonoma deve la sua fama soprattutto ai vini bianchi prodotti con Chardonnay, e ai rossi prodotti con Cabernet SauvignonPinotNero.

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Il successo di cui si accennava all’inizio dipende da diversi fattori.

Innanzitutto è sicuramente da ricondursi alle favorevoli condizioni climatiche, geologiche e ambientali del territorio.

L’assenza di tradizionistoriche da portare avanti ha reso inoltre possibile l’utilizzodi pratiche moderne e innovative, che nel breve periodo hanno permesso alla viticoltura californiana di raggiungere risultati notevoli.

Una “fetta” del merito va anche agli ingenti investimenti economici, pubblici e privati, affluitinel settore vitivinicolo.

Il sistema di qualità americano, rispetto alla normativa europea (qui trovi qualche riferimento sulle regole italiane), risulta certamente meno dettagliato e più permissivo,consentendo ai produttori maggiore libertà di iniziativa personale. Non sono previste categorie di qualità crescente, ma i vini si possono classificare in base all’estensione della zona di provenienza delle uve. Più piccola è l’estensione, più caratterizzato risulterà il vino corrispondente.

Le denominazioni riconosciute nel sistema AVA (American Viticultural Areas) sono le seguentiAmerican or United States (Americano o Stati Uniti), Multi-State (Denominazione multi-statale), State (Denominazione statale), Multi-County (Denominazione di multi-contea) eCounty appellation (Denominazione di contea).

I nomi delle bottiglie

Si è già parlato del connubio tra vino e vetro, il contenitore più adatto alla conservazione nel tempo della bevanda. Si è parlato anche del formato standard e del perché si predilige la bottiglia da 0,75l rispetto alle altre. Si era però lasciata in sospeso una curiosità: perché le grandi bottiglie di vetro prendono il nome di famosi personaggi regali e biblici?

Il perché

Nel XIX secolo, quando il formato standard aveva già conquistato il primato sul mercato, in particolari periodi dell’anno, coincidenti spesso con ricorrenze importanti, venivano richieste ai commercianti bottiglie di grandi dimensioni. I venditori sentirono la necessità di affidare a questi formati “speciali” nomi altrettanto significativi. In questo modo il vino diventava il simbolo della festa, e il nome che portava attirava in misura maggiore l’attenzione degli invitati (spesso amanti del vino), influenzando le vendite future.

Nel dettaglio

Si parte dalla Magnum (1,5l), ancora oggi molto in voga per celebrare eventi importanti, pubblici ma soprattutto privati. La “Grande” (dal latino, appunto, “Magnum”) è risultata, da uno specifico studio, la bottiglia con le migliori caratteristiche per un efficace invecchiamento del vino.

Al gradino superiore troviamo laJeroboam, la bottiglia contenente 3 litri di vino. Prende il nome dal primo re di Israele ed è il formato utilizzato nelle premiazioni delle gare automobilistiche e motociclistiche.

4,5 litri di vino sono contenuti nellaRéhoboam. Così si chiamava il primo re di Giuda: Roboamo.

Vissuto per 969 anni, dal 3073 a.C. al 2104 a.C., Matusalemme è l’uomo più longevo nominato nelle Sacre Scritture. Una bottiglia di 6 litri è in grado di riempire circa 56 calici: diciamo che prima di arrivare al fondo si diventa vecchi. Quale nome migliore di Mathusalem?

I re Assiri amavano particolarmente il nome Salmanazar (lo scelsero ben cinque sovrani), così come le persone abbienti amano vantarsi del bottiglione da 9 litri, molto raro e rintracciabile soprattutto nelle regioni francesi di Bordeaux e Borgogna.

A Babilonia col re Balthazar prima si vincevano le battaglie, poi si festeggiava fino a tarda notte con dell’ottimo vino. Sarebbe stata sufficiente una bottiglia da 12 litri, quella che ha preso il nome del re festaiolo, per ricompensare tutto il battaglione dopo il grande sforzo? Sulla Balthazar c’è una curiosità che merita una menzione: 12 litri di Château Margaux del 2009 sono in vendita a 195mila dollari. Stiamo parlando della bottiglia più costosa al mondo presente attualmente sul mercato.

