Odor di pioggia

“Senti che sta per piovere?”

Usiamo proprio questo verbo perché uno dei sensi maggiormente coinvolti in questo processo è l’olfatto. Quando sta per piovere il nostro naso capta un odore difficile da descrivere e che finiamo col chiamare “odor di pioggia”. Ma da cosa nasce questo particolare odore?

I fattori che, combinati, danno origine all’odore della pioggia sono in realtà tre, dovuti a loro volta a ragioni chimiche e fisiche.

Ozono

Quello che sentiamo subito prima o immediatamente dopo un temporale è proprio l’ozono. Un odore pungente simile a quello del cloro disciolto nell’acqua delle piscine, e di cui si riempie l’aria subito dopo un’abbondante pioggia.  A causa dell’elettricità sprigionata dai fulmini che si formano durante un temporale, le molecole di ossigeno nell’aria possono rompersi e portare alla formazione dell’ozono, un gas naturale composto da 3 molecole di ossigeno. Le correnti che si formano tra le nuvole lo portano poi a bassa quota, facendoci percepire tramite l’olfatto l’arrivo di un temporale.

Geosmina

Questo tipico odore di terra risalta quando l’acquazzone si verifica dopo un lungo periodo non piovoso, soprattutto in estate. È causato dalla presenza nel terreno dei batteri appartenenti al genere Streptomyces che producono un composto organico in grado di sprigionare un forte odore all’aumentare dell’umidità nell’aria. Il naso umano è molto sensibile alla geosmina, un odore che spesso copre quello di aria pulita dovuto all’ozono soprattutto in campagna o aree poco urbanizzate. In città, invece, essendoci meno suolo libero a disposizione dei batteri, si percepisce di più l’ozono perché la geosmina prodotta è minima.

Petricore

Arriviamo al fattore che più caratterizza l’odor di pioggia. Negli anni ‘60 gli scienziati australiani I. J. Bear e R. G. Thomas decisero di indagare sul profumo della pioggia facendo seccare dell’argilla ed estraendo gli oli trovati al suo interno. Identificarono così una sostanza giallastra che aveva un odore simile a quello della pioggia. Fu allora che venne ideata la parola “petricore” per descrivere il profumo fortemente minerale che si diffonde nell’aria prima o durante un temporale. A svelare il motivo per cui il petricore si sparge nell’aria proprio quando piove sono i ricercatori del MIT (Massachusetts Institute of Technology) con uno studio apparso su Nature Communications. Simulando la caduta della pioggia su 28 superfici diverse e riprendendo l’esperimento ad velocità, hanno scoperto che quando una goccia colpisce un materiale poroso (come può essere il suolo), sulla superficie di contatto si formano microscopiche bolle d’aria, che scoppiano rilasciando nell’atmosfera particelle di aerosol, ossia una soluzione di molecole d’acquaoli vegetali e sostanze organiche. Il risultato è la percezione olfattiva  di quello che comunemente definiamo odor di pioggia.

Cos’è il vino novello?

Come ogni anno, è in commercio dal 30 ottobre, e lo sarà fino al 31 dicembre.

Il vino novello, infatti, in Italia deve rispettare una precisa normativa che ha subìto la sua ultima modifica con il decreto ministeriale del 13 Agosto 2012.

Ma che cos’è?

Si tratta di un prodotto ottenuto interamente dalla vendemmia della stessa annata. Un vino giovanissimo quindi, conseguito tramite una particolare tecnica di vinificazione: la macerazione carbonica. Consiste nel porre i grappoli di uva interi in contenitori di acciaio previamente saturati con anidride carbonica. In assenza di ossigeno gli acini modificano il loro metabolismo iniziando una fermentazione intracellulare.

Le origini

Questo procedimento è stato scoperto negli anni ’30 in Francia. Si stava cercando un metodo di conservazione dell’uva attraverso l’anidride carbonica e si è notato che invece in questo modo l’uva fermentava spontaneamente.
Questa procedura è stata regolamentata in Francia a partire dal ’51. Il più celebre dei vini novelli è proprio il francese Beaujolais nouveau. Esso può essere prodotto solo nella regione del Beaujoulais (che è un’area AOC, ovvero appellation d’origine contrôlée, analoga all’italiana DOC) ed esclusivamente da uve del vitigno Gamay.

