Riso e fantasia

Insalate di riso veloci da preparare, perfette da portare in spiaggia o in un pranzo al sacco e perché no, anche in ufficio. Insieme alla pasta fredda, uno dei pasti prêt-à-porter più gettonati dagli italiani che si presta a mille variazioni sul tema. Ve ne proponiamo alcune insieme ad alcuni pratici consigli.

Quale riso scegliere

  • Il riso Parboiled mantiene bene la cottura e cuoce in pochi minuti
  • 
Il riso Roma si adatta a tutte le preparazioni
  • 
Il riso Venere un chicco nero ideale per insalate di riso a base di pesce
  • 
Il riso Apollo è profumatissimo, aromatizzato e delicato

  • Il riso Ermes ha un chicco rosso che si sposa bene con il pomodoro fresco, scaglie di parmigiano ed erbe aromatiche fresche



Come fare una dose giusta


Non sarà facile perché vi sembrerà sempre poco ma dovete pensare che il riso è solo la base a cui andranno aggiunti diversi ingredienti che raddoppieranno il volume della portata.
 La dose di riso varia in genere dai 50 agli 80 grammi. Uno dei consigli pratici è quello di tenere come misura mezzo bicchiere d’acqua (capienza media) a persona.



Cuocere e raffreddare il riso

Il riso va cotto in abbondante acqua salata. Per raffreddarlo ci sono due modi: passarlo sotto all’acqua corrente fredda del rubinetto oppure stenderlo su un canovaccio pulito ben allargato e farlo raffreddare.
 Il primo passaggio è il più veloce ma tende a rendere il riso leggermente meno saporito.

Ricette sfiziose per 4 persone


Insalata di riso classica


Ingredienti

  • 240 g riso
  • 120 g tonno sott’olio
  • 100 g prosciutto cotto (a cubetti)
  • 100 g piselli
  • 1 carota
  • 100 g mais dolce
  • 4 wurstel (piccoli)
  • Olive nere e verdi
  • Sale e olio aromatizzato al basilico

Preparazione

  1. Prendete il riso che avete scelto e i piselli e metteteli in una pentola con acqua bollente leggermente salata.
  2. Una volta pronti scolateli e passateli sotto l’acqua corrente del rubinetto in modo da raffreddarli e fermare la cottura.
  3. A questo punto dedicatevi a tagliare a pezzetti i wurstel, la carota, le olive verdi e nere, il prosciutto cotto a cubetti e mescolateli insieme.
  4. Mettete tutti gli ingredienti in una ciotola insieme al riso e ai piselli cotti, mescolate con un cucchiaio e una volta raffreddato il tutto conservate in frigorifero.
  5. Se amate la maionese, aggiungetela solo nel momento in cui pasteggiate. In caso di trasferte portatevi il tubetto intero e conservatelo in un borsa termica ben raffreddata.

Insalata di riso tonno e zucchine

Ingredienti

  • 350 g riso
  • 3 zucchine
  • 240 g tonno sott’olio (2 scatolette)
  • 1 limone
  • Prezzemolo
  • Sale e olio aromatizzato al basilico

Preparazione

  1. Lavate le zucchine, togliete le due estremità e tagliatele a cubetti piccoli.
  2. Sciacquate bene il riso sotto l’acqua corrente per togliere l’amido.
  3. Mettete sul fuoco una pentola di acqua salata e quando bollirà buttate il riso e le zucchine tagliate a cubetti.
  4. Quando il riso sarà cotto ma ancora al dente scolatelo insieme alle zucchine e passatelo sotto l’acqua corrente per raffreddarlo completamente.
  5. Mettete il riso e le zucchine in un’insalatiera con il tonno sott’olio sgocciolato e il succo di limone.
  6. Condite con abbondante olio extravergine di oliva aromatizzato e prezzemolo tritato.
  7. Lasciare riposare l’insalata di riso in frigo almeno 20 minuti prima di servirla.

Insalata di riso greca

Ingredienti

  • 360 g riso
  • 75 g uvetta
  • 75 g pinoli
  • 75 g burro
  • Menta fresca
  • Sale

Preparazione

  1. Mettete a bollire una pentola di acqua leggermente salata.
  2. Sciacquate il riso sotto all’acqua fredda corrente del rubinetto per qualche minuto in modo da eliminare tutto l’amido.
  3. Metti a cuocere il riso in acqua bollente per circa 10 minuti scolatelo e raffreddatelo nuovamente sotto all’acqua fredda.
  4. Scolate il riso, asciugatelo in un canovaccio pulito poi mettetelo in una grande ciotola.
  5. Mettete ad ammollare l’uvetta in acqua tiepida per qualche minuto poi scolatela e asciugartela bene tamponando con carta assorbente.
  6. Fate tostare i pinoli in una padella antiaderente per qualche minuto.
  7. Unite tutto in un’unica ciotola.