In numerose iscrizioni commemorative appare come “il preferito del dio Marduk”, come il monarca che venera i grandi dèi del pantheon mesopotamico e garantisce al suo popolo la legge e la giustizia. Si tratta di Nabuchodonosor il Grande, re Babilonese, l’uomo con cui Babilonia raggiunse la sua massima espansione. Il re giusto per dare il nome a una maestosa bottiglia da 15 litri di capienza!

Il governo energico di Davide aveva consegnato al figlio un regno saldo e unito, quello fastoso di Salomone creò i presupposti della scissione del territorio nei due regni di Giuda e di Israele, avvenuta dopo la sua morte. La separazione segnò la decadenza della potenza ebraica, culminata con la distruzione di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia. Sarà questa la ragione della scarsa diffusione della bottiglia Salomon, da 18 litri?

Fino al 1999 il formato post Salomon era il Souverain, semplicemente “sovrano” in francese, contenente 26,25 litri di vino. Lo scarso successo portò alla produzione della Primat, dal latino “di prim’ordine”, da 27l.

Qualcuno ritiene fosse Shem, uno dei figli di Noè. Altri dicono si trattasse di un sacerdote umano, per qualcun altro era invece un sacerdote eterno, figura divina. Nella genesi viene nominato come Re di Salem, antico nome di Gerusalemme. Nel libro di un apocrifo dell’Antico Testamento, Melchizédec viene descritto come un bambino nato da una donna sterile, capace da neonato di pregare Dio e venuto al mondo già sviluppato (sembrava, dicono, un bambino di 3 anni già alla nascita).Durante il canone della messa in lingua ebraica originale, in uno specifico momento i fedeli si rivolgono a Dio nominando ilsommo sacerdote, detto Melchizédec.Insomma, tra le varie scritture si fa una certa confusione e non si arriva a capire chi fosse questa misteriosa figura. Probabilmente anche i vinai entrarono in uno stato confusionale quando si ritrovarono a dover riempire una bottiglia da 30 litri: la Melchizédec, la più grande del mondo.

I segreti dell’Amarone

È nato per errore ed è poi divenuto il simbolo dei vini di altissima qualità del nostro Paese.

La storia dice che negli anni ’30 il cantiniere Adelino Lucchese, durante l’imbottigliamento del Recioto dolce, dimenticò una botte piena, rendendosene conto solo qualche anno più avanti. Quando comunicò all’enologo dell’azienda Villa Novare la sua svista, Lucchese era già pronto a lasciare il posto di lavoro assumendosi tutte le colpe. I due ebbero la brillante idea di assaggiare il vino nella botte dimenticata, per provare a recuperare ciò che si poteva: in pochi secondi lo sbaglio si trasformò in una rivelazione. Il vino aveva assunto struttura e potenza, morbidezza ed eleganza, ma non era più dolce: doveva chiamarsi Amarone.

I vitigni

Ben oltre la metà dei vitigni che vanno a comporre l’Amarone crescono solo ed esclusivamente in Valpolicella. Si tratta del Corvina, Corvinone e Rondinella: i primi due devono essere presenti in percentuali comprese tra il 45 e il 95%, la Rondinella invece tra il 5 e il 30%. Il disciplinare ammette l’aggiunta di altri vitigni tipici della Valpolicella e di piccolissime quantità di vitigni nazionali e internazionali. La gradazione alcolica minima deve attestarsi sui 14°, ma è raro trovare un Amarone al di sotto dei 15°.

I processi

La prima regola ferrea da seguire entra in vigore già dalla vendemmia: devono essere raccolti solo grappoli “spargoli”, cioè quelli con acini ben distanziati tra loro, avendo cura di non danneggiare nessun acino, poiché se il succo venisse in contatto con l’aria, l’uva potrebbe marcire e compromettere l’intera produzione. È proprio per questo motivo che la vendemmia delle uve destinate alla realizzazione dell’Amarone viene sempre affidata a mani esperte.

