La birra nella storia

Com’è nata e come si è diffusa la birra? È una storia avventurosa e affascinante, ricca di dettagli inaspettati e leggende. Ciò che storicamente sappiamo per certo è che la prova scientifica più antica della produzione di questa bevanda risale a ben 5000 anni fa, in Asia, per mano dei Sumeri. Risale a circa cinquecento anni dopo una tavoletta assira, rinvenuta nel territorio tra i fiumi Tigri ed Eufrate, in cui si fa chiaro riferimento non solo alla birra ma anche al mestiere del mastro birraio.

L’archeologia, dunque, ci dice che la birra è ben più antica anche del vino e diventa una bevanda amata e ampiamente commercializzata grazie ai Sumeri, ma anche ai Babilonesi e agli Egizi, primi esportatori di questo nettare in Grecia.

Anche l’Italia partecipa a scrivere la storia della “bionda” per eccellenza, grazie a Fenici ed Etruschi, e diventa la bevanda del popolo in tutto il centro della penisola. È il I secolo d.C. e la birra, a differenza del vino, poteva essere bevuta da tutti, e le birrerie erano aperte a tutte le classi sociali.

Dobbiamo però la nascita dei primi veri e propri birrifici ai Paesi Bassi, alla Germania e alla Gran Bretagna. Ed è qui che le leggende sulla birra si fanno più fantasiose e radicate. Tra i cosiddetti popoli barbarici più affezionati alla bevanda troviamo i Germani e i Celti, e nella verde Irlanda si parla di Fomoriani: mostruose creature dal becco aguzzo e gambe umane, immortali e potenti, uniche a conoscere il segreto della fabbricazione della birra.

La verità storica è molto meno spaventosa, ma non meno divertente. In questi territori i primi mastri birrai sono monaci tedeschi, che nel Medioevo hanno avviato floride attività di produzione e hanno introdotto per primi l’ingredienti che rende a tutt’oggi la birra irresistibile: il luppolo! Prima di loro, tutti hanno aromatizzato le birre con abbondanza di spezie, bacche, erbe, bucce di frutta e corteccia d’albero.

La più antica “birreria” monastica è quella della abbazia di Weihehstephan, nei pressi di Monaco di Baviera, costruita nel 724. Qui “l’infuso di luppolo” veniva somministrato come miracoloso ricostituente per gli ammalati e per i pellegrini.

L’Inghilterra coglie la ricetta a base di luppolo molto più tardi ed è qui che nasce la distinzione tra la birra nazionale, senza luppolo, chiamata “ale” e i prodotti continentali d’importazione, luppolati, detti “beer”.

La grande avventura della diffusione della birra continua nei secoli, mai priva di peripezie tra editti, leggi, attestati di purezza, la rivoluzione industriale e il proibizionismo.

Non ha un sapore tutto diverso, la tua birra preferita, ora che ne conosci un po’ di più la storia?

AAA Conchiglia cercasi

Il paguro è un crostaceo più unico che raro. La sua peculiarità sta nell’utilizzare conchiglie vuote e gusci abbandonati da altri animali per proteggere il suo corpo prevalentemente molle. In ogni fase della sua crescita, il paguro sente il bisogno di “traslocare”, ricercando una conchiglia più capiente per difendersi dai pericoli esterni. Le conchiglie scelte dai paguri (solitamente abbandonate da gasteropodi o molluschi) devono permettere loro di nascondersi interamente all’interno per passare inosservati all’occhio dei predatori.

Un’amicizia speciale

In alcuni casi, la conchiglia del paguro può essere “abbellita” per migliorare la sua funzione di difesa. Come? Con delle attinie, piccoli anemoni marini dal forte potere urticante, che il paguro posiziona sopra il guscio e porta con sé al momento di cambiarla. Le due creature entrano in una vera e propria simbiosi: mentre il paguro nutre l’attinia con gli scarti del proprio cibo, questa lo aiuterà a mimetizzarsi proteggendolo dai nemici.

