Vino: Il prodotto che ci rappresenta

La domanda

Il settore agroalimentare è, per il nostro Paese, una fetta molto importante di economia.

I turisti, ad esempio, sono attratti dalla bellezza unica delle città d’arte, ma spesso con un simpatico accento pronunciano frasi del tipo: “Io qui per mangiare pizza!”

La qualità e l’immensa varietà dei nostri prodotti tipici sono riconosciute in tutto il mondo e il vino è un’importante parte di questo successo.

Il vino italiano in numeri

486: le varietà di uva da vino presenti su tutta la Penisola. Nel dato, del 2012, sono stati inseriti solo le varietà ufficiali, perciò negli ultimi otto anni è molto probabile che sia stata superata quota 500.

50.43 milioni: gli ettolitri di vino prodotti in Italia nell’anno 2018 secondo la stima dei dati ISTAT.

20.8 milioni: ettolitri di vini di qualità DOCG e DOC. La prima sigla (denominazione di origine controllata e garantita) è presente sui vini che rientrano in severi limiti di: tipi di uva utilizzati, rendimento in base agli ettari, procedure di vinificazione e invecchiamento. Inoltre è previsto un ultimo step in cui, dopo l’imbottigliamento, una commissione di esperti assaggia il vino e decide se è meritevole della denominazione.

DOC (denominazione di origine controllata) accerta invece, oltre alla qualità, anche degli specifici criteri di provenienza territoriale, sottostando a regole leggermente meno stringenti dei DOCG.

In Italia vige l’obbligo di apporre su ogni bottiglia di vino DOC o DOCG uno speciale contrassegno, stampato dall’Istituto Poligrafico e Zecca dello Stato, noto come “fascetta”, sul quale è impresso un codice alfa-numerico ditracciabilità.

13.3 milioni: ettolitri di vino IGT prodotti in Italia. “Indicazione geografica tipica” è la classificazione più bassa delle denominazioni di origine, ma presuppone diversi standard a cui sottostare. E’ perciò garantita la provenienza e l’accuratezza nel trattamento dell’uva. Sono circa 118 i vini italiani che rientrano in tale categoria, la maggior parte dei quali, secondo gli esperti, di ottimo livello.

16.3 milioni: ettolitri di vini comuni e da tavola, apprezzati soprattutto all’estero.

2000: imprese industriali impegnate nella produzione di vino in Italia, distribuite in tutte le regioni. Le migliori in termini di rendimento sono il Veneto e la Puglia, le qualità più apprezzate all’estero sono invece la toscana e la piemontese.

6.2 miliardi: fatturato annuo (2018) delle esportazioni di vino italiano nel mondo. Siamo secondi solo alla Francia nella classifica mondiale. Circa il 20 % del vino esportato nel mondo, infatti, proviene dalla nostra Penisola.

11 miliardi: valore totale annuo del settore del vino in euro.

Il vino salva il paesaggio

Pensate che, in alcuni casi, è stato proprio il vino a permettere la conservazione dei nostri luoghi da favola.
Ricollegandoci ai turisti, sono numerosi quelli che spendono più di qualche giorno in Italia, perché consapevoli che la città è solo una delle tante attrazioni da vivere.

Prendiamo a titolo di esempio Firenze: l’arte domina la città, ma tutt’intorno, a pochi chilometri dal centro, si trovano delle colline che offrono paesaggi mozzafiato. Negli scorsi secoli la “collina tipica” era formata da campi di grano, orti, uliveti e vigneti, ma con la modernizzazione queste zone venivano via via abbandonate poiché poco redditizie. I coltivatori rimasti si sono trovati di fronte a un bivio: convertire i terreni agricoli in spazi industriali o moltiplicare i vigneti. Hanno optato per la seconda.

È grazie alla coltivazione della vite che il terreno non è stato abbandonato e ancora oggi possiamo ammirare le verdi colline toscane.

Collio Chardonnay DOC

Il Collio

Tra il fiume Isonzo e il fiume Judrio, al confine tra Italia e Slovenia, sorge una zona collinare interamente dedicata alla coltivazione dell’uva da vino.

Circa 1500 ettari di vigne che producono ogni anno vini pregiati, tanto che la zona è stata una delle prime in Italia, nel 1968, a cui è stata assegnata la Denominazione d’origine Controllata (DOC).

Il Collio Chardonnay Doc si presenta delicato all’odore, di sapore armonico, con una colorazione caratteristica tendente al dorato.

Si ottiene per l’85% da vitigni chardonnay, situati nel comune di San Floriano del Collio (la parte orientale della collina), mentre il restante 15% è composto dalle white grape varieties.

Lo Chardonnay

Esistono due teorie sulla nascita dello Chardonnay.