Limoni e forzature

When life gives you lemons, make lemonade.

“Quando la vita ti dà dei limoni, fai una limonata.” Questo proverbio anglosassone è un’esortazione al pensiero positivo, al trarre il meglio da tempi difficili e “aspri”. Curioso che il primo a farne tesoro sia proprio l’albero dei limoni, che grazie a una siccità prolungata produce i frutti più pregiati.

Una pianta sempre in fiore

Le varietà coltivate di limoni fioriscono più volte durante l’anno: non è quindi raro vedere un albero che porta contemporaneamente fiori e frutti in diversi stati di maturazione.

In base alla fioritura da cui provengono, i frutti differiranno per aspetto, aroma e caratteristiche organolettiche e per questo motivo, nel reparto ortofrutta, li troviamo con nomi diversi, anche se preovengono dallo stesso albero.

  • Marzani: frutto della fioritura precoce di fine marzo, sono rotondeggianti e maturano a fine settembre.
  • Primofiore: derivano dalla fioritura principale che avviene tra aprile e giugno. I frutti maturano tra fine settembre e marzo.
  • Bianchetti: originano dalla fioritura di giugno e luglio e presentano una buccia chiara. Vengono venduti tra marzo e aprile.
  • Verdelli: molto pregiati, si ottengono solo grazie alla forzatura dei limoni.

La forzatura dei limoni

Come abbiamo già visto per i pomodori Pachino, condizioni di stress possono favorire la fruttificazione di una pianta. Nel caso dei limoni lo stress viene provocato dai coltivatori proprio per ottere i verdelli, inducendo una fioritura tardiva.

Questa pratica, nata in Sicilia, oggi è stata adottata anche in altri Paesi. Consiste nel sospendere le irrigazioni per 30/40 giorni a partire da fine giugno, per poi riprendere solo dopo un’abbondante concimazione ad agosto. L’albero, che nel frattempo avrà iniziato a mostrare segni di sofferenza, sottrarrà energie allo sviluppo di rami e foglie, concentrandole tutte nella fioritura e nella maturazione di frutti fuori stagione, che saranno pronti l’estate successiva.

verdelli, nominati così per il colore della buccia, sono limoni ancora poco conosciuti ma molto pregiati. Costituiscono circa il 30% dei limoni sul mercato tra fine maggio e inizio settembre. Sono ricchi di olii essenziali e questo li rende particolarmente adatti alla peparazione di ricette dolci e salate e liquori.

Se non hai ancora provato questa speciale varietà di limoni, ti suggeriamo di cercarli nel reparto ortofrutta: sei ancora in tempo!

5 benefici della patata dolce

Detta anche “batata”, la patata dolce viene consumata dall’uomo da almeno 8000 anni e coltivata nelle Americhe da 5000. In Italia la coltivazione di questo tubero risale alla metà del XIX secolo, principalmente nel territorio tradizionale di Anguillara Veneta, Padova.

In una classifica sui vegetali più importanti per la nostra salute, l’associazione statunitense Center of Science in the Public Interest (CSPI) ha messo al primo posto proprio la patata dolce. Perché?

  1. Fa bene al cuore e alle arterie: grazie al contenuto di antiossidantivitamineminerali e fibre.
    Inoltre la batata non contiene grassi saturi e colesterolo, e l’elevato contenuto di carboidrati sotto forma di amido riduce l’indice glicemico della patata dolce rispetto ad altre fonti di carboidrati.
  2. Ricca fonte di vitamine: una batata di medie dimensioni, cotta al forno e mangiata con la buccia, contiene oltre quattro volte l’apporto giornaliero raccomandato di vitamina A, importante per la vista, lo sviluppo delle ossa e delle difese immunitarie. Non solo, ma il tubero è anche ricco di vitamina C, che aiuta a combattere le infezioni e assorbire il ferro. Sembra ancora poco? La patata dolce contiene anche vitamina B6vitamina E e vitamina D, fondamentale per la salute di cuorepelle e denti.
  3. Basso indice glicemico: i carboidrati complessi vengono trasformati dal corpo molto più lentamente rispetto a quanto avviene con le patate bianche, impedendo repentini innalzamenti dei livelli di zucchero nel sangue. Per questo sono particolarmente adatte per i diabetici.
  4. Ricca di potassio: la patata dolce batte l’alimento più noto per l’apporto di questo nutriente, ovvero la banana.
    Il potassio è uno degli elettroliti necessari per regolare il battito cardiaco e i segnali nervosi, aiuta le funzioni renali e riduce possibili gonfiori muscolari.
  5. Si può mangiare in mille modi: al forno, in microondebollite, in pentola e anche cruda!