Il raccolto viene depositato in cassette di legno che vengono trasportate in cantina, dove si depositano all’interno di grandi stanze detti “fruttai”. Qui le uve dovranno riposare per i successivi tre mesi: in questo modo si avrà una riduzione del 30-40% di acqua e crescerà la concentrazione di zuccheri.

Intorno agli inizi di Gennaio si dà il via alla fermentazione. Le basse temperature e l’alta concentrazione degli zuccheri rendono il lavoro del lievito decisamente più duro e quindi più lento: da 10-14 giorni si passa a 40-60 giorni di fermentazione.

Terminata la terza fase, si passa alla maturazione, ciò che distingue l’Amarone dagli altri ottimi vini della Valpolicella. Il vino viene trasferito in botti di rovere, dove deve rimanere per almeno due anni, per essere etichettato come Amarone DOCG. Alcune aziende agricole scelgono Barriqueda 225 litrioTonneauda 5-600 litrinormalmente inrovere francese tostato internamente. L’affinamento dura circa 2-3 anni, dopodiché il vino è pronto da gustare.Altri produttori invece preferiscono grandi botti, dai 18 ai 100 ettolitri, principalmente fatte di Slavonia. In questo caso l’affinamento richiede più tempo: l’Amarone sarà pronto dopo circa 5-6 anni e per alcuni vini Riserva si dovrà attendere anche 10 anni.

Gli esperti sanno bene di cosa stiamo parlando, e si risparmiano l’affermazione classica: “È troppo costoso”, prima di tutto perché conoscono il duro e duraturo lavoro che c’è dietro alla bottiglia, in secondo luogo perché sanno di gustare un vino unico.

I sapori

Ciliegia, amarena, prugna, mora, frutta secca, sentori di rosa, violetta e giacinto. O ancora caffè, cacao, liquirizia, noce moscata. Questi sono i principali sapori che si possono distinguere assaggiando un Amarone. Esistono più di 400 cantine che producono questo vino, è evidente perciò che ogni bottiglia susciterà sensazioni diverse dalle altre.

Oltre all’invecchiamento in botti, diverse aziende dedicano ulteriori periodi di maturazione all’interno delle bottiglie, ma anche i consumatori più competenti spesso lasciano un Amarone in cantina per più anni. In tal modo si avvertiranno profumi di cuoio, funghi secchi, foglie secche e anche legno antico, indice di possente maturità del vino.

Come gustarlo?

Un gioiello del genere può essere la bevanda perfetta per le occasioni importanti. È ottimo anche come vino da meditazione, magari nei mesi molto freddi davanti a un bel fuoco acceso. In generale i migliori abbinamenti dell’Amarone risultano i cibi dal sapore intenso: selvaggina, formaggi stagionati e carni saporite.

De gustibus non disputandum est, ma è difficile trovarsi in disaccordo di fronte al re della Valpolicella. Sicché… Cin cin!

Che cos’è la vendemmia tardiva?

Ricordate la vendemmia? La parte di produzione del vino più piacevole e allo stesso tempo faticosa, grazie alla quale i coltivatori condividono esperienze, aneddoti e, soprattutto, la passione per il “nettare di Bacco”.

Tanti celebrano la conclusione di questo fantastico periodo di aggregazione con una grande festa, altri però cercano di dormire mentre gli agricoltori vicini fanno baldoria. Perché? No, non sono dei guastafeste, semplicemente per queste persone il lavoro non è ancora terminato: bisogna portare a termine la vendemmia tardiva.

Per definizione

Si dice “da vendemmia tardiva” il vino ricavato dall’uva lasciata appassire sulla vite dopo l’avvenuta maturazione del frutto. A che scopo?

Seguendo tale procedura si ottiene una maggiore concentrazione degli zuccheri e una conseguente riduzione dell’acidità. In questo modo il sapore risulta decisamente più intenso.

Fungo buono o fungo cattivo?