Senza casa

Cosa succede quando i paguri non trovano casa? Lo scorso anno in Thailandia si è verificato un fenomeno che ha messo in allarme i gestori del parco nazionale di Mu Koh Lanta, nella provincia del Krabi. In assenza dei turisti, i paguri hanno avuto modo di moltiplicarsi oltre misura ma senza avere una dimora dove ripararsi. Le conchiglie a disposizione non sono infatti sufficienti per tutti i paguri nati e cresciuti in quest’arco di tempo, e gli animali sono costretti a utilizzare ripari di fortuna come tappi e bottiglie vuote.

Privi di una corazza, i paguri sono esposti a ogni tipo di pericolo ed è nell’interesse del personale del parco reperire un guscio per ogni esemplare. L’appello fatto è stato forte e sincero: “donateci le vostre conchiglie”. Collezionisti o appassionati di souvenir marini sono stati invitati a spedire al parco le loro conchiglie che fungeranno da casa per i paguri thailandesi.

Giochi di una volta

Come riempivamo i pomeriggi senza computer, tablet o smartphone? Uno dei passatempi preferiti – insieme alla lettura e al disegno – era senz’altro il gioco, quello da fare con una palla, un mazzo di carte oppure la sola voce. Di giochi ne esistevano diversi, molti dei quali sono forse stati dimenticati. Ma oggi siamo qui per ricordare alcuni dei più celebri giochi di una volta!

Un, due, tre…Stella!

Quando si trattava di scegliere un gioco, quelli più movimentati erano al primo posto. E se potevano esser svolti all’aperto (in un cortile per esempio), tanto meglio! Corse, salti e scatti per scappare dal “lupo mangia frutta” o per raggiungere il giocatore designato nel famoso “un, due, tre stella”. Lo scopo del gioco è cercare di raggiungere il giocatore che conta velocemente e senza farsi notare in movimento. Quando il giocatore designato è girato, gli altri giocatori loro devono correre verso di lui; ma nel momento in cui questo si gira, deve vedere gli altri giocatori immobili. Se qualcuno viene visto muoversi viene immediatamente squalificato.

Campana

È il gioco con più nomi in assoluto, nonché il più antico. Le prime tracce si ritrovano nell’Antica Roma, dove veniva praticato dal clàudus, cioè lo zoppo. Proviene forse da qui la regola di saltellare su un piede per passare da una casella a un’altra. Solitamente per giocare a Campana occorre un modesto spazio aperto. Se l’area è in terra battuta, con un semplice sasso potranno essere disegnate le caselle, altrimenti si potrà usare un gesso. Una volta posto un numero da 1 a 10 entro ogni casella, il giocatore lancia un sassolino. Questo deve atterrare all’interno della casella numero 1, senza toccare alcuna linea. A questo punto, il giocatore saltella su un piede evitando la casella dove si trova il sassolino. Nel caso ci siano due caselle adiacenti, il giocatore può poggiare entrambi i piedi. Egli deve completare il percorso, voltarsi e ripercorrerlo a ritroso, ricordandosi di recuperare il sassolino. Ora può lanciare il sassolino nella casella numero 2 e ricominciare. Il gioco viene condotto dallo stesso giocatore finché non sbaglia, toccando una linea o saltando sulla casella dov’è il sassolino.

Quello della Campana è un gioco che diverte da sempre i bambini di tutto il mondo. Nei paesi anglo-sassoni è conosciuto come Hopscotch, in Francia Marelles, in Germania Tempelhupfen, in India Ekaria Dukaria. Viene praticato persino in Birmania, dove la variante prevede di saltare con le mani appoggiate sui fianchi.

L’elastico

Un gioco tipicamente da bambine ma…siamo sicuri fossero le più abili a destreggiarsi con l’elastico? Spesso maschi e femmine si sfidavano a suon di salti e mini acrobazie solo grazie a un elastico abbastanza lungo. Per giocare occorrevano 3 giocatori, due dei quali dovevano indossare l’elastico all’altezza delle caviglie per permettere al terzo di saltarci in mezzo. All’inizio veniva stabilita una sequenza di salti che ogni giocatore a turno doveva eseguire. Se il giocatore completava la sequenza, i due che reggevano l’elastico lo portavano all’altezza delle ginocchia, aumentando la difficoltà di gioco. Lo stesso giocatore procedeva nella sequenza finché non sbaglia. A quel punto, lasciava spazio a un altro giocatore.