Di stagione: il pompelmo

Tutti gli agrumi provengono dall’Estremo Oriente ma il pompelmo potrebbe fare eccezione, in quanto le sue origini non sono del tutto chiare: come specie è stata isolata alle Barbados e secondo alcuni veniva coltivato in precedenza in Malesia. Come il limone e l’arancio, si tratta di un antico ibrido: un incrocio naturale tra il pumello (altro agrume) e l’arancio dolce.

Dal gusto amaro e deciso, è un frutto che non mette tutti d’accordo. La sua varietà rosa tuttavia è più dolce e risulta maggiormente alla portata di palati delicati come quelli dei bambini.

I maggiori coltivatori del pompelmo sono gli Stati Uniti, nello specifico lo Stato della Florida; in Italia si coltiva soprattutto in Sicilia: nella Piana di Catania e nella Conca d’Oro.

Il frutto è un’ottima fonte di vitamina C ed è quindi un grande amico del sistema immunitario. Combatte inoltre l’infiammazione e protegge la salute cardiovascolare contrastando l’ossidazione del colesterolo. 
Si aggiunge la funzione antiossidante del principio attivo licopene e dei numerosi polifenoli, le qualità delle fibre e della narigerina, un flavonoide che aiuta a riparare il DNA.

L’assunzione del succo di pompelmo promuove migliori livelli nel sangue di glucosio, di insulina e di un tipo di grasso chiamato trigliceride.

Aglio, cipolla e zolfo

Sono circa seicento le specie del genere Allium, ma solo una trentina di queste è usata in cucina. Quelle a noi più familiari sono sicuramente cipolla, aglio, porro, scalogno, cipollotto ed erba cipollina. I botanici ancora non hanno trovato un accordo comune su come classificarle, se nella famiglia delle Liliaceae o in quella delle Amaryllidaceae, ma una cosa è sicura: non sono grandi amiche dell’alito e alcune neppure degli occhi.

Lacrime da cipolla

Le piante sfruttano modi molto diversi per difendersi dai predatori: possono coprirsi di spine, ostentare un aspetto “velenoso”, contenere vere e proprie tossine, puzzare, urticare al contatto o… Irritare gli occhi. Non ci vuole un grande intuito per capire che la cipolla ha scelto quest’ultimo stratagemma: basta attentare all’integrità del bulbo per rendersene conto.

L’effetto lacrimogeno è dovuto a una molecola, l’isoalliina, che viene trasformata da alcuni enzimi nel momento in cui tagliamo il nostro ortaggio. Il composto risultante, chiamato “fattore lacrimogeno“, viaggerà nell’aria raggiungendo i nostri occhi indifesi. Altre molecole contenenti zolfo conferiscono alla cipolla tagliata il caratteristico odore pungente, che muta quando poi la sottoponiamo alla cottura, perdendo di intensità.
Il livello di “pungenza” dipende quindi dalla quantità di queste molecole: le cipolle di Tropea, contenendone di meno, sono quelle normalmente più apprezzate per il consumo a crudo, grazie alla fortunata combinazione tra la genetica e il terreno povero di zolfoin cui crescono. Questo secondo fattore determina anche l’importanza del marchio IGP.

Come difendersi?

Il fattore lacrimogeno delle cipolle è volatile, perciò raggiunge facilmente i nostri occhi anche se bagniamo il tagliere, il coltello o la cipolla stessa. Inutili il bicchiere d’acqua vicino al tagliere o altri fantasiosi “rimedi della nonna” che non proteggono direttamente gli occhi: usare degli occhiali, meglio ancora degli occhialini da piscina, è sicuramente più efficace.

Alito d’aglio

Il meccanismo alla base dell’odore dell’aglio non è molto diverso: nella cipolla è l’isoalliina, nell’aglio è l’alliina a trasformarsi quando tagliamo o schiacciamo lo spicchio. Gli enzimi la trasformano in allicina, che a sua volta darà origine a composti contenenti zolfo che avrebbero un intento deterrente per un predatore. Se il predatore, come noi, è testardo, una volta ingeriti saranno espulsi tramite il respiro, il sudore e le urine.