Siamo sicuri che se un parassita attacca la vite il raccolto andrà perso?

Il presunto disturbatore tipico dell’uva si chiama Botrytis Cinereafungo molto diffuso che colpisce diverse varietà di frutta e verdura, ma la vittima preferita è proprio il frutto “grappoloso”.

Esistono due alternative: se dal parassita si genera la cosiddetta “muffa grigia”, allora i grappoli tenderanno a cadere a terra marcendo. Anche se si riuscisse a recuperarne delle parti, sarebbe meglio non portare avanti il processo di produzione, poiché ne risulterebbe un vino dal sapore estremamente sgradevole.

In condizioni climatiche particolari, caratterizzate da giornate che alternano un clima caldo e secco a momenti, di solito la notte, freschi e umidi, la Botrytis Cinerea produce la sorprendente “muffa nobile”. Le condizioni appena descritte si verificano solo in alcune zone di produzione e soprattutto in specifici periodi dell’anno. Esattamente, il periodo in cui si effettua la vendemmia tardiva, più o meno in questi giorni di novembre. Il risultato? La muffa nobile conferisce al vino caratteristiche olfattive inconfondibili, aumentando allo stesso tempo il contenuto di zuccheri.

Addirittura alcuni produttori raccolgono separatamente solo i grappoli colpiti dal fungo per ricavare i particolari vini “botritizzati”.

In Francia

Il nome originale è “Vendages Tardives”, noi Italiani ci siamo solo presi la briga di tradurre il termine di origine francese. Effettivamente sono stati i cugini d’Oltralpe i primi a sperimentare l’appassimento dell’uva direttamente sulla vite. In Italia era conosciuta la tecnica dell’appassimento per produrre vini passiti, ma veniva applicata in cantina dopo la “normale” raccolta nei periodi di vendemmia.

In Francia la vendemmia tardiva è una faccenda seria, tanto che è autorizzata solo in quattro areeAlsaceAlsace Grand CruJurançon e Gaillac.

Il disciplinare indica anche il tipo di uva da poter sottoporre a Vendages Tardives: in Alsazia (comprendente le prime due aree) abbiamo le uve MuscatGewürztraminerPinot Gris e Riesling; a Gaillac si possono vendemmiare tardivamente le OndencLoin-de-l’OeilMauzac e Muscadelle, mentre a Jurançon la Petit e la Gros Manseng.

La raccolta, infine, avviene in un solo passaggio e non a più riprese per non superare la gradazione alcolica permessa dal regolamento. Puntigliosi, ma estremamente efficienti. (Qui tutte le curiosità sul vino francese).

L’ultima vendemmia in Italia

La Basilicata è una delle pochissime regioni italiane che sembra non aver accusato l’impatto paesaggistico portato dalle “costruzioni intensive” del post rivoluzione industriale. Chiaramente non si può generalizzare, alcuni paesaggi sono stati alterati, ma la maggior parte della regione compresa tra Campania e Puglia è caratterizzata da luoghi incontaminati e viste mozzafiato.

È il caso del Vulture, vulcano spento situato nella parte nordAlle pendici del monte viene coltivato uno dei vitigni più famosi del meridione: l’aglianico. I Romani lo portarono in queste zone per migliorare la qualità del Falerno, il vino più diffuso all’epoca.

La cantina Re Manfredi, con sede a Venosa (la città natale del poeta Orazio), sfrutta la mineralità del terreno conferita dalla lava vulcanica, per produrre il proprio Aglianico rosso del Vulture. Si parla del vino ottenuto dall’ultima vendemmia italiana: i produttori raccolgono uva in autunno inoltrato, indicativamente nella prima decade di novembre.

Il vigneto aglianico ha infatti bisogno di tempo per esprimere la sua vera natura, ed è in Basilicata che trova le condizioni climatiche migliori per maturare alla perfezione. Le belle giornate luminose e le escursioni termiche durante la notteassicurano intensità di colore, ottima struttura e decisi sentori aromatici.

