Giornata Mondiale contro l’AIDS

Oggi è il trentaduesimo anniversario della Giornata Mondiale contro l’AIDS. La malattia venne identificata nel 1982 e subito considerata pandemia, sei anni dopo venne istituita la giornata mondiale, la prima nell’ambito della salute. Ma cos’è l’AIDS? Come si trasmette? Esistono delle cure? Dall’82 ad oggi si sono fatti progressi in termini di ricerca? 

HIV e AIDS

AIDS è l’acronimo di “Sindrome da immunodeficienza acquisita”. Si può definire come lo stato avanzato, in assenza di cure, del virus HIV. Quest’ultimo attacca i linfociti CD4, un tipo di globuli bianchi che si occupano di fornire al nostro organismo le difese immunitarie.

Un malato di AIDS ha quindi sicuramente contratto l’HIV, ma non è sempre detto il contrario: una volta contratto il virus (ed esserne venuti a conoscenza) è possibile contrastarlo ed evitare di giungere allo stadio AIDS, molto più pericoloso e, nella maggior parte dei casi, letale.

Il virus non causa la morte degli individui che lo contraggono, ma attaccando le difese immunitarie facilita la comparsa e la diffusione nell’organismo di altre patologie che portano alla morte.

Le persone che hanno contratto HIV sono dette “sieropositive”: ciò vuol dire che dalle analisi specifiche risulta la presenza nel sangue degli anticorpi anti-HIV.

Come si trasmette il virus

L’HIV si deposita all’interno dei fluidi corporei (sangue, liquidi seminali, latte materno), perciò la trasmissione tra una persona infetta e una sana avviene con lo scambio di tali liquidi.

Non si trasmette tramite la saliva, perciò è falso affermare che anche un bacio può essere fonte di contagio. Tuttavia se la persona infetta dovesse avere una ferita nella bocca, allora il bacio potrebbe rivelarsi contagioso. Le modalità di trasmissione più comuni sono comunque i rapporti sessuali non protetti ed è alta la percentuale di tossicodipendenti contagiati a causa dello scambio di siringhe e aghi infetti. Ma una volta contratto il maledetto virus, è possibile guarire?

Cure

Prima di tutto bisogna “scoprire” di essere sieropositivi, dal momento che non esistono sintomi specifici per questa condizione. Ci sono persone che lo scoprono dopo diversi anni, poiché il virus rende vulnerabili a malattie che generalmente non darebbero grossi problemi. A quel punto, ammalandosi molto spesso, queste persone decidono di effettuare il test.

È necessario sottolineare che un virus, una volta entrato nell’organismo, tende a replicarsi e prende forza giorno dopo giorno se non si interviene tempestivamente. Il consiglio degli esperti è quindi quello di effettuare regolarmente test a prescindere dai contatti che si hanno. È necessario a maggior ragione se si hanno rapporti sessuali non protetti con persone sconosciute o che comunque non hanno la certezza di essere sieronegative.

I malati di HIV vengono sottoposti, ormai da diversi anni, alla terapia antiretrovirale. Questa non permette di eliminare il virus dall’organismo, ma lo gli impedisce quattro pericolose azioni: l’ingresso nelle cellule, il passaggio da virus RNA a virus DNA (ciò che gli permette di replicarsi), la capacità di integrare il DNA del virus al DNA della cellula ospite e la maturazione di nuove particelle virali potenzialmente infettanti.

Secondo il Ministero della Salute le persone che si sottopongono alla terapia antiretrovirale subito dopo che il virus si è insediato hanno una prospettiva di vita simile alle persone sane.

Inoltre, le persone che durante la terapia mostrano per 6 mesi consecutivi una carica virale di livello “non misurabile” vedono annullata la possibilità di trasmettere il virus ad altri

Casi particolari

Una persona sieropositiva può avere figli?

Per quanto riguarda l’uomo sieropositivo il metodo più sicuro è ricorrere all’inseminazione artificiale. Vengono separati gli spermatozoi mobili dal resto del seme, in modo da evitare la trasmissione dell’HIV presente nel liquido seminale alla donna. In linea teorica la trasmissione rimane possibile nonostante l’esclusione di seme infetto, tuttavia a livello pratico non si sono mai verificati casi di trasmissione alla donna o al feto tramite questa tecnica.

Se invece è la donna ad avere contratto il virus, c’è bisogno di ricorrere a terapie e farmaci specifici, che comprendono anche la terapia antiretrovirale. La probabilità di trasmissione del virus al feto nel caso in cui non ci si sottoponesse alle terapie indicate si aggira intorno al 20%con le cure si scende all’1%, ma i farmaci utilizzati potrebbero causare malformazioni del feto.

Due bambini nati sieropositivi dopo un lungo trattamento sono risultati guariti dal virus, ma dopo la sospensione delle terapie l’HIV è tornato a presentarsi. Ciò ha fornito agli scienziati l’indicazione che il virus può vivere nell’organismo anche in uno stato “dormiente” per poi riattivarsi.

Fa ben sperare il caso di una bambina sudafricana nata sieropositiva che ormai da 8 anni non prende più farmaci e la cui carica virale risulta ancora non misurabile.

L’illustre immunologo americano Anthony Fauci, direttore del National Institute of Allergy and Infectious Diseases statunitense, ha dichiarato: “Servono maggiori studi per capire come stimolare laremissione del virusnei bambini infetti. Tuttavia questo caso rafforza la speranza che trattando un bambino sieropositivo durante l’infanzia potremmo risparmiargli il peso di una terapia che dura tutta la vita”.

Ancora di maggiore auspicio è ciò che si è verificato in Inghilterra. Un paziente di 45 anni è stato sottoposto a una cura sperimentaleproveniente da un gruppo di studio molto ampio delle migliori università britanniche. La nuova terapia è composta da due fasi: il primo farmaco somministrato è unvaccinoche aiuta l’organismo a riconoscere le cellule infette e a eliminarle. Dopodiché entra in gioco la molecola“vorinostat”, cheattiva le cellule contenenti il virus dormiente in modo che possano essere captate e combattute dal sistema immunitario. Si tratterebbe, nel caso in cui venisse riconosciuta efficace dalla comunità scientifica, della prima cura completa contro l’HIV.