Oltre a usare un buon deodorante e spazzolare bene denti e lingua, non c’è molto che possiamo fare: l’alito rimarrà comunque “aglioso” per un po’, anche consumando un’intera bottiglia di coluttorio. Sembra però che per coprire l’odore siano efficaci gli ortaggi ricchi di clorofilla, come gli spinaci e il prezzemolo, il latte intero e le mele. Il meccanismo non è ancora chiaro ed è tutto da dimostrare, ma… Tentar non nuoce!

Donne e birra: basta stereotipi!

Melissa Cole è una nota beer writer (scrittrice di birra) britannica che ha detto “basta!”, denunciando il diffuso sessismo che regna sul mondo della birra. Melissa ha affermato che nel suo Paese la figura femminile viene associata alla bevanda sempre in modo denigratorio e volgare, sia nell’immaginario collettivo che in alcune promozioni di etichette. La conferma delle sue parole è arrivata nel 2019 dalla Stanford University, con lo studio Gender Inequality in Product Markets: When and How Status Beliefs Transfer to Products. La ricerca mostra come prodotti considerati maschili – la birra, ma anche attrezzi per la casa o parti di automobile – siano considerati di minor valore se a fabbricarli sono donne.

Se lo studio in questione non fosse stato condotto, nessun problema: basterebbe già la storia a sfatare questi pregiudizi. Ma bisogna conoscerla.

Nella storia

Fin dai tempi della Mesopotamia la birra è stata legata all’universo femminile: erano proprio le donne a produrla, basti pensare che nel corredo di ogni sposa erano inclusi gli strumenti e gli ingredienti per prepararla. La birra poi è per sua natura legata alle messi, alla fertilità della terra. Non è un caso quindi che molte divinità legate alla birra fossero femminili: i sumeri adoravano Ninkasi, unica figura sacra associata a una professione, mentre gli Egizi consideravano Hathorla dea dell’arte brassicola.

La birra e le bevande fermentate sono state fondamentali anche per moltissime civiltà africane. Gli Zulu, ad esempio, consideravano Mbana Mwana Waresa la loro divinità della birra, dea anche dell’agricoltura e del raccolto.

Il nome latino della birracerevisia, deriva dalla dea Cerere, venerata dagli Antichi romani.

Andando avanti nel tempo, quando nel medioevo la produzione della birra fiorì nei monasteri, non bisogna dimenticare che anche quelli femminili erano attivi in questo senso. La protagonista medioevale fu Hildegarda von Bingen, una monaca mai doma, controcorrente e anticonformista, che nell’ultima parte della sua vita, dopo aver fondato il monastero di Eibingen, si dedicò anche ad attività divulgative attraverso alcuni viaggi in altre comunità pastorali.Gli studi che la resero famosa risalgono alla seconda metà del 1100 e sono raccolti nel libro Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, grazie al quale il mondo della birra scoprì il luppolo. La monaca ne studio le proprietà stabilizzanti e conservanti e da quel momento il luppolo è diventato uno degli ingredienti più importanti nella produzione di birra.

Nel 2012 Hildegarda è stata dichiarata Dottore della Chiesa da Benedetto XVI. Un birrificio italiano, “La Badia”, le ha dedicato una birra dal nome “Ildegarda”; anche in Canada la Driftwood Brewery ha omaggiato la monaca con la birra Naughty Hildegard.

Ancora in età moderna, nel 1700, circa l’80% delle licenze di birraio era in mano a donne, le cosiddette alewives.

Con l’industrializzazione si è sviluppato quell’atteggiamento denunciato da Melissa Cole.

Negli Stati Uniti alla fine degli anni ’90 grazie alla costante crescita della birra artigianale anche le donne sono tornate a fare la birra, nonostante tutte le superstizioni ancora esistenti. Oggi l’associazione della “Pink Boots Society” riunisce negli Stati Uniti più di 2500 donne che lavorano nel settore.

Una curiosa ricerca

Un team di ricercatori della Sahlgrenska Academy, Università di Goteborg, ha coinvolto 1.500 donne in uno studio atto a dimostrare in che modo le quantità di bevande ingerite influiscono su una serie di patologie: infarto, ictus, diabete e cancro. Sono stati analizzati i dati raccolti dal 1968 al 2000, quando le volontarie avevano tra 70 e 92 anni. Nell’arco di 32 anni, 185 donne hanno avuto un infarto, 162 un ictus, 160 si sono ammalate di diabete e 345 di cancro.

Secondo la ricerca, le donne che bevono birra in modo moderato, sarebbero più protette dal rischio infarto rispetto alle altre.