In Italia

In Italia la produzione del vino novello risale agli anni ’70: ha avuto il suo picco una decina di anni fa, con annate da 17 milioni di bottiglie, per poi diminuire fino ad arrivare alle 2 milioni attuali.
La normativa nel nostro paese è più permissiva: è consentito l’uso di ben 60 vitigni diversi, e ci deve essere un minimo del 40% di uva trattata con macerazione carbonica (tecnica più costosa rispetto a quelle tradizionali).

Quali sono le sue caratteristiche?

Il vino novello è un vino dal colore molto vivo e acceso, con sfumature che vanno dal rubino alle classiche tonalità violacee o porpora di un vino giovane.

Anche il profumo è molto intenso: aromi fruttati e freschi, classici della fermentazione e della vinosità del mosto.

Il contenuto alcolico è generalmente di 11-12 gradi.

Ha un gusto frescogiovane e fragrante. È un vino poco strutturato ma molto morbido, per via dell’alta presenza di glicerina. Si beve facilmente, anche per via del basso contenuto di tannini.

Proprio per via dei pochi tannini non è un vino adatto alla lunga conservazione: va consumato generalmente entro sei mesi dalla sua produzione.

Abbinamenti

Oltre al tagliere di salumi e formaggi, il grande classico è l’accoppiata di stagione insieme alle caldarroste!

5 cose che non sapevi sulla zucca

Regina dei mesi autunnali, la zucca è un ortaggio coltivato e apprezzato dall’uomo fin dall’antichità, usato in tantissime ricette dolci e salate. Si tratta di un alimento ipocalorico, ricco di potassiomagnesio e vitamine essenziali, che per l’alta percentuale d’acqua aiuta a mantenere idratato il nostro organismo. Sei curioso di sapere di più sulla zucca? Ecco 5 curiosità su di lei!

1. Non si butta via niente

Della zucca puoi mangiare tutto: la buccia, i semi, le foglie, i fiori, e persino viticci e germogli. Ogni parte può essere cotta in maniera diversa per esaltarne il gusto e preservarne le proprietà. Per gustare i semi di zucca, lavali e riponili su una teglia ricoperta con carta da forno; tostali a 180° C per circa 15 minuti, fino a che non risulteranno asciutti e croccanti. Se vuoi provare una sfiziosa variante alle classiche patatine, usa la buccia di zucca. Ricavane delle striscioline, irrorale con olio d’oliva e cuocile in forno a 200° C per 30 minuti. Sala il tutto e servi! 

2. Un otre d’altri tempi

Fino agli anni sessanta, le zucche private della polpa erano utilizzate dai contadini come contenitori per conservare liquidi come vino e acqua. Quelle usate per questo scopo erano le cosiddette lagenarie, che prendono anche il nome di zucche bottiglia o, appunto, “da vino”. Dalla struttura particolarmente resistente, anche gli ortaggi più piccoli potevano essere lavorati e trasformati in fiaschette, o ancora usati per contenere polvere da sparo oppure tabacco da fiuto.

3. A suon di zucca

Sapevi che la zucca è stato uno dei primi strumenti musicali? Già gli uomini primitivi la usavano come una maracas, scuotendola per far risuonare i semi al suo interno. Alcuni degli strumenti realizzati con la zucca sono il berimbau, usato nella capoeira, e il cosiddetto “pianoforte a pollice”, altro strumento a corda tradizionale africano.

4. Un toccasana per la pelle

La polpa di zucca si rivela una valida alleata delle pelli grasse. Realizza una maschera purificante fai-da-te schiacciando parte dei semi con uno spicchio di polpa; aggiungi un po’ di miele e lascia riposare il composto per alcuni minuti.  Applica la maschera sul viso e lascia in posa per dieci minuti:la tua pelle ti ringrazierà!