La prima sostiene l’origine ebraica del vigneto: la parola deriverebbe da “Shahar Adonay”, che significa “la porta di Dio”. Infatti si racconta che i primi Crociati riportavano dal medio Oriente vini chiamati “Porte de Dieu”. Inoltre le colline argillose di Gerusalemme sarebbero il terreno ideale per la crescita di questo tipo di uva.

L’altra teoria colloca la prima apparizione di quest’uva in epoca carolingia in Borgogna. I monaci dell’abbazia di Pontigny sarebbero stati i primi ad impiantare il vigneto tra l’ottavo ed il decimo secolo. Si sarebbe poi diffuso progressivamente in tutto il mondo a partire dal 1800.

La sua capacità di adattarsi a climi e terreni con caratteristiche diverse lo ha reso uno dei vigneti più noti e coltivati al mondo.

Freschezza

Il Collio Chardonnay Doc si consiglia a chi cerca un sapore fresco e corposo, l’ideale nella stagione estiva.

Le uve vengono sottoposte alla criomacerazione: una tecnica successiva alla pigiatura, attraverso la quale buccia e mosto vengono tenute per 12-24 ore ad una temperatura di 5 gradi. Ciò permette di estrarre in maniera efficace gli aromi primari dell’uva, ottenendo un profumo più intenso.

Nella degustazione è possibile percepire un retrogusto di agrumi, tendente alla liquirizia.

La componente alcolica (11.5%) è in equilibrio con l’acidità e, servito a 10-12 gradi, può accompagnare piacevolmente una calda serata.

Ex vite vita: Il vino al tempo dei Romani

In vino veritas

Plutarco, scrittore e biografo di origine greca vissuto a Roma nei primi secoli d.C., affermava: “ciò che è nascosto nel cuore di un uomo sobrio, si trova sulla lingua di un uomo ubriaco”. Ecco spiegata l’origine e il significato di uno dei detti romani che utilizziamo ancora oggi.

Un divieto crudele

Secondo diverse testimonianze, il primo re romano Romolo aveva istituito lo ius osculi: la pratica consisteva nel diritto da parte del pater familias di baciare la propria donna per assicurarsi che non avesse bevuto vino. Le donne colpevoli erano condannate a morte per inedia o bastonate.

Fortunatamente, con la nascita della Repubblica e l’apertura alle altre culture,il vino entrò sempre più nella vita quotidiana dei Romani loius osculivenne abolito: si racconta infatti che Livia, la moglie del primo imperatore Augusto, sostenesse di aver raggiunto una sana vecchiaia grazie al vino bevuto durante i pasti.

Fonti autorevoli

I trattati più preziosi sul tema provengono dallo stesso periodo storico, quello dell’imperatore Augusto, nel quale convissero due grandi scrittori: Columella e Plinio il Vecchio. Il primo compose ilDe re rustica, un trattato dettagliato sulle tecniche agricole, giunto ai giorni nostri in forma completa.Interessante è la descrizione dellevillae rusticae: vere e proprie aziende agricole con una media di circa 200 ettari di terreno coltivabile, dovesi produceva a ritmi paragonabili alle grandi aziende attuali. Diversi storici, infatti, parlano delle villae come il momento di massima efficienza agricola romana (risultati che purtroppo erano dovuti a un massiccio impiego della schiavitù).

Plinio ha affrontato il discorso della produzione nel suoNaturalis Historia, elencando 91 vitigni diversi che producevano 195 tipologie di vino. Ha poi raggruppato nel dettaglio tutti i tipi con caratteristiche simili, distinguendo vini generosi, oltremarini, dolci, contraffatti, prodigiosi.

Enologi e sommeliers

Con il progressivo incremento della produzione, nacquero anche dei lavori specifici.

Ilmagister bibendi, ad esempio, aveva il compito di decidere con quanta acqua diluire il mosto e se usare acqua calda o fredda. In tutti i banchetti e in generale nelle “taverne” dell’epoca, il vino veniva infatti diluito. Chi lo preferiva “puro” veniva considerato un ubriacone.

Glihaustores,invece, assaggiavano il vino e lo classificavano in base alla qualità e all’uso a cui destinarlo.

Il re dei vini

L’Italia meridionale era considerata la zona più adatta alla produzione, nonché la migliore in termini di qualità.

Il vino più famoso, più apprezzato e in seguito più esportato era il Falernum: si otteneva dai vigneti lungo le pendici del monte Massico, in Campania. Gli abitanti di quelle zone erano descritti come i più esperti conoscitori delle tecniche di coltivazione, infatti le villaerusticae campane fungevano da modello per il resto della Penisola.

Il Falerno è un ottimo vino ancora oggi, anche se le uve bianche che lo componevano sono state sostituite da vitigni 100% Falanghina.