Numeri e raccomandazioni

Ad oggi sono morte più di 35 milioni di persone a causa dell’AIDS. Nel 2000 erano solo 685000 i malati che si erano sottoposti alla terapia antivirale, nel 2017 se ne registravano circa 21 milioni. Un progresso enorme che ha ridotto fortemente la trasmissione, ma che non deve assolutamente far cantare vittoria. L’Africa ad esempio, dove il sistema sanitario è in seria difficoltà, conta ad oggi il 70% dei sieropositivi nel mondo. Quali sono gli obiettivi della giornata mondiale?

Per rispondere riprendiamo le parole di Onu Italia: “La giornata mondiale contro l’AIDS rappresenta così un’importante occasione per promuovere prevenzione e assistenzacombattere i pregiudizi e sollecitare i governi e la società civile affinché vengano destinate risorse appropriate per la cura e le campagne di informazione.”

L’invenzione della radio

4842le vie d’Italia dedicate a uno dei personaggi italiani che hanno avuto più successo nella storia. Peccato però, che quel famoso Guglielmo Marconi dovette emigrare per essere ascoltato.

Nella nostra Penisola continuiamo a vantarci, perché tutto il mondo deve sapere: l’inventore dello strumento che ha dato il via alle comunicazioni vocali senza fili è nato a Pontecchio Bolognese, è Italiano.

In principio era il Telegrafo

Circa un secolo prima dell’invenzione di cui si parlerà, in Francia avevano trovato il modo di trasmettere messaggi e codici scritti in ogni parte del mondo, era una vera e propria rivoluzione.

Nel 1843 veniva finanziata dal governo americano la costruzione della prima linea di comunicazione telegrafica, inaugurata un anno dopo tra Washington e Baltimora. Il primo messaggio della storia era trasmesso il 24 maggio 1844 alle 8:45. Samuel Morse a Washington telegrafava a Alfred Vail a Baltimora: “What Hath God Wrought” (“Quali cose ha creato Dio”).

Lo step successivo

Circa vent’anni più tardi in Germania si accorsero che le potenzialità dimostrate dal telegrafo erano solo un assaggio di ciò che la tecnologia avrebbe potuto fornire al mondo delle telecomunicazioni.

James Clerk Maxwell, teorico dell’elettromagnetismo, ipotizzò nel 1864 la possibilità di inviare segnali via etere. Qualche anno più tardi, sempre in Germania, Heinrich Rudolf Hertz dimostrò tramite alcuni esperimenti l’effettiva applicabilità dell’ipotesi del connazionale.

Da qui diversi scienziati intraprendenti si misero a lavoro per produrre uno strumento in grado di trasformare la teoria in pratica.

I progetti più convincenti furono due: uno emerse dal russo Aleksandr Stepanovič Popovl’altro dall’uomo di Pontecchio Bolognese, il fisico Guglielmo Marconi.

Nel 1895 quest’ultimo chiese aiuto a suo fratello per un esperimento che avrebbe dato la svolta decisiva alla sua carriera. Alfonso Marconi sparò un colpo di fucile da un punto oltre la collina dei Cappuccini, per informare il fratello che il segnale inviato dalla soffitta di casa a Pontecchio era arrivato a destinazione. Le ambizioni del fisico italiano erano però ben più grandi: tutto il mondo avrebbe dovuto godere di tale possibilità, utilizzando il suo strumento innovativo.

Nel nostro Paese, purtroppo, il suo progetto non suscitò l’interesse desiderato; Marconi fu quindi costretto a trasferirsi in Inghilterra, dove continuò le sperimentazioni per migliorare quella che presto sarebbe diventata la prima radio al mondo.

Nel marzo 1896 presentò la prima richiesta provvisoria di brevetto, chiamata: “Miglioramenti nella telegrafia e relativi apparati”. Ricevette un ingente sostegno economico da alcuni imprenditori inglesi e decise di imbarcarsi, direzione Nord America. Installato nel novembre del 1901 un grande trasmettitore a Poldhu, in Cornovaglia, si diresse verso St. John’s di Terranova. Qui costruì un sistema per ricevere i messaggi che dovevano arrivare da Poldhu.

Il12 dicembre del 1901, esattamente 119 anni fa, avvenne la prima comunicazione transoceanica via radio.

Gli scettici furono pronti a contestare: non c’erano ostacoli naturali tra la Cornovaglia e il Nord America, solo questo avrebbe permesso a Marconi di trasmettere il segnale.

Re Vittorio Emanuele III decise allora di mettere a disposizione del fisico una grande nave da crociera, la Carlo Alberto. Dal transatlantico Guglielmo Marconi dimostrò al mondo che non esisteva una distanza impossibile da ricoprire per i segnali radio.

Nel 1909, dopo gli ultimi perfezionamenti, il fisico italiano vinse il Premio Nobel per la fisica.

Primi utilizzi

Qualche anno dopo la prima trasmissione scoppiò la Grande Guerra. La radio fu uno degli strumenti più utilizzati dagli eserciti, sia per mandare seganli dalle basi militari alle trincee, sia per individuare la posizione dei nemici tramite la localizzazione del segnale. Tuttavia lo strumento aveva diverse criticità da risolvere, quindi fu utile ma non del tutto decisivo per le sorti della guerra.

Gli Stati Uniti, entrati nel conflitto nel 1917, furono i più abili utilizzatori dello strumento. Non è un caso che, negli stessi anni, dalla Pennsylvania venne trasmessa la prima canzone via radio: “I’ve got a hole in my stocking (Ho un buco nella calza).

Terminata la triste pagina della guerra, in Italia se ne aprì una altrettanto atroce. Il fascismo instaurò la dittatura all’inizio degli anni ’20, e l’invenzione di Marconi fu il maggiore strumento di propaganda sfruttato da Mussolini.

La radio in Italia oggi

L’Italia è ancora oggi prima in Europa per numero di emittenti radio in relazione alla popolazione. Dalle stime del TER (Tavolo Editori Radiofonici) emerge però che sono solo 300 gli emittenti veramente attivi, e solo 150 di questi hanno un “assetto d’impresa rilevante”.