5. Buona anche da bere!

Poiché nel XVI secolo il malto d’orzo europeo approdava di rado sulle coste americane, i mastri birrai locali trovarono nella zucca un succedaneo per produrre un’originale birra. Oggi le cose sono cambiate e la zucca si aggiunge sotto forma di purea agli ingredienti tradizionali, così da realizzare una birra stagionale ad alta fermentazione dolce e speziata, di cui però vi parleremo nel dettaglio in uno dei prossimi articoli! 

Breve storia della pasta

Non è facile dire presso quale popolo o in che epoca sia stata inventata la pasta di frumento. Le sue origini sono sicuramente antiche e, a giudicare dagli ingredienti, parte integrante della tradizione mediterranea. La prima testimonianza dell’esistenza della pasta proviene da un’opera di Aristofane, commediografo dell’antica Grecia che già nel V secolo a.C. parlava di una pietanza molto simile ai ravioli.

Solo negli scritti di età romana come quelli di Apicio (a cui è attribuito il primo ricettario della storia, De Re Coquinaria) e Orazio si parla più espressamente di “lagane”, un insieme di sfoglie di pasta fresca più o meno larghe, farcite con carne o verdure. Il nome ce lo ha già fatto intuire ma sapere che queste venivano cotte in forno ci conferma di essere davanti alle antenate delle moderne lasagne.

Dopo la caduta dell’Impero Romano sono gli Arabi a personalizzare e diffondere la pasta come la conosciamo oggi. Contrariamente a quella fresca consumata in passato, in Africa erano soliti essiccare la pasta al sole per ridurne il contenuto d’acqua e renderla più duratura. Durante gli spostamenti e i viaggi esplorativi, infatti, si aveva la necessità di portare con sé un prodotto leggero e poco deteriorabile, che fosse ad alto apporto energetico. Oltre a realizzare e consumare per primi la pasta secca, gli Arabi ne diffondono la produzione nel Mediterraneo e in Sicilia. Lo storico dell’epoca Al-Idrisi racconta di come proprio sull’isola, a Trabia (l’attuale Palermo), venisse preparata la triyah, una pasta filiforme prodotta in grandi quantità sfruttando le numerose coltivazioni di grano e i mulini in loco. Tutta questa pasta veniva poi esportata in Calabria e in altri Paesi musulmani e cristiani, spedendone parecchi carichi anche via mare. È in questo periodo che le lagane romane lasciano il posto a sottili fili di grano essiccati, i precursori degli attuali spaghetti: facili da trasportare, veloci da cuocere e versatili da condire.

Solo nel 1600, in un contesto tutt’altro che roseo, la pasta diventa finalmente un alimento di massa. Siamo a Napoli, sotto il dominio spagnolo e nel pieno della carestia, dove con il crollo del consumo di carne e pane la popolazione si rivolge alla pasta, un alimento che già gli arabi consideravano altamente nutriente e che ora diventa più economico grazie agli strumenti tecnologici impiegati nella produzione. La gramola, il torchio e la trafila sono solo alcune delle nuove tecnologie che iniziano ad essere usate in tutti i pastifici dello stivale per produrre grandi quantità di pasta in breve tempo e a un prezzo accessibile a tutte le fasce della popolazione. Per l’accoppiata con il pomodoro dovremo aspettare ancora quale anno, come raccontato qui. 

Dopo questo breve excursus storico non sappiamo ancora quando o dove sia nata di preciso la pasta. Siamo solo sicuri di parlare di un prodotto che ci caratterizza e che ogni 25 ottobre – come proposto 26 anni fa dai produttori del settore – festeggiamo con orgoglio e pentole alla mano. E tu sei pronto a gustare un bel piatto di spaghetti per questo World Pasta Day?

Una città nella roccia

Setenil de las Bodegas, in Andalusia, è una meta unica non solo per il nome che porta ma anche per la sua struttura. Si tratta di uno dei paesi bianchi (pueblos blancos) della provincia di Cadice, caratterizzati da ripide viuzze ed edifici di un bianco luminosissimo, sormontati da imponenti rocce nelle quali sembrano scavati. Qual è la storia di questa cittadina?