Ciò che resta e resterà

La capacità produttiva crebbe a dismisura con il passare degli anni e tutte le tecniche utilizzate vennero tramandate di generazione in generazione, favorendo una differenziazione geografica che ci permette oggi di trattare oltre 500 vigneti in tutta Italia.

Brindare all’amicizia, all’amore, all’onore di un defunto o ad un progetto rivolgendosi alla Dea Fortuna, è una tradizione che abbiamo ereditato dai nostri antenati e non abbiamo intenzione di abbandonare.

Il limoncello tra segreti e curiosità

Re dei fine pasto e delle fragranze mediterranee, il limoncello è un liquore dolce che nasce in Campania, in particolare nella costiera amalfitana. È realizzato con le scorze di limone che vengono lasciante macerare nell’alcol puro con l’aggiunta di uno sciroppo a base di acqua e zucchero.
Una volta preparato, resta in bottiglia per almeno un mese prima di essere gustato.
Il limoncello è un ottimo digestivo: per questo viene in genere consumato dopo i pasti ma può essere utilizzato anche per bagnare o aromatizzare dolci, macedonie e gelati.
La sua preparazione è semplice ma occorre utilizzare limoni freschi e non trattati, poiché ricchi di oli essenziali che conferiscono al limoncello il profumo tipico e un gusto unico.

Il limoncello e la sua storia 

La storia del limoncello è tutt’oggi contesa tra gli abitanti di Amalfi, Sorrento e Capri. 
In realtà, il marchio “Limoncello” è stato registrato per la prima volta a Capri nel 1988 dall’imprenditore Massimo Canale: un’intuizione ispirata dalla ricetta della nonna. Liquore che nasce quindi come preparazione casalinga e che poi, dopo il boom degli anni ottanta, divenne così popolare tanto da richiedere una produzione a livello industriale. 



Il segreto del limoncello

Il segreto del limoncello? Oltre ai limoni di Sorrento, il frigorifero. È questione di gradi e il liquore di limone diventa limoncello: a bassa temperatura la note dolci vengono avvolte dal freddo che esalta l’aroma degli agrumi e ne costituisce la tipicità sensoriale.

La ricetta

Ecco come prepararlo in casa. I limoni, meglio quelli prima fioritura e raccolti preferibilmente all’alba quando i profumi sono più concentrati, vanno lavati ricavandone bucce sottilissime. Porre attenzione a eliminare il “pane” che conferisce al liquore un fastidioso sentore di amaro in bocca. Le bucce devono rimanere in infusione nell’alcool puro per un periodo che va dalle 48 alle 72 ore. Quindi, si aggiunge uno sciroppo di acqua e zucchero e si filtra. La gradazione alcolica del limoncello dipende delle proporzioni di acqua e zucchero, in genere tra i 30 e i 50 gradi.

Curiosità sul limoncello

Nel 2000 l’Istat inserisce il limoncello nel paniere usato per calcolare l’incremento mensile dell’inflazione.

Il limoncello è un liquore conosciuto e apprezzato non solo in Italia, ma in tutto il resto del mondo. Negli Stai Uniti, per esempio, lo si produce utilizzando i limoni della California.

“Il miglior limoncello al mondo” secondo l’International Wine & Spirit Competition non è, a sorpresa, di Sorrento o Capri, bensì olandese. Si tratta del “Drunken Monkey” ed è realizzato dal cuoco Titus Meijer e dalla compagna Melissa Oosten, due olandesi con la passione per la costiera amalfitana.

Il limoncello in America

Molto della notorietà del limoncello nel mondo la si deve a due attori: George Clooney e Danny De Vito. Perché? Siamo nel 2006 e De Vito è ospite a The View, uno dei programmi più seguiti degli Stati Uniti. L’attore italo-americano si presenta visibilmente ubriaco e si giustifica dicendo che gli “avranno fatto male gli ultimi sette limoncelli” bevuti a casa di Clooney il giorno prima.

Dopo questa dichiarazione le vendite del liquore italiano schizzano alle stelle e De Vito, un po’ per business, un po’ perché è un grande appassionato, comincia a produrre il suo di limoncello, diventando il primo grande artista a trasformarsi in un produttore di alcolici. 
Lo seguirà a ruota proprio Clooney e poi con gli anni tanti altri come Ryan Reynolds, Jay-Z, Drake, Dan Akroyd, Francis Ford Coppola.

Il limoncello di De Vito, Danny Devito’s Premium Original Limoncello Liqueur, è praticamente introvabile online, perché la produzione sarebbe dovuta riprendere a febbraio ma, causa pandemia, l’attore ha stoppato tutto.

L’importanza della vendemmia

Per definizione, la vendemmia è il periodo in cui l’uva viene raccolta dai vigneti per essere trasportata verso le cantine.