Tutti al mercato!

Adatto ai più piccini, una volta si era soliti racimolare piccoli oggetti come ghiande, pigne, foglie e frutti per rivenderli agli amici “clienti”. L’importante era allestire una rudimentale bancarella dove esporre “la merce” raccolta, e proporla al cliente di turno. Cosa si guadagnava? Il tutto era spesso basato sul baratto. L’avventore di turno scambiava qualcosa di suo con l’articolo scelto, e ciò che il piccolo ambulante guadagnava poteva essere tranquillamente rivenduto a nuovi clienti. Il gioco del mercato poteva essere organizzato anche in casa, esponendo sulla propria bancarella (un normale tavolino) giocattoli e cianfrusaglie con cui fare poi altri giochi.

Quello che sai sull’abbronzatura è falso

Non hai voglia di spalmarti la crema, quindi hai scelto di stare sotto l’ombrellone a fare i cruciverba, con una maglietta addosso. Torni a casa e noti con disappunto che la tua pelle è comunque fastidiosamente arrossata. 

Le ragioni sono due: 

– Il sole bacia i belli e tu sei di una bellezza conturbante

– Le tue convinzioni sulla protezione dai raggi UV sono sbagliate

Vediamo cosa c’è di vero in alcuni miti da spiaggia. 

La maglietta protegge dal sole

Esistono magliette realizzate in tessuto anti-UV, che possono garantire una discreta protezione dai raggi ultravioletti. Una maglietta priva di questo tipo di certificazione protegge quanto una crema a spf 10. Se la maglietta è bagnata, però, la protezione scende a 2. 

Con la crema non ci si abbronza

Le creme solari filtrano parte dei raggi UVB, rallentando il processo di abbronzatura. Garantiscono però una tintarella più resistente al tempo, perché prevengono la desquamazione della pelle. Quando ci scottiamo, infatti, la pelle si disidrata e le cellule tendono a staccarsi prima, facendoci perdere tutto il colorito in pochi giorni dopo la vacanza. 

Sotto l’ombrellone non mi scotto

Come attraverso il tessuto della maglietta, i raggi solari filtrano anche attraverso quello degli ombrelloni. Se aggiungiamo anche il riflesso dalla sabbia e dall’acqua, possiamo dire che stare sotto l’ombrellone non esclude il rischio di scottarsi. 

Le creme a protezione alta durano più a lungo

In numero riportato sul flacone indica la frazione dei raggi solari che riesce a penetrare attraverso il filtro e raggiunge la pelle. Una protezione alta farà passare meno raggi, quindi per scottarci ci metteremmo più tempo. Questo non significa che l’effetto duri più a lungo: la crema va applicata regolarmente dopo ogni bagno e bisogna tenere conto anche del sudore. 

Conclusioni

Se proprio hai deciso di stare in spiaggia tutto il giorno, sicuramente è consigliabile stare sotto l’ombrellone nelle ore centrali della giornata. Questo però non ti esenta dall’applicare la crema solare, che va usata durante l’intera vacanza e per tutta la giornata.

Ricorda anche di sceglierne una certificata contro i raggi UVA e di spalmarla in abbondanza: un flacone da 200mL dovrebbe essere sufficiente per un massimo di 7 applicazioni, altrimenti il fattore di protezione effettivo si abbasserà radicalmente, esponendo la pelle a scottature, invecchiamento precoce e macchie solari.

Cultivar Coratina e olio extravergine

Dalla mitologia greca alla letteratura cristiana, l’ulivo si contraddistingue come simbolo di pace, abbondanza e armonia con il divino. La pianta ha avuto un ruolo fondamentale nella storia della zona mediterranea, plasmandone l’alimentazione, l’economia e la società.