Il suo nome deriverebbe dall’unione delle parole latine septem e nihil, rispettivamente “sette” e “zero”. Pare infatti che ci vollero ben 7 assedi, di cui solo uno riuscito, per sottrarre la città al dominio dei Mori durante il periodo della Reconquista. Una volta cristianizzata, Setenil diventò un centro agricolo rinomato per la produzione di olivemandorle e vino, che venivano custoditi all’interno di numerose cantine naturali chiamate bodegas.

Ciò che attrae turisti da tutto il mondo è però la pittoresca conformazione di Setenil. Le enormi pareti rocciose sembrano inghiottire case e strade ma non è altro che un’illusione.
Come mostrano le pitture rupestri rinvenute nella vicina Cueva de la Pileta e risalenti a 25.000 anni fa, le popolazioni preistoriche  non si limitavano a risiedere in questo luogo, bensì a modellare a loro piacimento ciò che la natura offriva per potersi sviluppare ed estendere sul territorio.

Setenil de las Bodegas è così cresciuta in piena sintonia con la natura, articolandosi su più livelli a seconda delle conformazioni rocciose: le case che si trovano al di sopra sono costruzioni complete, mentre quelle al di sotto combinano le pareti edificate con quelle naturali in pietra.

La gola era stata scavata dal fiume Trejo, le cui acque attirarono i primi colonizzatori in queste zone. Un secondo importante fattore era l’ombra permanente offerta dalle rocce in un territorio che può raggiungere temperature estreme sia d’inverno che d’estate. Terza ma non meno importante era la funzione difensiva svolta dalle imponenti pareti rocciose, una fortificazione naturale contro gli attacchi nemici.

Se non si dovesse avere tempo per visitare il castello, la torre del Homenaje, le cave di pietra e i resti di antichi insediamenti limitrofi, basterà passeggiare per le pittoresche vie di Setenil per vivere un’esperienza turistica unica nel suo genere!

La lingua dei bugiardi

Anche se detta a fin di bene, una bugia è sempre una bugia ed esistono alcuni modi per individuarla. O meglio, ci sono delle costanti che caratterizzano il linguaggio dei bugiardi: piccoli espedienti, volti a far apparire vera un’affermazione falsa, che possiamo imparare a riconoscere.

Iniziamo col porci una domanda: perché mentiamo?

I motivi possono essere diversi. Solitamente la bugia ci permette di apparire migliori agli occhi degli altri e ricevere approvazione. Questo non è solo un comportamento tipico dei narcisisti ma anche di chi vuole essere incluso in un gruppo. Dire bugie può essere utile a evitare un possibile rifiuto o un’eventuale punizione; pare infatti che i bambini imparino a mentire per sfuggire a punizioni anche emotive che potrebbero subire dopo aver trasgredito una regola. Un partner può invece mentire per paura di allontanare o dispiacere il compagno. Nella dimensione di coppia, la personalità più sensibile e meno risoluta potrebbe servirsi di una bugia per sottrarsi a conflitti e confronti, o per salvaguardare le proprie autonomia e privacy.

Ma come si racconta una bugia? Con una lingua apposita.

Chi mente impiega un linguaggio ben preciso, fatto di termini generici, frasi semplici ma ricche di dettagli irrilevanti volti a mascherare meglio la menzogna. La narrazione del bugiardo viene proiettata sugli altri piuttosto che su sé stesso, con un raro uso di pronomi come “io”, “il mio”. È spesso ricca di termini negativi, frutto di un inconscio senso di colpa e, anche se le immagini usate sono semplici, le frasi risultano particolarmente complesse, nell’illusione che un discorso articolato e dettagliato appaia più veritiero.

Oltre alle parole, i bugiardi si avvalgono di gesti e comportamenti per sostenere le loro false tesi. Come segnala uno studio pubblicato sulla rivista Royal Society Open Science, chi mente tende spesso ad imitare gli atteggiamenti del suo interlocutore. Questo perché mentire richiede molte energie, e copiare i gesti di chi ha davanti risulta meno impegnativo che controllare una propria gestualità. E nonostante questo meccanismo possa passare inosservato, non sfugge a strumenti come l’accelerometro, usato nello studio per misurare le accelerazioni nei movimenti degli individui coinvolti.