Se in passato questa attività coinvolgeva quasi esclusivamente le famiglie proprietarie dei terreni, oggi, con l’aumento degli spazi e la riduzione dei tempi, richiede moltissima manodopera. Si tratta di un lavoro assai faticoso e ripetitivo, eppure molte persone ogni anno scelgono di partecipare: il merito è del clima di festa e solidarietà che accompagna le lunghe giornate di raccolta, rendendole divertenti.

La scelta del periodo

Il periodo della raccolta va dalla fine di agosto agli inizi di ottobre, a seconda delle caratteristiche climatiche del luogo.
È preferibile raccogliere soltanto l’uva che ha raggiunto una maturazione ideale per il vino che si andrà a produrre: uve più mature daranno vini più forti grazie al maggior apporto zuccherino, mentre acini più acerbi presenteranno una maggiore acidità, desiderabile per vini più freschi e leggeri: alcuni produttori praticano quindi la vendemmia scalare, raccogliendo in momenti successivi i grappoli di uno stesso vigneto, o la vendemmia selettiva, che differenzia la raccolta in base alla varietà della vite.

La raccolta

I grappoli vengono recisi e depositate con cura nelle cassette, rispettando un limite di peso che prevenga lo schiacciamento di quelli sul fondo. È fondamentale controllare l’aspetto della buccia e la consistenza della polpa, che influenzeranno il profilo sensoriale del vino ed evitare di riporre uva bagnata nei contenitori, in quanto è più soggetta alla contaminazione da muffa.

Negli ultimi decenni è stata introdotta anche la raccolta meccanica, che avviene grazie a macchinari che scuotono le vigne e ne raccolgono i frutti. Questo riduce drasticamente le tempistiche e i costi dell’operazione, ma presenta alcuni difetti: innanzitutto l’impossibilità di selezionare i singoli grappoli, in secondo luogo la maggiore probabilità di rompere gli acini, provocando una fuoriuscita di mosto che accelera l’ossidazione del prodotto.

Questi sono i motivi per cui in Italia la vendemmia manuale è generalmente preferita, se non obbligatoria per alcune etichette d’eccellenza.

In Italia si producono circa 50 milioni di ettolitri di vino l’anno e la vendemmia interessa tutte le regioni ogni autunno. Alla fatica seguono i festeggiamenti, che celebrano la fine dei lavori, ma anche la consapevolezza di aver contribuito ad una vera eccellenza italiana.

Perché senza una buona vendemmia non si può ottenere un buon vino.

Cosa significa vino biologico

Cosa significa biologico

È possibile definire ufficialmente un vino biologico solo da otto anni, ma il mercato mondiale di questo prodotto ha già registrato una crescita impressionante.

Il Regolamento europeo 203/2012 ha infatti messo nero su bianco le caratteristiche che un vino deve avere per potersi definire biologico.I produttori, per ottenere la certificazione, devono astenersi dall’utilizzo di sostanze di sintesi, sia in fase di coltivazione che in fase di vinificazione. La quantità massima di solfiti accettata per i vini biologici è di 100 mg/l per i rossi e 150 mg/l per bianchi e rosé. Per ottenere la certificazione e poter apporre il marchio dell’agricoltura biologica in etichetta è necessario sottoporsi a severi controlli che interessano l’intera filiera.

Un po’ di numeri

L’Europa, con 293000 ettari destinati alla produzione di vino biologicocopre attualmente l’88% delle superfici “biologiche” di tutto il mondo.

I certificati sono stati immessi solamente nel 2012, ma diversi produttori utilizzavano già da tempo le tecniche di coltivazione e vinificazione “green”. Un’indagine IWSR (il principale istituto di analisi del mercato degli alcolici e dei vini), infatti, ha riscontrato una crescita del 234% di vigneti coltivati biologicamente tra il 2007 e il 2017.

Nella nostra penisola il 12% della superficie totale è coltivata a biologico garantendo una produzione complessiva di 500 milioni di litri di vino. Le stime dello scorso anno mostrano un raddoppiamento delle superfici “al naturale” rispetto al 2014 in primis grazie a Sicilia, Puglia e Toscana che guidano il podio delle Regioni con maggiore superficie biologica a vigneto, occupando quasi i due terzi del totale nazionale.

A livello economico, dalla mappatura del mercato proposto da Vinitaly Bio nel 2015, questo settore registrava un valore di 205 milioni di euro, di cui 68 derivanti dal mercato interno e 137 dall’export. Numeri che danno un’idea dell’apprezzamento del vino bio italiano fuori confine: non a caso lo scorso anno, dall’otto al dieci giugno, la città di Asti ha ospitato il primo Salone Internazionale del Vino Biologico.