“Precedenti ricerche suggerivano che l’alcol in quantità moderata può avere un effetto protettivo” ha spiegato Dominique Hange, fra gli autori del lavoro. “I nostri risultati tengono conto di altri fattori di rischio cardiovascolare, ma allo stesso tempo non possiamo confermare che il consumo moderato di vino abbia lo stesso effetto. Insomma, i nostri risultati devono essere confermati da studi di follow up”, ha concluso l’esperto.

In Italia

Le donne italiane sono prime al mondo per apprezzamento della birra. È ciò che afferma la ricerca “Gli italiani e la birra”, commissionata da AssoBirra ad AstraRicerche.

È emerso che Il 70% delle donne italiane consuma birra, il 30% delle quali lo fa almeno due volte a settimana.

Tra queste, il 58% dice di amare la birra per il suo sapore, il 48% per la sua capacità di abbinarsi ai cibi, il 37% per il suo ruolo “socializzante” nelle serate con gli amici.

La ricerca è entrata nei dettagli fornendo indicazioni anche sul tipo di birra preferito da signore e signorine: un 55% preferirebbe un sapore leggero, l’80% una bassa gradazione alcolica, mentre il 39% delle donne apprezza le birre molto frizzanti.

Francesca Torri, una delle prime birraie italiane, ha raccontato: “ho aperto Mostodolce a Prato nel 2003. A quei tempi era una scelta da pazzi anche perché erano gli albori di tutto il movimento artigianale. Oggi sono in tanti a conoscere i nostri prodotti, ma ricordo che durante i primi eventi ai quali partecipavo, i clienti si avvicinavano al bancone e quando capivano che le birre erano prodotte da me si allontanavano senza nemmeno assaggiare”.

La seconda testimonianza, quella di Cecilia Scisciani, dimostra che le cose sono cambiate: “soprattutto quando si è ai festival di settore nessuno si pone in modo diverso a seconda che la birra sia stata prodotta da me o da Matteo, il mio socio.”

Anche in Italia, come in America, esiste un’associazione composta da sole donne birraie: si chiama “le Donne della Birra”, è stata fondata a Genova nel 2015 e conta più di 100 socie.

E in gravidanza?

Presso i coloni americani era d’uso, quando una donna rimaneva incinta, produrre la groaning beer (la “birra del lamento”), che sarebbe stata pronta per l’appunto nove mesi dopo.

Ciò che ci chiediamo è: si può bere birra durante questi nove mesi?

Sono stati condotti pochi studi sul consumo leggero di alcol in gravidanza, al contrario di quanto è stato fatto sul bere più regolarmente: ci sono abbondanti ricerche che sostengonoquanto “l’azione tossica dell’alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico ed intellettivo del feto provocando malformazioni e ritardo mentale più o meno gravi a seconda dei livelli di consumo”.

Beve in gravidanza fino all’80% delle donne incinte nel Regno Unito, Irlanda, Nuova Zelanda e Australia. In Italia, sulla base di stime dell’Istituto superiore di sanità diffuse in occasione della “giornata della sindrome feto-alcolica 2016”, le future madri che non rinunciano completamente a piccole quantità di alcol, o che continuano addirittura a comportarsi come al solito, sarebbero circa il 50 %.

Uno studio condotto da Epidemiologi dell’Università di Bristol, ha esaminato i risultati di 26 studi, per capire quanto il consumo di basse quantità di alcol incidesse sulla salute del feto. I ricercatori in questo caso non sono riusciti a dare delle risposte certe, a causa dell’insufficiente materiale a disposizione.

Si sono così limitati a consigliare: “Sebbene sulla base delle prove attuali definire orientamenti sia difficile, l’opzione più sicura per le future madri è non bere alcool in gravidanza, anche perché ‘l’assenza di prove non è prova di assenza’”. E hanno concluso: “Le donne dovrebbero sapere che non abbiamo ad oggi prove che esista un livello di bere che sia sicuro.”

Pioggia di birra o birra di pioggia?

Non si può uscire senza ombrello, ma tanto ci si bagna lo stesso. Il cielo è grigio e l’umore nero, i parchi fangosi e i portici affollati. Quando si parla di pioggia, come si fa a dire che “non tutto il male viene per nuocere”?

Semplice, pensi alla birra.

Non è proprio la bevanda che si ricerca in una giornata del genere. Ma se ti dicessero che una giornata del genere è ciò che ci vuole per produrre una bella birra fresca, che magari gusterai domani quando ci sarà il sole?