L’olio veniva impiegato in cucina, in cosmesi e non solo: i legionari romani vi si ungevano per sopportare il freddo, mentre nel Rinascimento diventò fondamentale per l’illuminazione e soprattutto come materia prima per il sapone, di cui i mercanti Veneziani controllavano il commercio a livello europeo.

Furono proprio le pressioni di Venezia a trasformare la Puglia in un grande uliveto, convertendo le zone selvose in floride campagne e creando quel paesaggio di terra rossa e ulivi a noi così familiare.

Oggi nel Mediterraneo ci sono oltre 1000 tipi genetici di ulivo, 500 in Italia. In base alle dimensioni del frutto e al suo contenuto, queste si dividono in cultivar “da mensa” e “da olio”.

Cultivar Coratina

Tra queste, la varietà Coratina è una delle più apprezzata e diffuse nella zona di Bari, grazie alla sua ottima resa produttiva e l’elevata qualità dell’olio.

Un altro suo punto di forza è la resistenza a malattie e parassiti, che permette ai coltivatori di utilizzare una quantità minima di trattamenti per preservare la salute delle piante.

La raccolta dei frutti avviene tra novembre e gennaio e se ne ricava un olio con un tasso di acidità molto ridotto (0,2%), verde e dal profumo molto aromatico e fruttato. Il retrogusto amaro è dovuto all’oleuropeina, un polifenolo dalle proprietà antinfiammatorie e antiossidanti che rende l’olio extravergine di oliva così importante nella dieta mediterranea.

Queste le caratteristiche che si trovano nell’olio Extravergine di Oliva Terra di Bari DOP i Tesori: l’azienda agricola Conte Spagnoletti Zeuli coltiva da secoli la zona di Castel Del Monte, territorio di cui si prende cura preservandone la fertilità e le falde acquifere. L’azienda si contraddistingue per la conservazione delle tecniche tradizionali di produzione dell’olio, mentre per l’irrigazione e il consumo energetico ha scelto l’innovazione, utilizzando energie rinnovabili e minimizzando il consumo d’acqua.

Come nasce l’olio extravergine

Prima di essere utilizzate, le olive portate al frantoio vengono lavate con acqua fredda per eliminare le impurità senza impoverirle delle preziose proprietà organolettiche. Durante la frangitura poi tritate con macine di granito, fino ad ottenere una pasta granulosa: questa sarà formata da frammenti di nocciolo e polpa, contenente piccole goccioline d’olio emulsionate nella componente acquosa. Per separare l’olio dall’acqua, il composto viene rimescolato a lungo. La gramolatura è quindi la fase in cui le goccioline d’olio, venendo a contatto tra loro, si uniscono in gocce sempre più grandi.

La spremitura è invece il momento in cui le componenti si separano del tutto, ottenendo:

  • la sansa, cioè la pasta di olive
  • l’acqua di vegetazione, cioè la parte acquosa
  • l’olio vero e proprio, che viene stoccato in recipienti d’acciaio e conservato a temperatura costante fino all’imbottigliamento.

Cosa vuol dire Extravergine?

Per essere definito tale, l’olio deve essere ricavato dalla prima spremitura delle olive e solo con metodi meccanici, quindi senza uso di altre sostanze. Deve inoltre presentare un’acidità inferiore allo 0,8%.

Per ottenere la definizione “spremuto a freddo“, invece, non deve mai superare la temperatura di 27 gradi durante la spremitura: in questo modo riesce a conservare tutte le sue proprietà organolettiche e nutrizionali.

Scegliendo l’olio extravergine spremuto a freddo Terra di Bari DOP i Tesori hai la certezza di un prodotto di alta qualità, frutto di una tradizione che affonda le radici nella terra pugliese da generazioni. La filiera corta è garanzia di sicurezza e sostenibilità ambientale, ma anche di etica del lavoro e della produzione.

Aiutaci a sostenere l’economia delle aziende italiane con tante piccole scelte di valore.