Si dice che l’attesa aumenta il desideri, ma in questo caso si direbbe che aumenta anche la qualità.

Dal chicco alla farina

Dalla spiga alla rosetta, il grano subisce dei passaggi che pochi conoscono bene. Coma facciamo a trasformare un chicco in farina bianca?

Il chicco è formato da tre parti: la mandorla farinosa centrale, che contiene gli amidi e il glutine che comporranno la nostra farina, i tegumenti esterni, che apportano fibre, e il germe, parte embrionale della pianta.

Macinatura

La macinatura è il passaggio che separa l’amido dalla cariosside, cioè l’involucro del chicco. Dal grano duro otterremo le semole, dal grano tenero le farine con diverso grado di raffinazione, dalla integrale (non raffinata) alla 00 (la più raffinata).

Il processo prevede tre fasi:

Pulitura

Allontana il materiale estraneo attraverso aspirazione delle impurità di natura minerale o vegetale, spesso presenti nel raccolto. Un sistema di ventilazione spazza via le paglie e i residui più leggeri, mentre uno di calibrazione separa i grani grossi dai semi più piccoli. La superficie del chicco viene poi pulita con delle spazzole.

Condizionamento

Per facilitare la macinazione e il distacco dei tegumenti esterni, il grano viene ammorbidito con l’acqua per un periodo che va da 12 a 48 ore. La durata dipenderà dal livello di umidità iniziale e dal grado di friabilità della mandorla farinosa.

Macinazione

Il chicco viene frantumato passando attraverso una o più coppie di cilindri rotanti: di passaggio in passaggio, il chicco si “sveste” della cariosside esterna, liberando l’amido centrale. Nel caso delle farine integrali, i frammenti di crusca vengono lasciati insieme all’amido. Nel caso delle farine raffinate, invece, il prodotto viene setacciato dopo ogni passaggio per eliminare i frammenti di tegumento.

Abburattamento

L’abburattamento è la percentuale di farina estratta dal chicco: nel caso di una farina integrale sarà al 100%, perché nulla è stato scartato. In una farina 00 sarà di circa il 50%.

La legge italiana classifica le farine in base alle ceneri residue dalla loro combustione: dal momento che gli zuccheri bruciano e i minerali contenuti nella crusca rimangono come residui, bruciando la farina possiamo determinarne la percentuale di fibre e il grado di raffinazione.

Gli anni del boom economico hanno visto un forte aumento del consumo di farina raffinata, ritenuta più “nobile”. Oggi sappiamo che l’eliminazione delle fibre ha numerosi svantaggi, come la perdita di preziosi minerali e un annalzamento dell’indice glicemico. I nutrizionisti raccomandano di alternare i profotti a base di farina bianca con quelli integrali, altrettanto gustosi e più sazianti.

Farina forte, farina debole

Spesso nell’ambito della panificazione si parla di “forza” della farina: ci si riferisce alla sua capacità di trattenere l’anidride carbonica prodotta con la fermentazione. Più un prodotto richiede una lievitazione lunga, più la farina deve essere forte per non sgonfiarsi. Per orientarci possiamo leggere i valori nutrizionali: più proteine ci saranno, più sarà forte la farina. Il glutine, infatti, forma nell’impasto una struttura che trattiene le bolle a lungo.

Un asfalto più pulito

Ogni nostra abitudine ha un impatto sull’ambiente. Stiamo imparando a riconoscere ciò che nuove alla salute del pianeta e limare il nostro impatto ambientale con piccoli gesti quotidiani, ma non tutto dipende da noi; la strada è ancora lunga… Ed è parte del problema.

Non sono solo i carburanti a inquinare: l’asfalto stesso impatta sulla qualità dell’aria e l’inquinamento del suolo. Le emissioni dai tubi di scarico dei veicoli e quelle provenienti dall’asfalto a contatto con gli pneumatici si dividono, in egual misura, la responsabilità totale dell’inquinamento derivante dalle strade.