L’acqua del paradiso

Hemelswater”, acqua del paradiso: la birra che nasce dalla pioggia. L’ha inventata Joris Hoebe, trentasette anni all’inizio del progetto (2016), insieme a Thomas Jenkis, ricercatore di MediaLa Amsterdam e un gruppo di quattro studenti della facoltà di Scienze Applicate.

L’esperimento è iniziato proprio nella sede dell’Università della capitale olandese, precisamente in cortile. A maggio sulla città è scesa un’enorme quantità di pioggia: 1000 litri sono stati raccolti dalle cisterne installate dai ricercatori. Tramite un sistema di filtraggio batterico, l’acqua piovana è stata purificata e inviata alla birreria che ha sposato il bizzarro obiettivo: la birreria sociale De Prael.

Hoebe e colleghi hanno preso spunto da uno slogan lanciato dalle istituzioni cittadine: Amsterdam Rainproof (letteralmente Amsterdam impermeabile), che aveva l’obiettivo di sensibilizzare i cittadini sul tema del riassorbimento dell’acqua piovana, al fine di evitare pericolose inondazioni. I giovani ambiziosi hanno allora deciso di unire l’utile al dilettevole.

L’acqua del paradiso è una birra dal gusto soft e fruttato, con gradazione alcolica di circa 5.7 gradi. Tanti bar, pub e ristoranti di Amsterdam l’hanno messa in vendita a prezzi decisamente accessibili (nel 2016 si trovava a 2 euro la bottiglia, 4 euro la pinta).

“I problemi più gravi semmai sono quelli legati all’acqua potabile e alla presenza in essa di farmaci ed ormoni. Crediamo che con l’acqua piovana si riesca a fare una birra ancora più sana rispetto a quella prodotta con l’acqua potabile”. Questa è la risposta di Joris Hoebe agli scettici, che si interrogavano sull’effettiva purificazione dell’acqua.

Passato e futuro

Di sicuro i macchinari utilizzati, la sicurezza di tutto il processo e la velocità con cui si può ricavare birra dalla pioggia sono diversi, ma l’idea non è del tutto nuova. I monaci medievali raccoglievano l’acqua piovana che scendeva dai tetti delle chiese per produrre “la bevanda della gente comune”.

I giovani ambiziosi non hanno intenzione di fermarsi: l’obiettivo è quello di produrre sorbetti e limonate, chiaramente per la stagione estiva, sfruttando le frequenti precipitazioni olandesi. “Potremmo dotare le cisterne di appositi sensori in grado di segnalare quando sono piene, per poi effettuare la raccolta dell’acqua con auto elettriche. Non solo birra, ma anche sorbetti, limonate, e molto altro si potrebbe preparare con la pioggia” hanno detto gli inventori.

Complimenti, e buona fortuna!

L’Oktoberfest

È la festa che tutti gli amanti della birra aspettano ogni anno. È il periodo in cui milioni di turisti stranieri si riversano nelle strade di Monaco di Baviera per gustare la bevanda simbolo della Germania. È l’Oktoberfest, una manifestazione che ha da poco superato i due secoli di vita e non ha intenzione di fermarsi…Tranne per quest’anno.

Torniamo alle origini.

Le origini

Un matrimonio, quello tra il principe ereditario bavarese Ludwig e Therese von Sachsen-Hildburghausen di Sassonia, è la ricorrenza che, inconsapevolmente, diede inizio al magnifico Oktoberfest.

A pochi passi dalla città di Monaco vennero organizzati i festeggiamenti per le nozze, che si protrassero per quasi una settimana. Per il quinto e ultimo giorno di festa fu programmata una corsa di cavalli, alla quale partecipò la famiglia reale al completo, e fu così occasione d’incontro per tutti i cittadini della Baviera.

L’evento ebbe un tale successo da spingere, l’anno successivo, le istituzioni a riproporlo, dando vita ufficialmente alla grande festa che oggi conosciamo.

La prima location, nel 1810, era un vasto prato verde, in tedesco Weise. In onore della sposa venne rinominato Theresienwise: da allora è questo il nome dell’area in cui si svolge l’Oktoberfest.

Nei primi anni la festa consisteva sostanzialmente in diversi punti vendita di prodotti dell’agricoltura bavarese. L’attrazione principale rimaneva la corsa di cavalli. Nel 1818 vennero installate le prime giostre. L’icona dell’Oktoberfest, la statua della Baviera, prese posto nella Theresienwise solo nel 1850. L’ultima novità del XIX secolo si ebbe nel 1896, quando i produttori di birra unirono le forze per sostituire le vecchie baracche in legno (nelle quali si vendevano cibo e birra) con dei grandi tendoni, quelli che ancora oggi occupano tutta l’area, dando all’originale “prato” le sembianze di un gigantesco Luna Park.