Dagli stessi dati sappiamo che mediamente 35 milioni di italiani ascoltano la radio (circa il 50% della popolazione). Lo strumento sta scomparendo dalle case, mentre non calala fruizione da automobile: praticamente tutte le vetture in circolazione dispongono di un’autoradio.

Per fasce d’età si nota che sono gli adulti i maggiori fruitori, mentre i giovani fino a 20 anni preferiscono ascoltare musica da altri dispositivi. Quando però questi ultimi diventano automobilisti, entrano a far parte dei fruitori abituali, inizialmente soprattutto per l’ascolto di musica, ma crescendo iniziano ad apprezzare di più la radio come strumento informativo.

Cambiamo aria

Stiamo passando molto tempo a casa e il freddo di certo non invoglia ad aprire le finestre, tra il costo del ricaldamento da una parte e la paura di ammalarsi dall’altra.

Sicuramente il freddo non è una sensazione piacevole, ma va detto che no, non fa ammalare, anzi, tenere una temperatura più bassa tra le mura domestiche porta maggiori benefici per noi e per l’ambiente.

Il motivo principale per cui dovremmo arieggiare frequentemente gli ambienti, però, è un altro e ha a che fare con l’inquinamento. Siamo tutti abbastanza abituati a sentir parlare di particolato e inquinamento atmosferico, ma ci si concentra ancora poco sulla qualità dell’aria negli ambienti chiusa. La concentrazione di inquinanti dentro casa è ben maggiore di quella all’esterno, anche se viviamo in città.

A provenire da fuori, infatti è solo una piccola percentuale: la parte restante delle sostanze nocive deriva da quello che già si trova nell’abitazione. IlComitato scientificosui rischi ambientali e sanitari della Commissione Europea ha contato ben 900 sostanze volatili tossiche “fatte in casa”.

Alcune sonogenerate dalla combustione, ad esempio dal fumo di sigaretta o da stufe, caminetti e fornelli. Altre provengonodai mobili di arredamento, soprattutto quelli contenenti formaldeide. Anche i prodotti di pulizia liberano sostanze volatili tossiche. Infine ci sono gli allergeni, derivanti dalla presenza di polvere, muffa e animali.

A quali rischi per la salute portano queste sostanze?

Le ricerche parlano soprattutto di malattie respiratorie e cardiovascolari.

La pianta cattura inquinamento

C’è un’altra pianta, creata da alcuni ricercatori delle università di Washington e Seattle, che può essere una vera amica dell’ambiente e il peggior nemico dell’inquinamento in casa.

Gli scienziati hanno sintetizzato un gene, già presente nel fegato di alcuni animali, responsabile della sintesi di una proteina detossificante. Il gene è stato poi immesso in una comunissima pianta, presente nella forma “naturale” già in diversi appartamenti e uffici. Si tratta del Pothos, scientificamente Epipremnum aureum. 

La pianta modificata riuscirebbe a catturare circa il 90% di due sostanze inquinanti spesso presenti negli spazi chiusi: il benzene, derivante dal fumo di candele o sigarette, e il cloroformio, che si diffonde dall’evaporazione dell’acqua.

Per dimostrare l’efficacia della loro scoperta, i ricercatori hanno effettuato un semplice test: la versione “naturale” del Pothos e quella geneticamente modificata sono state poste in due spazi con la stessa concentrazione di benzene e cloroformio. La prima è riuscita a catturarne meno del 10% in una settimana, la seconda circa il 90%.

Un paio di precisazioni: la pianta “funziona” meglio in abbinamento a un ventilatore puntato sulla stessa. Per depurare un intero appartamento, inoltre, ci sarebbe bisogno di circa 10 kg di piante.

Alcuni semplici consigli

Il metodo più efficace per migliorare l’aria di casa è far circolare l’aria all’interno degli spazi chiusi, aprendo le finestre per almeno un’ora al giorno.

Dopodiché bisogna essere consapevoli dei rischi per la salute derivanti dalla formaldeide quando si acquistano i mobili.

Fondamentale, e non solo se in casa ci sono bambini, è evitare di fumare all’interno delle abitazioni.

Il fungo più pregiato al mondo

È uno di quei cibi da “vorrei ma non posso”, ma alla fine almeno una volta in inverno compare sulle nostre tavole. Non è facile, o quasi impossibile, trovarne le qualità più rare, ma per fortuna quelle immesse sul mercato soddisfano il nostro palato senza mandarci in bancarotta.

Si tratta del tartufo, il fungo più bramato dai buongustai degli ultimi 5000 anni.

In generale

È la domanda più gettonata, perciò meglio sciogliere subito il grande dubbio: Perché costa così tanto?

Perché è raro.

Sono stati individuati sinora 60 tipi di tartufo nel mondo, tuttavia solo 9 di questi sono commestibiliSul mercato, inoltre, si possono trovare solo 6 di queste varietà.

Non è finita qui. Non tutti i tartufi che vengono trovati sono adatti alla consumazione, magari perché rovinati o non ancora maturi. Si possono raccogliere solo in determinati periodi dell’anno e in zone ben precise. Ciò che rende questo fungo così ambito è anche il fatto che è molto difficile dacoltivareDalla semina al raccolto devono passare all’incirca cinque anni e l’investimento iniziale può superare i 7.000 euro.

Come crescono i tartufi

I tartufi, come i porcini, sono funghi simbionti. Per crescere hanno bisogno di instaurare un rapporto di simbiosi con un albero, crescendo attaccati alle sue radici e scambiando con esse acqua e sali minerali.

Tutto inizia dalle spore, le cellule riproduttive dei funghi. Queste vengono trasportate dall’acqua o da insetti di terra fino alle radici dell’albero, dove formeranno delle micorrize. Si tratta di manicotti posti alle estremità delle radici, formati da reticoli di ife, filamenti che procacciano nutrimento al fungo. Qui avviene lo scambio di nutrienti e il tartufo può finalmente iniziare a crescere; gli ci vorrannodai 2 ai 7 anni per maturare, se si tratta di un tartufo bianco, e dai 13 ai 15 anni se si tratta di un tartufo nero.