Quanto inquina

Una ricerca portata avanti dalla Yale University, basata su esperimenti di laboratorio, ha rivelato che l’asfalto è una pericolosa fonte di smog. Gli scienziati hanno scoperto che all’aumentare della temperatura (20 gradi di escursione termica) il campione di asfalto prelevato produceva il doppio delle emissioni. Ancora più preoccupante è il dato basato sul contatto diretto tra “strada” e raggi solari: le emissioni inquinanti quadruplicano.

Difficile pensare: “È solo un esperimento”, vista l’emergenza surriscaldamento globale di cui siamo a conoscenza ormai da decenni. Le temperature raggiunte in laboratorio coincidono con quelle registrate nelle grandi città in giornate estive particolarmente calde, una realtà che andrà intensificandosi nei prossimi anni, prima che le contromisure “ambientaliste” a tutti i livelli producano i loro effetti.

Alcune soluzioni

È con l’aggiunta di alcuni additivi che è possibile ridurre l’impatto ambientale dell’asfalto. L’azienda italiana Iterchimica, situata nei pressi di Bergamo, produce già dagli anni ’60 questi materiali, inizialmente con l’obiettivo di rendere le strade più efficienti, evitando la formazione di buche e infiltrazioni d’acqua. “Dopo pochi anni sono stati sviluppati nei nostri laboratori gli additivi rigeneranti, quando ancora non si parlava di economia circolare e recupero dei materiali” ha dichiarato l’amministratore delegato Federica Giannattasio. Oltre a evitare lo smaltimento in discarica del materiale fresato e l’estrazione di nuove materie prime, il risparmio è riscontrabile anche sul piano economico: l’asfalto può essere riutilizzato fino al 100% per realizzare nuova pavimentazione.

Dopo circa quindici anni di ricerche, l’azienda è arrivata a produrre altri additivi che abbassano sostanzialmente la temperatura di produzione dell’asfalto. Ne consegue una consistente riduzione del consumo energetico e di emissioni di CO2.

Una ricerca che ha invece calcolato la differenza tra emissioni da “asfalto puro” e quelle da “asfalto con additivi” arriva dall’Olanda, precisamente dall’Università di Eindhoven. Gli studiosi hanno ricoperto l’asfalto di un rivestimento in biossido di titanio(TiO2), una polvere che funge da “convertitore” da sostanze inquinanti ad altre meno pericolose. Essenzialmente questo materiale rompe le molecole tossiche rendendole inoffensive.

È risultata una diminuzione media del 19% per quanto riguarda l’inquinamento da ossidi di azoto (responsabili di smog e piogge acide), mentre nelle giornate più calde e soleggiate la percentuale è salita al 45%, poiché i catalizzatori del TiO2 vengono attivati proprio dalla luce solare.

Lo studio olandese era stato pubblicato nel 2013 e aveva letteralmente aperto nuove strade.

L’evoluzione

Nel 2019 infatti un team di ricercatori proveniente dall’Università di Bologna, dal Politecnico di Milano, CNR e Italcementi, ha scoperto un altro materiale che, aggiunto al diossido di titanio, andrebbe a degradare fino al 70% delle molecole pericolose. Si tratta del grafene, ottenuto dall’esfoliazione della grafite di base. Il composto può essere utilizzato anche sulle pareti esterne degli edifici, oltre che su strade e marciapiedi.

Le ambizioni degli studiosi non si fermano: l’intenzione è quella di utilizzare il cemento e i suoi additivi come “stimolatori” di calore, sia nelle case che nelle strade in periodi particolarmente freddi. Il progetto è stato presentato nel febbraio del 2019 e le ricerche stanno proseguendo, per un futuro sempre più green.

Il vino Oltralpe: la storia

Cugini si nasce, non si diventa. Abbiamo le nonne in comune, le famose Alpi, tutto il resto è sana rivalità. Nel mondo calcistico (non si dimentica la magica notte del 2006), sul piano economico, ma anche e soprattutto nell’universo enogastronomico. Con i Francesi è così, siamo in continua competizione e, difficile da ammettere, la partita su tutti i campi è fastidiosamente equilibrata.