Oggi

I bavaresi sono estremamente orgogliosi della propria cultura e di conseguenza attaccati alle proprie tradizioni. È per tale motivo che durante l’Oktoberfest gli abitanti della regione indossano lo Schutzen, l’abito tradizionale bavarese. Nessuna paura, sono fieri della loro identità ma non pretendono che il turista si adegui: ci si può vestire come meglio si crede.

Concentrandoci sulla birra e rimarcando il forte senso di appartenenza degli abitanti della zona, bisogna sapere che sono solo 6 le storiche birre che possono essere prodotte e vendute in occasione dell’Oktoberfest. Il motivo risiede nel “Reinheitsgebot”, il Decreto di Purezza della birra emanato da Guglielmo IV di Baviera nel 1516.Il rispetto rigoroso del decreto è portato avanti, ormai da cinque secoli, dalle “Sei sorelle di Monaco”, le birre: PaulanerLöwenbräuHofbräuSpatenHacker PschorrAugustiner.

Oggi per i festeggiamenti vengono utilizzati 21 enormi capannoni e 14 tendoni leggermente più piccoli, per un totale di circa 100 mila posti a sedere. Chi ha partecipato all’Oktoberfest racconta che spostandosi da un locale all’altro si ha la sensazione di catapultarsi in piccoli mondi, ognuno diverso dall’altro. Unica parola d’ordine, ovviamente, è birra

L’origine del nome è stata già chiarita, ma quel “Oktober” potrebbe causare fraintendimenti. La tradizionale festa infatti si svolge durante le ultime due settimane di settembre e si conclude nella prima settimana di Ottobre. Ciò è dovuto a uno spostamento di date voluto dalle autorità, con l’obiettivo di sfruttare il clima mite di fine settembre, per permettere agli ospiti di visitare la bellissima città di Monaco a temperature accettabili, magari accompagnati dall’ultimo sole estivo.

Quest’anno la Baviera dovrà fermarsi per la prima volta e rinunciare ai festeggiamenti, ma sono già aperte le prenotazioni per il 2021: dal 18 settembre al 3 ottobre, Monaco sarà pronta a far scorrere fiumi di birra, rigorosamente pura!

Fare la birra in casa

Uno studio della facoltà diEconomia dell’Università di Milano Bicocca ha rivelato un aumento del 400% in 10 anni della produzione di birra artigianale in Italia. Si è passati infatti dai 132 micro birrifici attivi nel 2005 ai 670 del 2015.

I dati dimostrano non solo il gradimento della bevanda da parte dei nostri concittadini, ma anche una forte vocazione alla produzione fai-da-te, sia per semplice divertimento, sia per intraprendere un percorso che mira all’apertura di un’attività commerciale.

Vediamo allora quali sono le tecniche di produzione e i relativi passaggi da seguire.

I kit

Il mercato offre diverse possibilità per chi intende avventurarsi nella produzione casalinga.

Un kit “base” comprende solitamente un fermentatore di plastica, una pentola capiente, un barattolo di estratto di malto, un termometro adesivo, un densimetro, un gorgogliatore, un sanitizzante e un tappa bottiglie. Ha un costo che va dagli 80 ai 100€ inclusi gli ingredienti, arrivando a produrre circa 25 litri di birra. Lo spazio necessario non è un ostacolo: basteranno i fornelli di casa e un luogo in cui riporre il fermentatore, che non deve essere esposto al sole e deve rimanere a una temperatura non inferiore ai 17 gradi.

Chi invece ha meno tempo e pazienza a disposizione può utilizzare una beer machine, una macchina da birra di piccole dimensioni (circa 50 centimetri in altezza, larghezza e profondità). I prezzi in questo caso crescono leggermente e si potranno produrre intorno ai 10 litri per ogni processo. Tutto ciò che il birraio deve fare è: versare il liquido in dotazione nel macchinario, aggiungere la quantità di acqua indicata nel libretto delle istruzioni e attendere una decina di giorni.

L’ultimo step per gli artigiani della birra si chiama invece all-grain e necessita di ulteriore attrezzatura rispetto al kit base: chiaramente il prodotto finale risulterà più qualitativo. Ci sarà bisogno di: un mulino per macinare il malto, un sistema di filtraggio per i grani, un sistema di raffreddamento del mosto e una boccetta di tintura di iodio per controllare il PH del liquido.

Le procedure

Premettendo che gli ingredienti si acquisteranno già pronti per l’utilizzo, il procedimento si compone di 3 fasi principali: produzione del mosto, fermentazione e rifermentazione in bottiglia.