Le “tartufaie”, le zone in cui solitamente si sviluppano i tartufi, si trovano spesso in zone collinari o montuose caratterizzate dall’assenza di vegetazione erbacea, nei pressi di querce e noccioli.

Il tartufo si inserisce nella lunga lista di prodotti che gli altri Paesi ci invidiano. Cresce in quattordici regioni italiane in diverse stagioni dell’anno, anche se il periodo più proficuo per la raccolta è l’autunno e una parte dell’inverno. Prima di parlare delle due varietà, rigorosamente italiane, più famose al mondo, è utile far sapere che, proprio in queste fredde giornate invernali, si sta raccogliendo il Tuber Brumale, meglio conosciuto come “tartufo invernale”. Si può trovare tra i 5 e i 30 cm sotto terra, perciò c’è bisogno del fedelissimo cane da tartufo per scovarlo. Si trova a prezzi accessibili ed è, secondo gli esperti, ottimo per chi predilige sapori forti e decisi.

I più famosi

I conti si fanno alla fine, ma questa storica partita non avrà mai risultato diverso dal pareggio: sicuramente non 0 a 0, poiché si tratta dei migliori tartufi al mondo, quindi si potrebbe optare per un 1-1. È meglio chiarirlo prima, perché parlando di tartufi risulta scontata la domanda: è più buono quello bianco o quello nero? In questo caso specifico: è più buono il Bianco d’Alba o il Nero di Norcia?

Il Nero di Norcia

Per il suo sapore squisito è anche chiamato “tartufo dolce”. L’odore inconfondibile si può riconoscere da metri e metri di distanza. Il tartufo nero di Norcia può essere molto piccolo (delle dimensioni di una nocciola), ma può anche superare le dimensioni di una pallina da tennis. Il valore nutritivo è di gran lunga maggiore rispetto agli altri funghi e anche rispetto a tutti gli altri vegetali. È particolarmente ricco di proteine e sali minerali.

È di colore nero tendente al violaceo all’esterno e presenta venature biancastre nella parte interna.

La raccolta di questo pregiato tartufo va dal 15 novembre al 15 marzo, in zone montane dell’Umbria su suolo illuminato e ben drenato.

Il prezzoNon inferiore a mille euro al chilo.

Il Bianco d’Alba

Il tartufo bianco d’Alba può superare invece i 4000 euro al chilo, semplicemente perché non ne esistono al mondo delle “brutte copie”. Ci sono varietà meno pregiate di tartufo bianco, ma quello piemontese è inconfondibile nella forma, nel colore e, ovviamente, nel sapore.

Matura tra settembre e dicembre in terreni scoscesi (per evitare ristagni d’acqua), in zone collinari e montuose che non superano i 6/700 metri.

Gli esperti dicono che annusandolo si possono percepire sentori di miele, aglio e fungo. Il colore esterno va dal bianco al giallo ocra, con la parte interna che presenta venature marroni.

È inconfondibile anche perché nelle Langhe cresce la varietà che può raggiungere le dimensioni più grandi. Lo scorso anno ad esempio, un ristoratore di Osaka si è aggiudicato all’asta un esemplare record da 591 grammi.

Il lungo viaggio del broccolo

Inconfondibile, prima di tutto. Quell’odore che si sente già dalle scale e invade le nostre narici, eliminando il resto dei profumi di casa, non appena apriamo la porta.Buono o cattivo odore è soggettivo, ma siamo tutti d’accordo nel considerare il profumo sprigionato dai broccoli decisamente “forte”, vero?

L’ortaggio poco amato dai bambini e invece molto amato dagli adulti italiani nel periodo invernale ha proprietà molto utili al nostro organismo, e la sua storia parte da molto lontano.

Il broccolo fa parte della famiglia delle Crucifere o Brassicaceae: ha quindi un antenato in comune con i cavoli, la senape, il ravanello, la rucola, la senape, il crescione e molte altre verdure. È proprio nella nostra penisola che si riscontrano più varietà di questa grande famiglia di ortaggi: la loro differenziazione è dovuta alla selezione operata dalle antiche popolazioni italiche, che ne apprezzarono da subito la versatilità.

Dagli Etruschi ai Romani

Le prime testimonianze riferite alla coltivazione dei broccoli attribuiscono agli Etruschi il brevetto.

Il popolo di abili navigatori amava sia il gusto che le proprietà benefiche delle crucifere. Lo fecero conoscere a Fenici e Greci grazie ai continui scambi commerciali, per poi esportarlo, spostandosi sul Mediterraneo, sulle coste delle attuali Sicilia, Corsica e Sardegna.

Da questi luoghi la prossima destinazione risultava scontata: il broccolo doveva necessariamente entrare a far parte della dieta dei gloriosi Antichi Romani.Lo testimonia Plinio il Vecchio, descrivendo la prima varietà coltivata a Roma, detta “broccolo calabrese”. Lo scrittore racconta chei Romani usavano bollire i broccoli insieme a una miscela di spezie, cipolla, vino e olio, o servirli accompagnati asalse cremose preparate con erbe aromatiche e vino. A Roma veniva attribuita ai broccoli una curiosa proprietà: mangiandoli crudi prima dei banchetti, si aiutava l’organismo ad assorbire meglio l’alcol. Stupefacente.

Ultima notizia dall’Impero: broccolo deriva dal latinobrachium, ovvero braccio, ramo o germoglio.

Da Firenze alla Francia

Nel1533 Caterina de’ Medici sposò Enrico II. IFrancesi conoscono i broccoli grazie alla nobile fiorentina, infatti da quell’anno l’ortaggio iniziò ad essere cucinato nella corte francese, nella quale lavoravano diversi chef italiani.

Il viaggio della verdura a forma di alberello proseguì, macinando chilometri e chilometri, fino a superare la Manica. Ecco che nel 1724 il Gardener’s Dictionarydi Miller, alla voce “asparagi italiani” descriveva perfettamente l’ortaggio di origine etrusca.