Chimica in cucina

La crosta del pane, la superficie croccante di una succulenta bistecca o una golosa crème brulée. Ma anche il malto della birra, il caffè tostato e tutti gli alimenti cotti hanno sembianze e gusti caratteristici per via delle trasformazioni che gli ingredienti subiscono durante la cottura, ma cosa distingue una dall’altra? Scopriamo cosa differenzia due fra le più famose reazioni chimiche in cucina. 

Reazione di Maillard

Si tratta di un insieme di reazioni che coinvolgono zuccheri e proteine sottoposti a una temperatura normalmente compresa tra i 140 e i 165 gradi. In realtà la reazione di Maillard può avvenire anche a temperature più basse, ma il processo sarà molto più lento e complesso: se non è gestito correttamente la superficie dell’alimento rischia di indurirsi senza imbrunire e senza sviluppare i caratteristici aromi di frutta secca. Se invece la temperatura è troppo alta, si formeranno dei composti dal colore molto scuroamari e potenzialmente cancerogeni

Quando la cottura avviene correttamente, zuccheri riducenti (come il fruttosio) e amminoacidi reagiranno tra loro fino a formare le melanoidine, responsabili del colore giallo-bruno, e i composti volatili da cui dipendono gli aromi di “tostato” che caratterizzano una bistecca scottata alla griglia o il pane appena sfornato.

Un aspetto delicato è il pH dell’ambiente in cui avviene la reazione: i polisaccaridi come il saccarosio (lo zucchero da tavola), hanno bisogno di essere idrolizzati, ovvero scissi in zuccheri più semplici (ottenendo così lo “zucchero invertito”). Questo avviene se abbassiamo il pH e lo rendiamo più acido; ma l’acidità, d’altro canto, rallenta la reazione di Maillard e rischia di comprometterne il risultato finale. 

Insomma, è tutta questione di equilibrio: una marinata con olio e limone ci permetterà di avere una bella crosticina sulla carne, ma se eccediamo con il succo di limone nell’impasto di un dolce la crosta sarà meno fragrante. 

Vuoi delle cipolle ben dorate e dolci in poco tempo? Alza il pH aggiungendo una punta di bicarbonato al trito, direttamente nella padella del soffritto. Provare per credere! 

Caramellizzazione

A differenza della reazione di Maillard, la caramellizzazione coinvolge solo gli zuccheri: questi polimerizzano per effetto del calore, mentre parte dell’acqua in essi contenuta evapora. Tutti gli zuccheri caramellizzano, ma a temperature diverse. Il fruttosio inizia a modificarsi a 110 gradi, il saccarosio deve raggiungere i 160°. Via via che la temperatura sale, i composti che si formano si differenziano per consistenza e colore, trovando largo impiego soprattutto nella pasticceria. 

Possiamo ottenere il caramello chiaro, ambrato e semi-liquido, utilizzato per decorare dolci o per esaltare il gusto della selvaggina. C’è poi il caramello scuro, meno dolce ma ricco di aromi complessi. È più difficile da realizzare perché si corre il rischio di bruciarlo, ed è capace di cristallizzare velocemente. 

Infine il caramello salato, particolarmente utilizzato nel nord della Francia, usato per guarnire biscotti e dolcetti

Il gusto tipico del caramello tradizionale deriva da sostanze come il diacetile, gli esteri e i lattoni, che gli conferiscono il sapore del burro, del rum e della nocciola tostata.

Oltre a golose salse e composti cremosi, con la caramellizzazione è possibile dare un gusto sfizioso a frutta e ortaggi.

Creme solari: ti proteggono davvero?

I raggi del sole danno alla nostra pelle un gradevole colore dorato, ma hanno anche degli effetti collaterali da non trascurare. Le creme solari offrono un valido aiuto per proteggere la pelle, ma non sempre le usiamo correttamente. Scopriamo come funzionano e come evitare gli errori più comuni. 