Prima di tutto il malto d’orzo macinato deve essere versato all’interno di una pentola contenente acqua (circa 15 litri) a 60-70°. Dopo circa un’ora si dovrà filtrare la parte solida (principalmente composta da bucce di chicchi d’orzo), che sarà mischiata al luppolo (responsabile del gusto amaro) e portato ad ebollizione. Trascorsa un’altra ora il mosto ottenuto dovrà essere riportato a temperatura ambiente e sarà pronto all’ingresso nel fermentatore.

Il responsabile della fermentazione è il lievito, perciò verrà inserito quello desiderato in base alla birra che si vuole ottenere e inizieranno i processi biochimici necessari. Bisogna mantenere una temperatura costante (che dipende dalla temperatura ideale per il ceppo di lievito prescelto) per circa 5-7 giorni. A quel punto la fermentazione alcolica sarà terminata e il lievito si “addormenterà” sul fondo del fermentatore.

Finita la fermentazione, si passerà alla fase dell’imbottigliamento: versare il liquido ottenuto in un recipiente contenente 300 ml d’acqua bollente, avendo cura di lasciare nel fermentatore i residui che si sono depositati sul fondo. Quando il nuovo mosto si sarà raffreddato, bisognerà aggiungere circa 150 grammi di zucchero nel nuovo contenitore.

Da qui si potrà traferire la bevanda direttamente in bottiglia, dove inizierà la seconda fase della fermentazione: bisogna tenere le bottiglie in un luogo buio a circa 20-24° per due settimane. Trascorso questo tempo, si possono trasportare le bottiglie in un luogo più fresco (17° circa), lasciandole in verticale per altre due settimane almeno.

A un mese dall’imbottigliamento la birraè pronta da bere, ma bisogna tenere presente che una maturazione più lunga migliora di parecchio il prodotto. Per alcune birre molto alcoliche si può arrivare anche a diversi mesi.

Partendo da zero il processo non è per nulla banale: è sempre meglio, inizialmente, farsi aiutare da chi ha già un minimo di esperienza. Provare non costa nulla, o meglio, ha una spesa sostenibile che potrebbe rivelarsi un investimento. È di certo un bel modo di mettersi alla prova e un hobby che richiede precisione e cura dei dettagli, ma che alla fine può regalare una bella e fresca soddisfazione!

Il London Beer Flood

London Beer Flood, letteralmente “Inondazione di birra della città di Londra”.

Esattamente 206 anni fa la capitale britannica fu luogo di un evento che, a sentirne parlare, potrebbe sembrare uno “scherzo” da parco divertimenti. In realtà fu una vera e propria tragedia.

Al birrificio Meux’s Brewery Co Ltd, situato nella via principale del quartiere Tottenham, la Tottenham Court Road, una cisterna contenente 610mila litri di birra esplose per cause non accertate. Lo scoppio coinvolse anche altri fusti: il 16 ottobre 1814 1 milione e 470mila litri di birra inondarono il quartiere.

Il bilancio delle vittime

A farne le spese fu il piccolo sobborgo St Giles, dove morirono annegate nove persone. Il bilancio avrebbe potuto essere ben peggiore, visto che nel birrificio c’erano tini molto più capienti di quelli coinvolti nell’incidente. Al momento dell’esplosione inoltre molte abitazioni erano vuote, fortunatamente. Tante persone furono tratte in salvo con enormi difficoltà, mentre i motivi principali di decesso furono l’annegamento e i traumi legati allo scontro con il muro di birra, alto 15 metri.

Il tipo di birra era la più famosa del Paese all’epoca, la Porter. I birrai la lavoravano in cisterne così grandi per evitare l’ossidazione e perché sostenevano che affinasse perfettamente il gusto della bevanda.

Nessun responsabile

Il Meux’s Brewery fu chiaramente citato in giudizio come responsabile dell’accaduto.

Il giudice archiviò il caso come un Act of God, un atto divino, imprevedibile: nessuno era responsabile.

L’azienda perse circa 7000 sterline, ma riuscì a rialzarsi: è rimasta in vita per un altro secolo, fino alla chiusura e conseguente demolizione dell’edificio nel 1922.

Oggi al posto del birrificio si trova il Dominion Theatre, e un pub della zona, l’Holborn Whippetbar, il 16 ottobre di ogni anno commemora la tragedia servendo ai londinesi caldarroste e birre di diverse varietà: al duecentesimo anniversario ad esempio ne sono state prodotte appositamente tre.