Si dice che Inglesi e Francesi fossero restii a cibarsi di broccoli, a causa dell’odore di zolfo che emanavano. Come talvolta accade con i bambini, al primo impatto con un “cibo verde” assaggiarono dopo qualche resistenza e… magia, si leccarono i baffi!

Da Messina alla California

Non conosciamo i nomi, ma sappiamo che il porto di partenza fu quello di Messina. Due migranti italiani in cerca di fortuna in USA, nel 1922, decisero di portarla, quella verdura così buona dalla madrepatria. Il viaggio è lungo, lo spazio in valigia poco: perché non portare i semi e piantarli come facciamo in Sicilia? Buona idea, ragazzi.

San Josè in California fu la prima città americana ad avere una piantagione di broccoli. “L’alberello” piacque e iniziò a diffondersi al di fuori del Golden State: negli anni ’30 tutti gli Stati Uniti conoscevano i broccoli. Gli Americani non si fecero frenare dall’odore come Inglesi e Francesi: comprarono, gustarono e approvarono!

Il freddo è alle porte: le coperte sono pronte a proteggerci e noi a preparare qualche ricetta riscaldante a base, chiaramente, di “asparago etrusco”. Alla prossima!

Non gettare l’acqua di cottura

In molte cucine italiane la cottura della pasta è un appuntamento quotidiano. Decine di migliaia di pentole che vengono riempite e svuotate di quel’ingrediente fondamentale e prezioso che finiamo sempre per gettare nello scarico del lavandino. Parliamo dell’acqua di cottura, con un potenziale che va ben al di là della semplice lessatura!

Sentiamo…

1: Devi mescolare la pasta al condimento? Aggiungi una tazzina di acqua di cottura e mescola per un paio di minuti, cuocendo a fuoco basso. Servirà a rendere il piatto più cremoso.

2:Stai per portare in tavola un piatto di ragù e già pensi alla fatica che farai per scrostare la pentola? L’amido dell’acqua di cottura ti aiuterà a rimuovere i residui di grasso! Versa l’acqua sui tegami da scrostare e pranza a cuor leggero.

3: Mezzo di espressione per la creatività, ma soprattutto arma di distrazione per bambini sazi: la pasta di sale sarà tua alleata mentre sistemi la cucina. Impasta due bicchieri di farina con uno di acqua salata di cottura (salata) e il tuo diversivo sarà pronto in due minuti. Se hai nella dispensa del colorante alimentare, ancora meglio!

4: Ne è rimasta un po’? Usala per il meritato relax: l’amido accumulato nell’acqua di cottura è la migliore “crema naturale” per rendere i piedi lisci e morbidi. In questo caso bisogna aspettare che raggiunga una temperatura adatta al contatto con il corpo. Pedicure fatta in casa, favoloso!

5: Per un riciclo completo e l’ottimizzazione del tuo tempo ci sarà bisogno di un collaboratore multiuso. Le pentole con scolapasta incorporato ti permettono di conservare tutta l’acqua utilizzata e rendere la scolatura rapidissima! Avrai così la tazzina per il piatto cremoso, il bicchiere per la pasta di sale, lo sgrassatore naturale e potrai riciclare il resto per cuocere i legumi, senza neppure cambiare pentola. Basterà accendere di nuovo i fornelli, far lessare fagioli, lenticchie, ceci già ammollati cuocendo a fuoco lento e senza aggiunte. Un consiglio importante: evita se l’acqua è troppo salata! Lo zolfo della buccia dei legumi reagisce con il sale in cottura, rendendola più dura.

“Nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”: abbiamo trovato una prova per sostenere la legge della conservazione dell’energia. In realtà ce l’avevamo sotto gli occhi!

La Ricetta che ha fatto la Storia

Un solo attributo non basterebbe a definirla. Neanche due o tre potrebbero minimamente rendere l’idea di ciò che la carbonara rappresenta nella cucina italiana, romana e mondiale. La si mangia dal primo gennaio al 31 dicembre senza preferenze e si cucina in diversi modi.

Alcuni chef particolarmente orgogliosi spedirebbero in carcere chi banalizza, chiamando carbonara una pasta fatta con la pancetta invece del guanciale e il parmigiano invece del pecorino.Viviamo in un mondo di splendide contaminazioni culturali, perciò nessun reato: ognuno può interpretare la ricetta a modo suo, sperimentando ingredienti e metodi di cottura differenti.

Ma da dove viene questa fantastica ricetta? Attenzione, i Romani deboli di cuore sono pregati di fermarsi a questo punto.

Una magica colazione

Ci ha lasciati nel 2016, all’età di 95 anni, uno degli chef italiani più famosi al mondo nel XX secolo, il signor Renato Gualandi. Nella sua carriera ha cucinato per Charles de Gaulle, per la regina d’Olanda e … per i soldati dell’VIII armata britannica durante la Seconda Guerra Mondiale.

Bolognese di nascita, Gualandi deliziava nel 1944 gli ospiti dell’Hotel Vienna di Rimini. Uno dei comandanti del reggimento sopra citato, il generale canadese Eedson Louis Millard Burns, aveva scelto di pernottare lì, dove probabilmente aveva sentito che si mangiasse da dio.

A cena avvenne la magia.

“I Canadesi avevano del bacon fantastico, della crema di latte buonissima, del formaggio e della polvere di rosso d’uovo” ha raccontato lo chef in una recente intervista. Ricorda qualcosa?

Gli ingredienti erano stati portati in cucina dai soldati perché i cuochi preparassero, il mattino seguente, una consistente breakfast (colazione) al loro comandante.Gualandi non capì (o fece finta) e decise di assemblare quegli ingredienti insieme alla pasta. Bisognava sperimentare, dunque, poichè forse quegli ingredienti così buoni e freschi non li avrebbe più visti.

Misi tutto insieme e servii a cena questa pasta ai generali e agli ufficiali. All’ultimo momento decisi di mettere del pepe neroche sprigionò un ottimo sapore. Li cucinai abbastanza ‘bavosetti’ e furono conquistati dalla pasta”.

Ora si comprende l’avvertimento ai Romani di poco fa?