Iniziamo dalle basi

UV sta per ultravioletti, raggi non visibili a occhio nudo, ma che raggiungono la nostra pelle ogni volta che la esponiamo al sole. 

I raggi UVA riescono a raggiungerne gli strati più profondi, creando radicali liberi e provocando invecchiamento precoce, rughe e macchie solari, ma anche, nei casi peggiori, tumori della pelle. 

I raggi UVB si fermano agli strati superficiali e sono i responsabili delle scottature, ma possono anche provocare melanomi. 

La capacità di una crema di fermare i raggi UVB è indicata dal fattore Spf: una protezione 6 lascia passare 1/6 di radiazioni, una protezione 30 ne lascia passare 1/30. 

Se sulla confezione è presente un bollino con scritto UVA, significa che il fattore di protezione da questo tipo di raggi sarà pari ad almeno 1/3 dell’Spf. 

Una protezione 30 farà quindi passare 1/30 dei raggi UVB e 1/10 dei raggi UVA.

*se il bollino UVA è presente. 

Vediamo che una protezione 50 scherma solo un 5% di UVB in più rispetto a una 15, mentre per gli UVA c’è una differenza maggiore, di circa il 14%. 

La quantità è fondamentale

I test per determinare l’Spf di un filtro sono eseguiti sull’applicazione di 2 mg di crema per centimetro di pelle. Questo significa che la nostra protezione 30 sarà davvero tale solo se usiamo circa 30g di crema: usandone metà, lo schermo effettivo sarà √30, quindi un misero 5. 

Il metodo più efficace per proteggersi a sufficienza è applicare la crema su tutto il corpo mezz’ora prima di esporsi al sole, quindi ripetere una volta arrivati in spiaggia e dopo ogni bagno. 

Olio di iperico

Scacciadiavoli” o, più comunemente, “erba di San Giovanni”, raccolto a fine giugno in occasione del giorno del santo. L’iperico (Hypericum perforatum) è una pianta erbacea originaria dell’Europa usata spesso per trattare ferite, scottature e persino disturbi legati alla sfera emotiva. Le infiorescenze di iperico vengono raccolte e lasciate macerare in dell’olio vegetale. Il composto che se ne ricava – l’oleolito o olio di iperico – è di un colore rosso intenso, da applicare direttamente sul corpo oppure trasformare in compresse da ingerire. Scopriamo insieme alcuni degli usi più comuni dell’olio di iperico.

Capsule e infusi di iperico sono indicati per trattare patologie legate alla sfera emotiva. Grazie alla capacità di aumentare i livelli di serotonina e dei neurotrasmettitori coinvolti nella regolazione dell’umore, riduce ansia, stress, affaticamento e disturbi legati alla stagionalità e a cambiamenti ormonali. Da recenti studi dell’Università di Adelaide in Australia sembrerebbe che l’olio di iperico funzioni come altri inibitori della ricaptazione della serotonina, i cosiddetti antidepressivi Ssri. Sebbene non sia un farmaco, l’olio di iperico può perciò provocare gli stessi effetti collaterali degli antidepressivi, se non viene assunto con cautela e dietro parere medico.

L’uso topico di questo oleolito sembra, invece, non avere particolari controindicazioni; può essere utilizzato da soggetti di ogni età per disinfettare e favorire la cicatrizzazione di ferite, lenire rossori localizzati e in caso di dolori articolari. Soprattutto d’estate, per via delle sue proprietà decongestionanti, lenitive e rigeneranti, l’olio di iperico aiuta a trattare scottature ed eczemi solari. Basterà infatti ungere la parte del corpo interessata 2-3 volte al giorno, fino a quando la pelle non apparirà risanata. La sua azione cicatrizzante lo rende adatto a ridurre gli inestetismi della pelle (come le smagliature quando sono ancora allo stadio iniziale) e i sintomi dell’acne. Inoltre, trattandosi di un ottimo idratante, viene adoperato per combattere l’invecchiamento cutaneo. 