Un linguaggio fatto di parole, silenzi, esitazioni e gesti, usato per rendere la bugia quanto più simile a una verità. La domanda che potremmo porci ora è: possiamo apprendere questa lingua o è tutto frutto di un processo inconsapevole messo in atto solo quando è ora di mentire?

Maledette cimici

D’accordo, il fastidio che ci provocano le zanzare non è assolutamente paragonabile, ma quanto è odioso l’insetto che prende il suo posto sul finire della bella stagione?         

Se per noi non è nocivo (non punge e non veicola malattie per l’uomo), al massimo fastidioso per il ronzio che produce e per l’odore, i veri nemici delle cimici sono gli agricoltori, assai più penalizzati dalla loro presenza.

La cimice del pomodoro

Chiariamo subito questo aspetto: emana lo sgradevole odore che tutti conosciamo perché la sua unica arma di difesa consiste in delle ghiandole odorifere, che hanno uno sbocco verso l’esterno. Queste ghiandole contengono sostanze volatili ad azione repellente che vengono “liberate” nel momento in cui l’insetto si sente minacciato: il superpotere peggiore del mondo.

Esistono diverse specie di cimice in natura, oggi ci concentreremo sulla più diffuso in Italia, la Nezara Viridula (tipica cimice verde), e sulla Halyomorpha halys (la cimice asiatica), il nuovo incubo degli agricoltori europei. 

La prima è anche detta “cimice del pomodoro” poiché è particolarmente attratta dall’ortaggio rosso. Si nutre della linfa della pianta, praticando delle punture che, oltre a rovinare i frutti e far seccare la foglia, possono veicolare malattie dannose per il raccolto. I danni maggiori li provocano soprattutto sulle piante da frutto, ma anche alle crucifere portano grossi fastidi. 

La cimice si muove durante il giorno, restando praticamente immobile nelle ore notturne. Nel periodo estivo le femmine depongono le uova, solitamente sulle foglie delle piante; la schiusa avviene dopo 20 giorni, dando alla luce circa una trentina nuovi esemplari. Se hai un orto, in giardino o sul balcone, esamina regolarmente le tue piante per eliminare eventuali uova: la prevenzione è la miglior difesa. 

Come tenerle alla larga

L’opzione più rapida per evitare che invadano le case è acquistare una zanzariera.

Per allontanarle dalle piante, invece, si può nebulizzare del sapone di Marsiglia sciolto in acqua, che le uccide per soffocamento e non è pericoloso per l’ambiente e i frutti. Esistono anche trappole a base di feromoni di aggregazione.

La devastatrice asiatica

Coldiretti rivela: 740 milioni di euro di danni complessivi per il frutteto Italia a causa della Haylomorpha halys, di cui 280 in Emilia, 160 in Veneto, mentre Lombardia, Trentino e Liguria hanno avuto una ricaduta economica negativa più accettabile.

L’insetto, detto “asiatico” perché originario di Cina, Giappone e Taiwan, fece il suo ingresso nel 1998 negli Stati Uniti a causa, si dice, di un errore. Per lo stesso motivo nel 2012 la presenza della prima “colonia” è stata registrata nel modenese e da quel momento si è diffusa in tutta Europa provocando ingenti danni.

Il 18 giugno di quest’anno, in seguito a uno studio durato 3 anni, è iniziata ufficialmente la vendetta degli agricoltori, tramite il lavoro coordinato di CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) e FEM (Fondazione Edmund Mach, Trento). La soluzione è arrivata dalla natura, in particolare da un altro insetto chiamato vespa samurai, proveniente dalle stesse zone di origine della cimice. È l’unico predatore naturale della devastatrice di raccolti, così i ricercatori hanno dato vita allo SWAT (Samurai Wasps Action Team), liberando, nelle zone in cui si è registrata una massiccia presenza di cimice asiatica, qualche migliaio di femmine rilasciate a gruppi di un centinaio, a intervalli di una ventina di giorni. La vespa, di dimensioni minuscole (circa 2 mm), è innocua per l’uomo (a differenza di altre specie), e parassita le uova della cimice iniettando al loro interno le proprie uova. 