In quell’occasione Vincenzo Gerbi, professore del dipartimento di Scienze Agrarie e Alimentari dell’Università di Torino, ha fatto notare: “Il principio di sostenibilità deve giustamente ispirare tutti i produttori, ma la conoscenza e le tecnologie devono essere rispettate e affinate continuamente, senza cedere a suggestioni emozionali”. Il termine sostenibilità viene spesso utilizzato per riferirsi esclusivamente all’ambiente, in realtà comprende diversi fattori, compreso quello economico.

Sostenibilità

A tal proposito riportiamo le parole del professor Attilio Scienza in un’intervista rilasciata al “Sole24ore”: “La chiave della sostenibilità è l’efficienza. Attenzione però alle semplificazioni eccessive, non basta semplicemente ridurre diserbanti e concimi. O meglio, ridurli contribuisce di certo a migliorare l’ambiente ma può avere un effetto devastante sui conti dell’azienda viticola. Perché si può anche innalzare il prezzo della singola bottiglia ma se si produce molto meno come volumi complessivi, i vantaggi rischiano di rivelarsi modesti. La sostenibilità quindi passa dall’innovazione e da alcuni contributi…”

I contributi di cui parla il professore sono già esistenti e molto interessanti. L’ibridazione delle viti (mediante normale impollinazione) permette di renderle più resistenti a certe condizioni climatiche o malattie; un altro strumento che può semplificare e perciò accrescere la produzione dei vini biologici si chiama “Sentinel 2B”: un satellite lanciato da un’azienda italiana, capace di rilevare le condizioni meteo in maniera efficace con una precisione di circa 10 metri quadrati. In questo modo i produttori riescono a organizzare il lavoro senza inconvenienti, minimizzando i trattamenti e migliorando ulteriormente la qualità dell’uva.

Quali rischi

Una domanda risulta spontanea: perché, se preserva l’ambiente e non prevede costi eccessivi, il vino biologico non sostituisce definitivamente i vini ottenuti da metodi tradizionali?

La risposta deriva dalla funzione che ricoprono gli agenti chimici utilizzati nelle varie fasi di produzione. Intanto bisogna dire che i solfiti, per la maggior parte, sono degli allergeni e un loro accumulo può risultare dannoso per la salute. Una piccola quantità di questi composti è presente naturalmente nel vino, anche in quello biologico, come prodotto della fermentazione. Uno di questi è l’anidride solforosa (SO2): svolge una funzione antiossidante, conservante e antisettica, bloccando la crescita di batteri e altri microrganismi indesiderati che potrebbero modificare la fermentazione e generare sapori e odori sgradevoli.

Quando i solfiti naturalmente contenuti nel vino sono pochi, i produttori decidono di aggiungerne, per preservare le qualità del prodotto. Il fatto di non utilizzare (o limitare fortemente) l’uso di additivi, può perciò comportare rischi altissimi a livello qualitativo. Inoltre una stessa azienda vinicola può proporre ogni anno un prodotto di qualità differente (poiché ci si affida alla natura senza tocchi artificiali), rischiando di rendere il consumatore indeciso.

Fortunatamente, al Vinitaly 2019, i presidenti di Federbio e Coldiretti hanno sottoscritto un patto “salva-bio” per garantire la qualità di tutti i prodotti biologici del nostro Paese. L’iniziativa prevede la totale trasparenza delle informazioni lungo tutta la filiera, anche nel caso di prodotti importati.

Dal fuoco all’insalata

Acqua, terra e fuoco

Le attività umane derivano dall’osservazione della natura e la replicazione dei fenomeni vantaggiosi.

I raccoglitori impararono a riconoscere le condizioni in cui crescevano le piante utili per l’alimentazione e cercavano di riprodurle: ad esempio, vedere che la vegetazione era rigogliosa vicino ai corsi d’acqua e scarsa nelle zone siccitose insegnò l’importanza dell’irrigazione.

Lo stesso accadde con gli incendi spontanei. Quando un’area boschiva andava in fiamme, dalle ceneri fertili cresceva una vegetazione tenera e in parte commestibile, cioè quella che noi chiameremmo insalata. Dall’attendere che un fulmine colpisse un albero, una volta padroneggiato il fuoco, si passò all’appiccare incendi per ottenere nuovi germogli freschi.

Questo metodo, chiamato ignicoltura, era adatto solo a territori dove queste piante potevano crescere spontanee e dove la densità di popolazione sia minima, condizione che nel Neolitico non era più presente.

L’evoluzione fu quindi l’incendio seguito dalla lavorazione grossolana del terreno e la successiva semina: una pratica chiamata slash and burn. Nelle Alpi occidentali questa tecnica è stata praticata fino al Novecento, ma era applicata largamente in molte aree dell’Europa centrale e settentrionale.

Il nome della Svezia deriva dal termine nordico Schwenden, che significava “radura erbosa ottenuta disboscando con il fuoco”. Dato il clima umido, prima di incendiare la vegetazione era necessario far seccare gli alberi praticando delle incisioni circolari nella corteccia, bloccando così la circolazione della linfa.
Il nome della Svizzera deriva dal termine Svith, con cui si indicavano le radure erbose in gotico.