Altre tesi, prima e dopo

Un’altra tesi, abbastanza accreditata, pone la nascita della carbonara nello stesso periodo appena descritto: quello della Seconda Guerra Mondiale. Si dice che i soldati alleati, soprattutto gli Americani, provassero una forte nostalgia di casa. Sugli Appennini, dove si nascondevano, assaggiarono la pasta “cacio e ova” abruzzese. Avendo buone disponibilità di guanciale (che ricordava loro il bacon), decisero di ricreare il loro piatto simbolo (egg and bacon), mischiandolo all’ingrediente tipico del Paese che li ospitava: in questo modo sarebbe nata la carbonara.

Nel 1930 Ada Boni scrisse una “Bibbia” dei ricettari più famosi della cucina romana: la carbonara non era menzionata. Come mai allora si considera questa ricetta tipicamente romana?

Alcuni, riferendosi all’ultima teoria esposta, affermano che dagli Appennini la ricetta viaggiò fino a Roma: la città dell’accoglienza. Qui, i soldati sarebbero stati cullati con la loro nuova ricetta preferita, sentendosi finalmente a casa.

Ma cosa successe dopo che il generale Burns e la sua truppa lasciarono Rimini?

Proseguirono verso nord, sul mare Adriatico, arrivando a liberare poco dopo Venezia, per poi concludere l’opera a Trieste.Si potrebbe ipotizzare che Veneziani e Triestini, in quel periodo, avessero altro a cui dedicarsi, piuttosto che assorbire una ricetta che avrebbe fatto la storia della cucina italiana.

La “snobbata” carbonara, terminata la guerra, andò a cercare fortuna nella capitale, la città che non l’avrebbe mai lasciata andar via. Una città che rappresenta l’intera nazione.

Romana, Romagnola, Veneziana, Triestina, Abruzzese, poco importa: buon pranzo, amici della carbonara!

Le abitazione nella Roma Antica: prima parte

 anche il mare, la montagna, il lago e così via, ma, a prescindere da collocazioni e dimensioni, una delle emozioni quotidiane più gradevoli la viviamo quando apriamo la porta e … “casa dolce casa”.

Probabilmente anche i cittadini dell’Antica Roma provavano lo stesso, ma quante alternative avevano nella scelta dell’abitazione? Potevano scegliere anche loro tra centro storico, quartiere residenziale o periferia? Non proprio.

La città

Si parla della capitale di un impero immenso, perciò palazzi istituzionali, giardini pubblici, monumenti, piazze, basiliche dominavano gran parte della città. In questo modo diminuiva lo spazio per costruire le abitazioni dei cittadini, considerando anche la presenza del Tevere, degli immensi spazi verdi (che verdi dovevano rimanere) e la zona della città dedicata esclusivamente all’imperatore.

Qual è il problema? Basta costruire fuori dal centro e il gioco e fatto. Sì, nel 2020 è un’opzione intelligente, ma duemila anni fa (circa) non esistevano le automobili né tantomeno autobus e metropolitane. La vita si svolgeva tutta intorno al centro perciò i cittadini dovevano necessariamente abitare nei pressi (in alcuni casi all’interno) delle botteghe.

Evidentemente in uno spazio così ristretto non potevano vivere tanti abitanti; in età imperiale si stimava una popolazione compresa tra un milione e un milione e mezzo di individui.

Le case

Se si osservava la città dall’alto, appariva chiara la suddivisione in due ceti. Per quale motivo? Perché esistevano due tipi di abitazione: la domus e le insulae.

Scendendo in strada si potevano notare altre sfaccettature: le domus erano abitate solo dai ricchi è vero, ma vivere nelle insulaenon indicava necessariamente una condizione di povertà.

Ville e case popolari si alternavano nelle strade senza un ordine, poiché i ridotti spazi edificabili non permettevano una divisione della città in quartieri agiati e meno agiati.

Le differenze però si notavano: una domus occupava verosimilmente lo spazio occupato da quattro o cinque insulae, ognuna delle quali ospitava tante famiglie quanti erano i piani dell’edificio. Per semplificare: una famiglia ricca godeva dello stesso spazio riservato a 15-20 famiglie della plebe.

Visitando l’interno di una domus si percepiva un divario sociale più o meno ampio?

La domus

Come faceva un immaginario turista a distinguere le domus dalle insulae camminando in strada?

Semplice, se passava davanti a delle palazzine su più piani, con finestre esterne e porte in legno umili, allora si trovava davanti alle abitazioni della plebe. Se invece scorgeva solo mura senza finestre con un alto portone in legno pregiato nel mezzo, ornato da teste in bronzo di leone, di orso, di toro o di qualunque altro animale che rappresentasse potenza, allora era proprio di fronte a una domus.

Facendo sbattere gli anelli in bronzo alla testa dell’animale scelto dalla famiglia, sarebbe stato accolto da uno schiavo che, prima di richiudere il portone, avrebbe lucidato gli ornamenti in bronzo.

Una volta all’interno, dopo aver superato il vestibulumun lungo corridoio riempito solitamente con statue della famiglia sui lati, si sarebbe ritrovato nell’atriumuna piccola “piazza” quadrata aperta nel mezzo e chiusa a porticato sui 4 lati. Al centro si trovava l’impulvium, una sorta di fontana ornamentale, che svolgeva però una funzione ben precisa: faceva arrivare l’acqua piovana in una cisterna sotterranea, dalla quale attraverso un pozzo gli schiavi raccoglievano l’acqua per i bisogni della casa.

Dietro l’impulvium il turista avrebbe notato una porta coperta da una tenda pregiata. Proprio lì sarebbe stato condotto dal governante, nel tablinum, dove il pater familias usava accogliere personalmente i suoi ospiti.Lo studio personale del proprietario comprendeva un grande tavolo in pietra o legno pregiato, che divideva la sedia del padrone dagli sgabelli dei visitatori.Alle spalle della sua sedia, il padrone avrebbe indicato al turista il resto dell’abitazione. Fino ad ora, in effetti, si è descritto quello che noi oggi consideriamo l’ingresso.