I risultati si vedranno nei prossimi anni, poiché la Haylomorpha halys ha la capacità di depositare fino a 500 uova, con tempistiche di incubazione di circa 50 giorni. Dal 2012 a oggi in sostanza, vivono nell’Unione Europea un numero impressionanti di questa specie.

La partita è iniziata, il mondo intero fa il tifo per le “mini vespe”. Ce la faranno le nostre eroine? 

Fillossera: l’insetto che cambiò la storia del vino

La vite Europea fu introdotta in America dalle prime missioni cattoliche spagnole in Messico. Quella autoctona, infatti, non era stata addomesticata e non presentava frutti adatti alla vinificazione. 

La riproduzione della vite

Quella europea veniva riprodotta per propagazione naturale, come si era sempre fatto sin dall’antichità: questa pratica consisteva nell’utilizzare una parte di una pianta esistente per crearne una seconda, senza passare per l’impollinazione. La normale fecondazione tra viti dello stesso tipo, infatti, porta alla sterilità nel giro di poche generazioni. D’altra parte, incrociando tra loro varietà diverse, diventa impossibile conservarne le peculiarità della pianta faticosamente selezionate. Questo rende necessaria la riproduzione agamica, cioè la clonazione di una vite di prima generazione, conservandone il patrimonio genetico

Il punto di svolta

A partire dal 1860 in Francia, nella zona di Bordeaux, iniziarono ad ammalarsi moltissimi vigneti. Il motivo era la fillossera, un insetto proveniente dagli USA che attaccava le radici delle viti. L’infestazione si propagò rapidamente nel resto del continente, mettendo seriamente a repentaglio il futuro della viticoltura europea. 

Si tentarono molte strade per arginare il flagello: iniezioni di solfuro di carbonio nel terreno, sommersione e insabbiamento delle vigne, ma nessuna soluzione si rivelò definitiva, finché non si osservò una peculiarità delle viti americane e dei loro ibridi. Dato che queste convivevano da molto tempo con il parassita, avevano sviluppato una certa resistenza al suo attacco: botanici e vivaisti si lanciarono così alla ricerca di un ibrido che combinasse questa caratteristica con una produzione di uve di buona qualità. 

Non si può dire che da allora il percorso sia stato in discesa: anche se resistevano alle punture della fillossera, spesso le radici non si adattavano al terreno calcareo europeo e anche la ricerca di un ibrido che fruttificasse in modo soddisfacente senza ricorrere all’innesto (Ibrido Produttore Diretto) non ebbe successo. 

Furono infine selezionate tre varietà di V.ripariaV. rupestris e V.berlandieri, che da allora furono coltivate estensivamente per diventare basi da innesto, cui veniva applicato l’apparato vegetativo della V. Vinifera

Migliaia di specie viticole tramandate dal Medioevo si persero e i vigneti furono ricostruiti partendo da nove radici.

La storia del vino era cambiata per sempre. 

I segreti della zucca

Non solo arancione e non solo tonda. Sapevate che del prezioso frutto delle cucurbitacee (questo il nome scientifico delle zucche), in Italia esistono tantissime varietà?Tra le più comuni, la Cucurbita maxima, è la classica zucca gialla o arancione, ricca di betacarotene, un antiossidante. Generalmente tondeggiante e di grandi dimensioni, ha delle scanalature verticali che la contraddistinguono. La zucca a trombetta, invece, risponde al nome scientifico di Cucurbita moschata ed è oblunga, ricca di polpa arancione e con buccia fine e liscia. Quella a fiasco (Lagenaria siceraria), di colore verde, è usata nelle zuppe e nelle minestre sin dall’antichità. La zucca mantovana è tra le più pregiate e rinomate del Nord Italia: ha forma leggermente schiacciata, buccia dura, verde e poco liscia, la polpa è compatta e pastosa con un colore arancio acceso. È quella usata per i celebri tortelli.

Come scegliere la zucca?

Deve essere pesante, avere una buccia dura e spessa, senza ammaccature. È matura al punto giusto quando è facile da tagliare.