La ricetta fai-da-te

Per preparare l’olio di iperico in casa ti occorreranno:

  • 30 gr di fiori appena raccolti
  • 100 ml di olio extravergine di oliva (oppure olio di girasole o di mandorle)
  • Un vasetto di vetro con tappo o chiusura ermetica

Prendi i fiori e mettili in un vasetto. Aggiungi olio di semi di girasole o extravergine d’oliva, chiudi col coperchio e lascia macerare per circa 40 giorni. Nell’ultima settimana, di tanto in tanto, gira il vasetto ed esponilo al sole. Non esporlo alla luce troppo a lungo per evitare che irrancidisca. Una volta trascorso il tempo necessario, filtra l’olio e conserva in un luogo fresco e riparato dalla luce del sole.

4 dessert light

I dolci sono uno dei piaceri della tavola a cui è più difficile rinunciare. Per fortuna non è davvero necessario farlo: se consumati saltuariamente e in porzioni moderate– sempre nell’ambito di una dieta equilibrata e di uno stile di vita attivo – non rappresentano un pericolo per il giro-vita. Ci sono tuttavia dei periodi in cui ci sentiamo particolarmente golosi, o semplicemente vogliamo ridurre l’apporto calorico dei nostri peccati di gola: ecco allora qualche ricetta di dolci un po’ più “light” per togliersi lo sfizio senza rimorsi!

Dolci light: quello che devi sapere

Qualcuno dice che la pasticceria è l’ambito della cucina che più si avvicina alla chimica: quelle tra farina, zucchero, burro e lievito sono vere e proprie reazioni che, con le giuste dosi e temperature, rendono il risultato perfetto. Spesso ci si illude di poter semplicemente sostituire un ingrediente, dimezzarlo o eliminarlo per ottenere un risultato identico ma più light: non funziona quasi mai.

Se sei una persona che in cucina non scende a compromessi, non leggere questo articolo. La strategia ideale, nel tuo caso, sarà mangiare piccole porzioni dei tuoi dolci preferiti, il più saltuariamente possibile.

Se invece sei disposto ad accettare cheesecake o meringhe un po’ diverse dalle “originali”, pur di poterle mangiare un pochino più spesso (pur senza eccedere con le porzioni!) ecco qui qualche idea da provare!

Cheesecake light

Fresca e dall’aspetto delizioso, specie se guarnita con tanta buona frutta di stagione! Realizzare una cheesecake light è semplice, sostituendo panna e mascarpone con yogurt magro e formaggio spalmabile light. Dolcifica questa golosa crema con un dolcificante a piacere, come la stevia. Per la base, scegli dei biscotti a ridotto contenuto di zuccheri e compattali con dell’olio di semi, anziché usare il burro. In questo modo limiterai l’assunzione di grassi saturi, responsabili dell’eccesso di colesterolo cattivo nel sangue.

Versa la crema all’interno della base, cuoci in forno caldo a 180°C per circa 45 minuti e attendi che la cheesecake sia fredda prima di metterla in frigo. Servila con la frutta fresca che preferisci!

Meringhe al caffè

Sostituisci lo zucchero a velo con della stevia in polvere frullata, riducendo così l’apporto di calorie. Monta gli albumi e aggiungi del caffè solubile per dare alle meringhe un colore originale. Per stabilizzare la miscela (omettendo lo zucchero potrebbe smontarsi più facilmente), puoi aggiungere dello xantano o un altro stabilizzante naturale. Metti il composto in una sac-à-poche e crea le meringhe su una leccarda foderata con carta da forno. Cuoci in forno caldo a 180°C per 12 minuti e, una volta pronte, spegni il forno. Apri leggermente lo sportello e lascia che si raffreddino completamente prima di estrarle.

Banana pops

Una fresca alternativa al tradizionale stecco gelato! Per questo dessert dovrai tagliare a metà due banane, infilzare ogni metà con un bastoncino per gelati e spennellarle con dello yogurt magro. Infine, cospargile con della granella di frutta secca o dei cereali integrali. Riponi i banana pops in freezer per almeno 2 ore. Con chi li condividerai?