Dal tablinum si giungeva direttamente al peristilium, un grande giardino porticato in cui spiccavano fiori e piante di ogni tipo, statue e fontane nel mezzo.

Tra i muri affrescati del porticato il turista avrebbe notato una serie di porte, quelle delle stanze da letto.Alcune testimonianze affermano che padrone e matrona non usavano dormire nello stesso letto, infatti le camere contenevano spesso letti singoli (lectuli), ma esisteva anche il letto matrimoniale (lectus genialis). Il turista entrando in una camera avrebbe già trovato gli armadi, che avevano però la funzione di custodire oggetti di valore o delicatiI vestiti venivano riposti in un’apposita cassapanca. Non possiamo aspettarci una scrivania, poiché con l’immenso spazio a disposizione, spesso si potevano trovareall’interno delle domus anche intere biblioteche adibite all’educazione dei ragazzi.

Il visitatore sarebbe poi stato ricondotto nel tablinum, dal quale si accedeva anche alla sala più importante della casa, il tricliniumla sala da pranzo. Era il luogo in cui i padroni esibivano in maggior misura lo sfarzo, poiché ospitava i banchetti, momenti conviviali fondamentali nella cultura romana antica.Ogni oggetto della sala presentava decorazioni. Il tavolo poteva essere in marmo o in pietra con zampe raffiguranti ancora teste di animali potenti. Si mangiava distesi su dei letti di legno, dai quali i commensali prendevano il cibo dal tavolo centrale o dai diversi mobiletti sparsi nel triclinium.

La parte deludente di tutto il lusso descritto era però la cucina, dove l’ospite non sarebbe mai entrato. Era infatti considerato un luogo di servizio, gestito dagli schiavi, perciò non servivano decorazioni o ampi spazi. La cucina veniva infatti posta nei pressi delle latrine.

Ma questi ricchi non avevano la piscina? Non esattamente. Alcuni facevano costruire direttamente delle terme all’interno della casa, con vasche d’acqua calda, tiepida e fredda.

Le finestre e i balconi? Tutti affacciati all’interno. Da fuori nessuno poteva scorgere cosa succedeva dentro la domus. Alcune ville avevano il solarium, un terrazzo con zone d’ombra dove gli abitanti della casa si rilassavano nelle giornate calde.

Un dato che arriva dal catasto della Roma del I secolo d.C. rivela che erano ben 1797 le case con le caratteristiche appena descritte nella capitale. Il numero delle insulae e tante altre curiosità sulle abitazioni romane le racconteremo più avanti.

Le abitazioni nella Roma Antica: seconda parte

Terminata la visita alla domus, il turista sarebbe tornato in strada curioso di scoprire quanto grande fosse la differenza di spazi e arredamenti tra le case dei ricchi e le insulae, le abitazioni della plebe.

Le insulae

Poteva trovarsi davanti tre diversi scenari: un palazzo da cinque o sei piani, uno più piccolo intorno ai tre piani, o addirittura poteva bussare alla porta di una bottega sovrastata da un unico piano.

La prima opzione l’avrebbe incontrata sicuramente nelle vie vicine ai più importanti uffici istituzionali, poiché la costruzione prevedeva costi più alti e si sfruttava più spazio possibile in altezza.

La seconda era la più diffusa dopo l’ascesa al trono di Augusto, che proibì costruzioni superiori ai 20 metri d’altezza a causa dei frequenti incendi da cui i cittadini agli ultimi piani non riuscivano a salvarsi.

Il terzo scenario era invece tipico dei commercianti che lavoravano in una zona più decentrata.Qui solitamente si trovavano delle “case” (nulla a che vedere con le domus) a due piani: il primo destinato alla bottega, il secondo all’abitazione.

Primo o ultimo piano?

Nella maggior parte dei casi oggi chi abita in un attico è ritenuto fortunato. Chiaramente bisogna considerare la presenza o meno dell’ascensore, il tipo di quartiere in cui si abita, il panorama che la terrazza offre, ma in linea generale l’ultimo piano è il più ambito.

Nella Roma antica non era affatto così.

Il primo piano era riservato alle persone più abbienti: spesso si trattava di funzionari del governo municipale, imprenditori, commercianti di successo e costruttori. Da qui si potrebbe immaginare una sorta di scala sociale corrispondente al piano di abitazione: man mano che si salivano le scale ci si trovava davanti una famiglia meno abbiente della precedente. Ma perché?

Prima di tutto è un dato ovvio che queste case non fossero dotate di ascensori. Come accennato, inoltre, gli incendi nelle abitazioni erano molto frequenti: gli edifici erano costruiti con materiali scadenti e spesso gli infissi erano in legno. Utilizzando lanterne e stufe per riscaldare, i materiali prendevano fuoco facilmente: chi viveva al primo piano era ben presto in strada per mettersi in salvo dall’incendio, chi si trovava di sopra molto probabilmente non ce l’avrebbe fatta.

In età imperiale anche questo problema venne parzialmente risolto, utilizzando la pietra al posto del legno negli appartamenti.

L’interno dell’insula

Dopo una lunga passeggiata, il turista si sarebbe finalmente deciso a visitare una casa popolare.

Avrebbe trovato un primo piano sicuramente diverso dall’ingresso della domus, ma allo stesso tempo confortevole. Gran parte degli abitanti dell’insula al primo piano infatti godevano dell’allacciamento all’acqua corrente e di bagni privati (sotto il pagamento di una tassa). I condomini più poveri invece avevano nel vano della scala (il dolium) un recipiente in cui svuotare i vasi.

Salendo al secondo piano, l’immaginario visitatore avrebbe trovato un appartamento angusto e privo di servizi. I mobili si limitavano a qualche sedia e cassapanca e, molto probabilmente, entrando nella sala da pranzo si sarebbe ritrovato contemporaneamente nella camera da letto.Avrebbe trovato muri e pavimentazioni decisamente precari. Non di rado le “palazzine” crollavano per la scarsa attenzione in fase di costruzione.

Il lato positivo? Nessuno era isolato. Le finestre e i rari balconi affacciavano in strada, nella città movimentata. Allo stesso tempo però abitare in un’insula voleva dire convivere con i costanti rumori della capitale.