Come conservarla

Le zucche intere si conservano per molto tempo, anche per tutto l’inverno: basta tenerle in un ambiente non umido, con una temperatura tra 12° e 22° gradi e al riparo dalla luce solare diretta.Il consiglio è di lasciarle al sole almeno dieci giorni tra settembre e ottobre in modo che si asciughino.Avendo cura di ritirarle durante la notte per evitare l’umidità, poi si manterranno perfette fino a febbraio.Una volta tagliate, invece, devono essere consumate entro 72 ore. Il metodo migliore per conservare la polpa a lungo è la surgelazione, sia di quella fresca tagliata a fettine o dadini, sia di quella cotta, dopo una bollitura di almeno 2-3 minuti.
 Esistono anche delle varietà di zucca non commestibile, ovvero solo per uso ornamentale per decorare tavole o interni. Si tratta per lo più di zucche di dimensioni piccole, con forme strane e allungate e una buccia rugosa.

La zucca nella storia

La zucca veniva coltivata già nel 5.000 a.C. dalle tribù sudamericane. I semi erano ricchi di proteine, ed era facilmente trasportabile, perfetta per gli scambi commerciali. La sua diffusione in Europa si deve ai coloni spagnoli, che qui la importarono, dal XVI secolo in poi.In Italia viene coltivata soprattutto in alcune regioni settentrionali, ma è ampiamente consumata ovunque.Nella tradizione anglosassone, la zucca, scavata e illuminata, è un elemento fondamentale per la vigilia di Ognissanti.Sembra che la tradizione abbia origine in Irlanda nel diciannovesimo secolo, dove era usanza intagliare le più svariate verdure per esorcizzare il sovrannaturale. Tutt’oggi vi si rappresentano volti mostruosi, streghe o fantasmi a seconda dell’abilità e della fantasia. Ma altri popoli usano questo ortaggio per scopi altrettanto artistici.La zucca è stato uno dei primi strumenti musicali: l’uomo primitivo già la usava come maracas, scuotendola e facendo risuonare i semi al suo interno.  Ancora oggi è usata in varie parti del mondo come cassa di risonanza per molti strumenti musicali.In passato, le zucche svuotate erano utilizzate come borracce per conservare il vino o per portare in giro l’acqua. Quelle più piccole addirittura per tenere la polvere da sparo o il tabacco da fiuto.

Poche calorie, molte virtù

Nonostante il sapore dolce, la zucca è un alimento ipocalorico (26 kcal per 100 g), ricco di potassio, magnesio e vitamine. Valido nelle diete dei pazienti diabetici, grazie al bassissimo contenuto di zuccheri e grassi, compensato da elevate percentuali di fibre, vitamine e sali minerali.
La presenza di acqua per il 94% della sua composizione la rende particolarmente adatta a mantenere l’idratazione e il corretto equilibrio idrico tra l’organismo e le mucose. Ricca di betacarotene, aiuta a contrastare l’insorgenza di radicali liberi, mentre gli Omega-3 riducono il colesterolo e la pressione.

Maschere… non solo di Halloween

La polpa della zucca è un toccasana per le pelli grasse. Basta schiacciare una fettina di zucca cruda e mescolarla con un pugno di semi di zucca tritati e un po’ di miele. Da applicare sul viso e lasciare in posa per dieci minuti per una pelle più pulita e uniforme.

Da dove viene la vaniglia?

La pianta della vaniglia appartiene alla famiglia delle Orchidacee ed è originaria delle foreste tropicali del Messico e dell’America Centrale. Il suo frutto, lungo e affusolato, cresce alla base dello stelo e misura circa 15-20 cm. È al suo interno che, con opportuna fermentazione, si sviluppano le preziose sostanze aromatiche che rendono la vaniglia così speciale. 

Un po’ di storia

I primi a utilizzarla pare fossero gli Aztechi, che vi profumavano la cioccolata. I conquistadores, che le diedero il nome di “vainilla” (cioè “piccola guaina”) la importarono in Europa, ma per lungo tempo la coltivazione avvenne solo in Messico; anche se l’orchidea veniva propagata per talea e diffusa nei vari orti botanici d’Europa, in tutto il vecchio continente sembrava impossibile farla fruttificare. Il motivo? Mancavano i giusti animali impollinatori, che in Messico sono le api del genere Melipona.