Yogurt parfait

Cosa serve per realizzare questo dolce fresco e perfetto anche a merenda? Solo 3 ingredienti: yogurt magro (va bene anche uno alla frutta o alla vaniglia), frutta fresca come fragole, mirtilli e more, e i tuoi cereali preferiti. Alterna gli ingredienti all’interno di una coppa capiente, e scegli di spolverare della granella di nocciole o arachidi prima dell’assaggio!

Leggeri e semplici da realizzare, scegli il primo dessert che vorresti provare. Dopodiché, provali tutti!

Da Napoleone alla pasta al pomodoro

La conserva nera

Alla fine del XVIII secolo il pomodoro si era ormai affermato anche nel Nord Europa ed erano subito iniziati i tentativi di preservare il prodotto oltre la stagione estiva. 
Uno dei primi metodi di conservazione passava per la disidratazione: il sugo di pomodoro veniva cotto fino a diventare una pasta densa, da compattare in mattoncini ed essiccare al forno o sulla stufa. Alla fine dell’Ottocento, intorno a Parma, la “conserva nera” fu prodotta su scala industriale e venduta sia in Italia che in America. 

La nascita della passata

L’innovazione in tema di conservazione alimentare subì una forte spinta da parte di Napoleone, che cercava soluzioni per le provviste delle truppe nelle campagne militari.

Lo scienziato gesuita Lazzaro Spallanzani aveva già scoperto che infusi chiusi in barattoli di vetro fatti bollire per un’ora duravano molto a lungo, ma le sue conclusioni furono limitate a pochi opuscoli. 

Fu il pasticciere Nicolas Appert a rendere noto il procedimento, eseguendo una ricerca sui materiali più adatti per l’esposizione al calore e la chiusura ermetica. Questi risultati furono premiati dal Direttorio Francese con 12.000 franchi.

Dopo la caduta dell’Impero, Appert cadde in rovina, ma i suoi studi furono continuati dall’inglese Peter Durant, inventore del “cibo in scatola”. Nel 1814 la Reale Marina Inglese forniva ai suoi uomini conserve di zuppe e carne in scatola.

L’incontro con la pasta

Ma la passata era già diffusa nelle case degli Italiani: già nel 1814 in un libro di cucina appare la “Conserva di pomidoro al fresco”, ispirata agli insegnamenti di Appert: suggeriva di setacciare i pomodori maturi e chiuderli in un barattolo sigillato con il catrame e, dopo averlo fatto bollire a bagno maria per 16 minuti, conservarlo in cantina, ricoperto di sabbia.

Ma quand’è che la pasta ha incontrato il pomodoro? 

Ai primi dell’Ottocento Napoli stava vivendo un momento di relativa tranquillità ed espansione culturale: la cucina italiana si era ormai slegata dall’influenza francese e affermava la propria identità. Ad ogni angolo delle strade si acquistavano piatti di pasta con il formaggio, ma via via le trattorie cominciavano a proporre i vermicelli al pomodoro. Questo piatto riscosse un tale successo che talmente gradito che i cuochi napoletani cominciarono ad importare i pomodori dalla Sicilia.

Dalla passata… al presente

Nel 1858, Cirio apre il primo stabilimento a Torino, che faceva conserve di piselli. Dopo l’Unità d’Italia ne inaugurò altri nel Mezzogiorno, dedicati alla produzione di salsa di pomodoro in scatola di latta. L’unificazione del paese e le campagne pubblicitarie del marchio resero in breve tempo la “pappa col pomodoro” un’icona dell’intera penisola. 

Pasta alla Norma

Non tutti sanno che il nome di questa ricetta del Sud Italia è un omaggio all’omonima opera lirica di Bellini. Questa aveva avuto un tale successo che i Catanesi avevano introdotto l’espressione “pari ‘na Norma” per esprimere meraviglia. 
Nel 1920 il commediografo Nino Martoglio, assaggiando il piatto disse “Signuram chista è ‘na vera Norma”, assegnando così il nome alla ricetta.