Piccola nota sullo slash and burn

Purtroppo lo slash and burn si riscontra ancora in zone protette e sta provocando un progressivo disboscamento di ecosistemi come la Foresta Amazzonica. Non è più allo scopo di produrre insalata, ma monocolture destinate all’alimentazione umana o all’allevamento.

L’insalata nell’antichità

Nell’antica Grecia si consumavano spesso verdure sia cotte che crude, ma dopo l’arrivo dei Romani prevalse il consumo di carne su quello di verdura. Al contrario, erano stati i Romani ad insegnare agli Etruschi l’utilizzo dei prodotti da orto.

Nei banchetti le insalate venivano generalmente consumate alla fine; gli antichi Romani apprezzavano soprattutto la lattuga, cui attribuivano proprietà terapeutiche. Anche le legioni la coltivavanonel castrum, l’accampamento fortificato.

L’orto divenne fondamentale con le invasioni barbariche, quando saccheggi e devastazioni limitarono le risorse al di fuori dei cortili di casa: era quindi presente presso quasi tutte le abitazioni medievali, come fonte di cibo fresco, che non esigeva conservazione. Per chi abitava in città era più difficile avere a disposizione verdura fresca: la vendita era molto limitata ed era necessario raccogliere erbe selvatiche nei campi, fuori dalle mura.

Presso i conventi era molto importante la cura del giardino botanico, coltivato a insalate ed erbe medicinali.

Nel Rinascimento aumentò il numero di cuochi che consigliavano l’utilizzo di insalate a tavola. Bartolomeo Sacchi, cuoco al servizio di tre papi, scrisse “De honesta voluptate e valetudine”, un trattato di gastronomia dove dedica ampio spazio ai modi per condirle e alle proprietà delle singole varietà.

Questo interesse per le insalate, che nelle tavole dei ricchi servivano ad accompagnare la selvaggina e in quelle dei meno abbienti erano incluse in frittate, focacce e torte salate, continuò fino ai giorni nostri, dove possiamo apprezzarne moltissime varietà quasi tutto l’anno: la lattuga, apprezzta per la sua versatilità e leggerezza, è l’ortaggio più consumato in tutto in mondo dopo patate e pomodori.

L’anguria senza semi

I semi di anguria sono molto ricchi di proteine e minerali: in altri paesi, come la Cina, vengono tostati e consumati come tanti altri semi. In Italia, invece, sono ancora visti con fastidio, specialmente quando si frappongono tra i nostri denti e la succosa polpa di un’anguria fresca.

Non è quindi strano che, dalla loro comparsa negli anni Novanta, le angurie senza semi abbiano riscosso un grande successo. Con una dolcezza comparabile alle varietà classiche, ma senza semini da scartare con la punta del coltello o sputare con assai poca classe, sono sempre più presenti sul mercato.

Ma sono naturali? E se sono senza semi, come si riproducono?

L’anguria è una pianta diploide: come noi, quindi, presenta un corredo genetico a coppie di cromosomi, provenienti uno dal polline della pianta maschio e uno dal pistillo della femmina.

Per ottenere un’anguria senza semi è necessario che l’unione di due piante dia un’anguria triploide, con 33 cromosomi invece che 22. La pianta con i cromosomi a gruppi di 3 sarà sterile; possiamo dire che è il mulo del regno vegetale.

Ecco quindi cosa succede:

1. L’embrione di una pianta femminile viene trattato con colchicinaraddoppiando il numero di cromosomi e portandoli a 44.

2. La pianta cresce ed emette i fiori, che vengono fecondati con polline di una normale pianta diploide, da 22 cromosomi.

3. La pianta femmina genera i frutti, che conterranno semi triploidi, con 33 cromosomi.

4. I semi diventeranno piante in grado di essere fecondate, ma non di riprodursi. I loro frutti saranno quindi senza semi.

Quindi è OGM?

Dal momento che la pianta sterile è frutto di impollinazione, si classifica come ibrido e non come OGM.

Le angurie triploidi spesso presentano dei semini piccoli e bianchi, quasi irrilevanti al tatto e al gusto: si tratta semplicemente di involucri vuoti, incapaci di germogliare.

Grazie alla selezione, oggi esistono molte varietà di questi frutti, diverse per dimensioni, consistenza della polpa e livello di dolcezza. Niente paura, sono perfettamente sicuri!

Ricette a 1€: il Menu Saporito

Antipasto: Chips di polenta con pomodorini secchi, capperi e acciughe

La rivisitazione in stile aperitivo di un ingrediente tradizionale: la polenta!