L’amministrazione delle insulae

I cittadini meno abbienti avevano diritto a un’abitazione a basso costo a Roma?Decisamente no. Se si desiderava vivere nella capitale dell’impero bisognava prepararsi a pagare affitti salati.

Alcune testimonianze rivelano i prezzi medi degli affitti: al primo piano ci si aggirava intorno ai 3000 sesterzi l’annoAi piani superiori intorno ai 2000 (con una somma leggermente inferiore per chi abitava ai piani più alti rispetto ai più bassi).

Il problema è che ad esempio un manovale, categoria che sicuramente abitava i piani alti, guadagnava 5 sesterzi al giorno. Per questo motivo la piccola abitazione veniva ulteriormente divisa con altre famiglie in subaffitto, in modo da riuscire a sostenere le altre spese.

L’affitto doveva essere pagato ogni 6 mesi a un amministratore (l’antenato del nostro amministratore di condominio). A questi veniva affidata la gestione dell’intera palazzina e il proprietario riscuoteva solitamente l’affitto del primo piano, lasciando all’amministratore il resto del guadagno.

Insomma, Roma era già all’epoca una della città più belle del mondo (forse la più bella). Viverci voleva dire avere grandi opportunità lavorative e relazionali. Le terme, i giardini pubblici e ogni tipo di servizio condiviso era a disposizione di tutti i cittadini senza distinzioni di ceto sociale. Arrivare a fine mese però, per gli abitanti delle 46602 insulaeera davvero difficile.

5 cose che (forse) non sai sui sommelier

1) Da dove deriva il termine?

Sommelierè evidentemente una parola appartenente alla lingua francese, ma è bene sapere che siamo noi Italiani i primi utilizzatori del termine, ripreso poi dai cugini d’Oltralpe nel corso del XVIII secolo.

Il “Somigliere” era colui che si occupava di procurare gli approvvigionamenti (cibo, acqua, vino) e di trasportarli tramite gli animali da soma. Deriva infatti dal latino “sagmarium”, aggettivo traducibile letteralmente con “da soma”.

I francesi lo trasformarono in sommelier, per definire il responsabile della presentazione e del servizio del vino a tavola.

2) Quando nasce la figura?

La prima testimonianza di una figura simile a ciò che oggi intendiamo per sommelier arriva dall’Antica Grecia, nella quale si distingueva il “Simposiarca”. Era il responsabile del simposio, la parte del banchetto greco in cui si degustavano vini e si aprivano dibattiti politici.

Il simposiarca aveva l’arduo compito di diluire il vino, poiché all’epoca la bevanda era troppo sciropposa e poco gradevole se non miscelata con l’acqua. C’era perciò bisogno di un intenditore che sapesse calcolare la giusta quantità di acqua e vino, per ottenere una miscela che allietasse gli ospiti.

A Roma la stessa figura professionale prendeva il nome di magister bibendi: il maestro del bere.

3) Chi è Sante Lancerio?

Tutta la storiografia è d’accordo su chi debba essere considerato il primo vero sommelier della storia: lo storico e geografo Sante Lancerio. Era ufficialmente il “bottigliere” di Papa Paolo III, pontefice dal 1534 al 1549.

Il ruolo di Lancerio consisteva esclusivamente nel procurare vino per la tavola di Sua Santità. Il bottigliere svolse un grande lavoro di selezione e, durante i viaggi al seguito del pontefice, riportava le caratteristiche dei vini delle zone visitate.

È infatti l’autore di un dettagliato documento scritto, inviato al cardinale Guido Ascanio Sforza, nel quale si trovano delle vere e proprie recensioni sui vini, comprendenti le caratteristiche organolettiche ma anche zone e metodi di produzione.Il testo riporta aggettivi ancora in uso oggi tra gli enologi, come “asciutto, rotondo, maturo”, ma anche preziosi consigli sul periodo migliore in cui un tipo di vino poteva essere gustato. Venivano addirittura offerte indicazioni sul vino da bere in base allo stato d’animo.

4) Il sommelier può essere astemio?

Sì. Per averne una testimonianza basta recarsi a Rutigliano, in provincia di Bari, e prenotare un tavolo al ristorante Testecalde. Il locale, grazie alla stupenda iniziativa della cooperativa “Dis-abilità”, è completamente gestito da ragazzi disabili. Dato che i dieci camerieri e ristoratori di Testecalde seguono terapie farmacologiche incompatibili con l’alcol, si è trovata una strada alternativa per raccontare il vino e abbinarlo ai piatti del menu. Ai dieci già in servizio si sono aggiunti altri 15 giovani, che hanno seguito un corso per sommelier organizzato in collaborazione con l’Ais Bari. Ai ragazzi sono state spiegate le caratteristiche dei vini con un opuscolo creato ad hoc. Sono diventati degli intenditori, tramite la vista e l’olfatto, e hanno poi dovuto raccontare ai clienti ciò che è richiesto alla figura del sommelier.

“Quando ho visto i ragazzi aprire le bottiglie e servire ai tavoli ero impressionato. Hanno voglia di imparare ed eseguire alla perfezione quello che vedono fare. E ancora una volta, ci insegnano che siamo noi a dover imparare tanto da loro», ha raccontato in un’intervista Vito Sante Cecere, il responsabile di Ais Puglia.

5) Esiste un sommelier robot?

Ebbene sì. Lo hanno inventato alla Aarhus University in Danimarca. Si tratta di una sorta di “lingua artificiale” in grado, grazie a una serie di nano sensori, di determinare l’astringenza di un vino e di stabilire in che modo i tannini in esso contenuti influenzeranno i sensi di colui che sta bevendo.

I ricercatori si vantano dell’imparzialità del loro sommelier artificiale, che può dare giudizi solo sulla composizione del vino, senza pregiudizi legati ad esempio ai gusti personali degli esseri umani.

Bisogna però dire che un vino non si compone solo di caratteristiche chimiche, poiché appartiene a un certo territorio, possiede una storia che lo porta dal vitigno al bicchiere, e quando lo si assapora riesce a generare sensazioni che una macchina non può provare né tantomeno spiegare.