I meriti vanno riconosciuti, storie e tradizioni sono fatte per essere raccontate, e oggi tocca a loro, i nostri “amati” cugini.

Storia

I Romani furono abili a ereditare le tecniche di coltivazione della vite dagli Etruschi e a farle proprie, iniziando la produzione su larga scala. Anche i Greci presero esempio e sperimentarono con nuove soluzioni fino a quando, nel 600 a.C. circa, non fondarono la città di Massalia, l’attuale Marsiglia, dove diedero inizio a un connubio destinato ad avere grande successo: la vite in Francia.

Furono comunque i dominatori Romani a diffondere in territorio transalpino le tecniche di vinificazione dell’uva. Il manuale Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, già menzionato in precedenti articoli, riporta diverse testimonianze di produzione in alcune regioni francesi. Lo scrittore racconta che a Vienna, l’attuale Vienne, nella Valle del Rodanosi produceva un vino “resinato” e che veniva venduto a prezzi elevati.Proprio nei pressi di quella Valle, poco più tardi, i Romani fondarono la città di Narbonneconsiderata la città più proficua nella produzione vinicola.

La posizione strategica della città di Bordeauxporto di accesso all’Oceano Atlantico, fu il principale vantaggio sfruttato dai nostri cugini per inaugurare un massiccio mercato internazionale.

I maggiori responsabili del successo di cui oggi godono i vini furono tuttavia i monaci, nel periodo del medioevo. Essi avevano necessità di produrre vino per celebrare le liturgie. Riuscirono ad affinare le tecniche tradizionali, fungendo da modello per le future generazioni di vinai.

Dom Perignon

È nel XVII secolo che la Francia ha messo a segno, in un solo colpo, un’infinità di punti che l’hanno portata a stabilirsi in cima alle classifiche dei produttori di vino di qualità.

Pierre Perignon, detto Dom, nacque nell’inverno del 1638 a Sainte-Menehould, nella regione della Champagne-Ardenne. Divenuto prete, all’età di 30 anni, gli venne affidata la gestione dei vigneti del monastero benedettino Saint-Pierre d’Hautvillers. La struttura viveva di produzione e vendita di vino, perciò il giovane parroco aveva nelle proprie mani il destino dell’”azienda”.

Un errore gradito, come talvolta accade, potrebbe aver portato alla nascita della bevanda lussuosa, quella che usiamo per brindare a un avvenimento importante: lo Champagne.

Dopo aver imbottigliato del vino bianco, Dom si sarebbe accorto che alcune bottiglie erano scoppiate. Lo avrebbe chiamato “Vino del Diavolo” allora, perché quel pericoloso spargimento di pezzi di vetro non poteva essere altro che un “dispetto dagli inferi”. Bello scherzo, signor Diavolo. Il prete avrebbe però poi lasciato la tesi superstiziosa e si sarebbe dedicato allo studio scientifico di ciò che era successo al vino. In questo modo avrebbe scoperto come veniva sviluppata l’anidride carbonica dopo che il vino era stato imbottigliato. Avrebbe inventato, in sostanza, il vino frizzante.

L’altra tesi attribuisce tutto il merito della scoperta a Dom Perignon. Egli avrebbe aggiunto di proposito zucchero e fiori all’interno della bottiglia di vino bianco, un escamotage che avrebbe portato alla nascita del vino frizzante.

A quel punto, qualunque sia la leggenda veritiera, il prete decise che bisognava produrre un vino di qualità, dopo la scoperta delle bollicine. Selezionò i vitigni Pinot NoirChardonnayPinot Meunier e diede vita al miglior Champagne che il mondo avesse mai conosciuto fino a quel momento. Certo, era il primo e unico. Ma, signori, è rimasto unico nei successivi tre secoli e lo rimarrà, probabilmente, in eterno.

Infine, per tenere a bada il diavoletto, Pierre decise di utilizzare il tappo di sughero, affinando nel frattempo le tecniche di produzione, per lasciare in eredità ai posteri un gioiello senza tempo!