Ingredienti:

  • 100 g di farina di mais bramata Pam Panorama
  • 400 ml d’acqua (circa)
  • 40 g Pomodorini secchi con capperi Pam Panorama
  • 40 g di alici sott’olio
  • olio di semi q.b.
  • un pizzico di sale

Procedimento:

  1. Versate l’acqua in un pentolino con un cucchiaio d’olio di oliva.
  2. Prima del bollore versate la polenta a filo e mescolate con una frusta.
  3. Una volta rappresa abbassate la fiamma e continuate a mescolare con un cucchiaio di legno fino a raggiungere una consistenza densa.
  4. In una teglia rettangolare disponete un foglio di carta da forno leggermente unto e versate la polenta calda.
  5. Con una spatola livellate la polenta fino ad ottenere uno spessore di 1 cm.
  6. Coprite con un altro foglio di carta da forno e spianate leggermente con un mattarello. Lasciate riposare per 2 ore in frigorifero, fino a quando risulterà compatta.
  7. Una volta raffreddata tagliate la polenta in rettangoli di circa 2 centimetri per 8.
  8. In una pentola fonda portate l’olio a 180°C e immergete poche chips per volta per circa 8 minuti.
  9. Scolatele e disponetele su della carta assorbente per rimuovere l’olio in eccesso.
  10. Arricchite con i pomodorini tagliati a listarelle, i capperi e i filetti d’alici.

Primo: Farfalle alla crema di bietole piccante e pecorino

Un primo piatto dalle note decise e intense.

Ingredienti:

  • 160g Farfalle I Tesori Pam Panorama
  • 150g di bietole fresche
  • 60g di pecorino Pam Qualità Per Te
  • 1/4 di spicchio d’aglio senza anima
  • Peperoncino q.b.
  • sale q.b.
  • Olio extravergine q.b.

Procedimento:

  1. Lavate, pulite e asciugate con carta le foglie più tenere della bietola.
  2. Pulite l’aglio.
  3. Per la crema potete usare un frullatore o pestare le foglie in un mortaretto per una consistenza più rustica.
  4. In un contenitore aggiungete le foglie, lo spicchio d’aglio, il pecorino e il peperoncino secondo il grado di piccantezza da voi desiderato.
  5. Tenete da parte una spolverata di pecorino.
  6. Frullate versando a filo l’olio d’oliva fino ad ottenere un composto cremoso e ben amalgamato.
  7. cuocete la pasta al dente e tenete un mestolo di acqua di cottura per la mantecatura.
  8. In una padella fuori dal fuoco versate le farfalle aggiungendo la crema di bieta e un mestolo di acqua di cottura se necessario.
  9. Servite con una spolverata di pecorino.

Secondo: Sovracosce di Pollo agli agrumi

Un piatto ricco di profumi estivi.

Ingredienti:

  • 300g di sovracosce di pollo Semplici e Buoni
  • il succo di un’arancia
  • il succo di 1/2 limone I Tesori Pam Panorama
  • 1 spicchio d’aglio Bio Pam Panorama
  • 1 rametto di rosmarino
  • Sale q.b.
  • Olio extravergine q.b.

Procedimento:

  1. In una padella piana fate soffriggere l’aglio in camicia con un filo d’olio e il rosmarino.
  2. Aggiungete le sovracosce (con o senza ossa e pelle, a seconda delle preferenze), salando a piacere.
  3. Raggiunta la rosolatura rimuovete l’aglioe aggiungete il succo di limone e d’arancia.
  4. Coprite con un coperchio e continuate con la cottura per circa 40 minuti. Se il pollo dovesse asciugarsi troppo, aggiungete qualche cucchiaio di acqua o brodo.

Dolce: Pannacotta al profumo di limone con Coulis di Fragole

Un dolce corposo e fruttato.

Ingredienti:

  • 250 g di Panna Pam Panorama
  • 4 fogli di gelatina
  • 40g di zucchero Pam Qualità Per Te
  • la scorza di un limone I Tesori
  • 250g di fragole
  • succo di mezzo limone

Procedimento:

  1. Come prima cosa mettete in ammollo i fogli di gelatina in acqua fredda per 10-15 min.
  2. Grattugiate la buccia di un limone.
  3. In un pentolino versate la panna aggiungendo la scorza di limone e 40g di zucchero.
  4. Appena arriva a bollore spegnete il fuoco e aggiungete i fogli di gelatina non eccessivamente strizzati.
  5. Mescolate la panna con una frusta fino a completo scioglimento dei fogli di gelatina.
  6. Versate la pannacotta negli stampini e lasciatela riposare in frigo per almeno 5 ore.
  7. Tagliate le fragole e scaldatele in un pentolino fino a quando non avranno cominciato a sudare.
  8. Aggiungete il succo di limone e 50g di zucchero mescolando a fuoco basso.
  9. Quando avrete ottenuto una purea omogenea filtratela con un colino e lasciate raffreddare in frigo.
  10. Sformate le panne cotte e versate il coulis di fragole sul dolce.