Solo nel 1841, grazie alla scoperta dell’impollinazione artificiale (che ancora oggi avviene manualmente, aumentando notevolmente i costi di produzione) si riuscì ad avviare la coltivazione fuori dal Messico, cioè a Bourbon, il nome dell’attuale isola di Réunion. Presto la produzione di vaniglia si allargò anche alle isole Comore e al Madagascar, che arrivò in poco tempo a superare il Messico. Oggi il maggior produttore di vaniglia è l’Indonesia.

Solo dopo la diffusione della sua coltivazione e l’abbassamento del prezzo (che rimane comunque alto rispetto ad altre spezie) la vaniglia iniziò ad entrare nella cucina e pasticceria europea. “L’Almanach des Gourmands” di Grimond de la Reynière del 1810 la menziona solo in una mezza dozzina di ricette, mentre nel XIX secolo le cose cambiarono radicalmente: la vaniglia iniziò ad essere usata sia in cucina che nella cosmesi, particolarmente apprezzata nei prodotti da applicare sulla pelle. 

Produzione

La varietà più pregiata è proprio la Vaniglia Bourbon, che contiene tra l’1,6% e il 2,4% di vanillina, il principio attivo a cui si deve il suo inconfondibile profumo. Questo però non si percepisce dal frutto maturo, ma solo in seguito alla fermentazione dello stesso dopo la raccolta: il metodo Bourbon, del tutto manuale, prevede che le bacche siano raccolte poco prima della maturazione e immerse in acqua calda, per ridurre la vitalità del frutto (che è climaterico) senza disperderne i fermenti. Vengono poi riposte in casse ricoperte di lana, dove la temperatura raggiunge i 50°C; nel diro delle 24 ore assumeranno il colore scuro a noi familiare. Si può poi passare alla fermentazione vera e propria, che avviene su un graticcio al sole per una settimana e in un apposito magazzino per i successivi due-tre mesi. 

Le principali varietà coltivate sono 3:

  • Vanilla planifolia: coltivata nell’Oceano Indiano, ha un buon contenuto di vanillina e presenta gli aromi speziati e boisé
  • Vanilla x Tahitensis: coltivata in Polinesia, a Tahiti e in Nuova Guinea, presenta note floreali e un tocco di anice
  • Vanilla Pompona: originaria dell’America Centrale, presenta baccelli lunghi e carnosi. Viene usata principalmente nell’industria del profumo

Vanillina

Per soddisfare il fabbisogno mondiale di vanillina con la sola vaniglia coltivata, dovremmo destinarvi circa 1,2 milioni di ettari: un’area vasta quanto la Campania. Gran parte della vanillina in commercio è artificiale, cioè prodotta chimicamente. Come abbiamo già visto in altri articoli, il fatto che una sostanza sia prodotta artificialmente non significa che faccia male, purché si rispettino gli standard di sicurezza e il prodotto finale sia analogo a quello naturale nella composizione chimica. La vanillina prodotta artificialmente, infatti, è identica a quella naturale, ma i costi di produzione (e il consumo di suolo) sono molto minori.

La prima sintesi di vanillina in laboratorio avvenne nel 1874 a partire dalla coniferina, sostanza presente nella resina dei pini. I due chimici tedeschi Tiemann e Haarmann cominciarono così a produrla su scala industriale, ma non si trattava di un processo economicamente così vantaggioso. Una svolta da quel punto di vista avvenne quando si passò a utilizzare come precursore l’eugenolo, contenuto nei chiodi di garofano. Oggi si può produrre anche a partire dalla lignina, presente nella cellulosa.

Ci sono anche dei metodi per produrre vanillina naturale senza coltivare la pianta di vaniglia: ad esempio con la fermentazione batterica partendo da diversi substrati. Un ceppo di batteri geneticamente modificato è riuscito a produrre vanillina a partire dal PET delle bottiglie! Al momento, comunque, questa procedura è ancora in via di perfezionamento e non ha quindi rilevanza sul mercato mondiale.