Menu Sportivo

Antipasto: Bicchierini tricolore

Colorati e buonissimi: l’occasione perfetta di cucinare insieme ai più piccoli!

Ingredienti (per 2 biccherini):

  • 200 g di Ricotta Pam Panorama
  • 150 g di Pomodorini ciliegino
  • 30 g di parmigiano reggiano Pam Qualità Per Te
  • 15 g di Basilico
  • un pizzico di sale
  • un pizzico di zucchero
  • Pepe q.b.

Procedimento:

  1. Rimuovete la pelle dei pomodorini. Per facilitare l’operazione incidete i pomodorini con un coltellino creando un taglio a X. Passateli 20 secondi in acqua bollente e poi immergeteli immediatamente in acqua e ghiaccio.
  2. In una padella piana fate cuocere i pomodorini privi di buccia con olio, sale e un pizzico di zucchero per una decina di minuti.
  3. In un contenitore frullate con il minipimer i pomodorini fino ad ottenere una purea omogenea.
  4. Versate la purea nei bicchierini per un terzo della loro capienza totale e lasciate raffreddare finché procedete con le altre preparazioni.
  5. In un contenitore versate metà della ricotta con un cucchiaio d’olio d’oliva e il grana grattugiato.
  6. Amalgamate con un cucchiaio e aggiustate di sale e pepe.
  7. In un contenitore versate la restante metà della ricotta con il basilico aggiustate di sale e frullate fino ad ottenere un composto cremoso.
  8. Completate la realizzazione dei vostri bicchierini disponendo prima uno strato di ricotta al grana padano e successivamente la crema di ricotta al basilico.
  9. Decorate con una fogliolina di basilico.

Primo: Conchiglie integrali al tonno

Un gusto familiare che non stanca mai.

Ingredienti:

  • 160 g di Conchiglie rigate Integrali Bio Pam Panorama
  • 200 g di passata di pomodoro Pam Panorama
  • 120 g di Tonno Pam Panorama
  • Olio d’oliva q.b.
  • Sale q.b.
  • Peperoncino q.b.
  • Prezzemolo q.b.

Procedimento:

  1. Portate a ebollizione l’acqua, salate e cuocete la pasta tenendo da parte un mestolo di cottura.
  2. Tagliate a tocchetti un peperoncino.
  3. Scolate il tonno dall’olio in eccesso.
  4. Tritate finemente il prezzemolo.
  5. In una padella piana fate scaldare l’olio con il peperoncino.
  6. Aggiungete il tonno con un mestolo di acqua di cottura e cuocete per un paio di minuti.
  7. Aggiungete la passata di pomodoro, salate a piacere e cuocete per una decina di minuti.
  8. Scolate la pasta al dente e terminate la cottura in padella col sugo al tonno.
  9. Decorate con una foglia di prezzemolo.
Secondo: Torretta di frittata con rucola pomodorini e caprino

Un piatto leggero dal gusto intenso.

Ingredienti:

  • 80 g di Pomodorini
  • 20 g di Rucola Pam Panorama Bio
  • 20 g di Formaggio fresco
  • 4 uova
  • Sale q.b.

Procedimento:

  1. Rompete le uova e sbattetele in una ciotola con un pizzico di sale
  2. Suddividete l’uovo sbattuto in due porzioni
  3. Versate un terzo del composto in una padella piccola
  4. Cuocete un lato e girate
  5. Ripetete le operazioni per gli altri strati
  6. Quando avrete cotto tutti gli strati passate alla fase di farcitura
  7. Tagliate i pomodorini a rondelle
  8. Disponete la prima frittata come base e spalmate il formaggio fresco
  9. Disponete uno strato di pomodorini e uno di rucola
  10. Ponete un altro strato di frittata e ripetete l’operazione
  11. Chiudete la vostra torretta col terzo strato di frittata e decorate con qualche fetta di pomodorino

Dolce: Smoothie all’ananas e menta

Un dolce fresco ed esotico!

Ingredienti:

  • 150 g di ananas al naturale Pam Qualità Per te
  • 125 g di yogurt magro Semplici e Buoni 0,1%
  • 3 foglie di menta
  • Ghiaccio q.b.

Procedimento:

  1. Come prima cosa congelate l’ananas in freezer.
  2. In un mixer da cucina versate lo yogurt, l’ananas congelato, le foglie di menta e 4-5 cubetti di ghiaccio.
  3. Tritate gli ingredienti fino ad ottenere un composto dalla consistenza vellutata.
  4. Versate in un bicchiere.
  5. Decorate con una foglia di menta e uno spicchio d’ananas.