6 cose che rendono gli alberi più umani (e viceversa!)

Parla come gli alberi

Nell’originale racconto di Peter Wohlleben, La saggezza degli alberi, si parla del modo in cui anche questi esseri viventi siano in grado di comunicare, dando prova di avere un carattere proprio. La loro lingua non è chiaramente la nostra, ma alberi come betulle e faggi comunicano con gli altri arbusti in base alla propria indole: una più rissosa e irascibile, l’altra più mite e protettiva.

La betulla viene descritta da Wohlleben come un albero litigioso, i cui lunghi rami possono recidere quelli degli alberi vicini se spostati dal vento. Il faggio invece è definito il re del bosco che, lasciando cadere le proprie foglie, crea un tappeto che il terreno assorbe e trasforma in humus, utile alla crescita di altre specie.

Cure a portata di ramo

Ti sarà capitato di vedere un ramo reciso o di raccogliere un frutto e notare l’immediata fuoriuscita di un liquido viscoso. Quella è la resina, sostanza prodotta dallo stesso albero per curare le proprie ferite, guarire e addirittura rigenerare la parte mancante.

Quando la sete chiama…

Ce lo spiega la University of Western Australia tramite uno studio che dimostra come tutte le piante (come la comune pianta di pisello utilizzata) siano in grado di riconoscere e seguire il suono dell’acqua che scorre nelle falde del terreno. Ecco che le radici dell’albero crescono e si sviluppano in profondità fino a trovare la fonte d’acqua o, meglio ancora, il modo migliore per attingervi!

La loro forza è il loro respiro

Sottrattori naturali di CO2: ecco come vengono descritti gli alberi da scienziati e ricercatori, da sempre dipinti come alleati dell’uomo nella riduzione delle emissioni e nella lotta al riscaldamento globale. Sapevate che un cittadino italiano produce annualmente circa 5000kg di CO2? Un solo albero, durante la sua vita, riesce a sottrarne e convertirne circa un settimo. Risulta dunque che piantare 7 nuovi alberi l’anno potrebbe davvero fare la differenza! (dati tratti da www.wownature.eu)

Dormire come un ciocco

Ebbene sì, anche gli alberi dormono! Già Darwin l’aveva notato con alcuni tipi di fiori, ma stavolta un gruppo di ricercatori da Austria, Finlandia e Ungheria ha dimostrato come tanti alberi modifichino la pendenza di chiome e rami durante le ore notturne, per riacquistare poi vigore e altezza al sorgere del sole.

50 sfumature d’autunno

L’albero è una creatura che nasce, cresce, si sviluppa e si trasforma con l’andamento delle stagioni. Si adatta al clima che cambia, alle temperature che si abbassano, e non perde occasione per mostrarcelo! Le foglie sono anche ricche di carotenoidi, pigmenti chimici che rendono arancioni le carote o giallo il mais. Quando nei mesi autunnali le foglie stanno per giungere alla fine del loro ciclo di vita, il quantitativo di clorofilla (pigmento che cattura la luce solare) diminuisce e lascia emergere questi pigmenti giallo-arancioni che, normalmente, sono nascosti dal tipico verde vivido delle foglie.

Maledette cimici

D’accordo, il fastidio che ci provocano le zanzare non è assolutamente paragonabile, ma quanto è odioso l’insetto che prende il suo posto sul finire della bella stagione? 

Se per noi non è nocivo (non punge e non veicola malattie per l’uomo), al massimo fastidioso per il ronzio che produce e per l’odore, i veri nemici delle cimici sono gli agricoltori, assai più penalizzati dalla loro presenza.

La cimice del pomodoro

Chiariamo subito questo aspetto: emana lo sgradevole odore che tutti conosciamo perché la sua unica arma di difesa consiste in delle ghiandole odorifere, che hanno uno sbocco verso l’esterno. Queste ghiandole contengono sostanze volatili ad azione repellente che vengono “liberate” nel momento in cui l’insetto si sente minacciato: il superpotere peggiore del mondo.

Esistono diverse specie di cimice in natura, oggi ci concentreremo sulla più diffuso in Italia, la Nezara Viridula (tipica cimice verde), e sulla Halyomorpha halys (la cimice asiatica), il nuovo incubo degli agricoltori europei.

La prima è anche detta “cimice del pomodoro” poiché è particolarmente attratta dall’ortaggio rosso. Si nutre della linfa della pianta, praticando delle punture che, oltre a rovinare i frutti e far seccare la foglia, possono veicolare malattie dannose per il raccolto. I danni maggiori li provocano soprattutto sulle piante da frutto, ma anche alle crucifere portano grossi fastidi.

La cimice si muove durante il giorno, restando praticamente immobile nelle ore notturne. Nel periodo estivo le femmine depongono le uova, solitamente sulle foglie delle piante; la schiusa avviene dopo 20 giorni, dando alla luce circa una trentina nuovi esemplari. Se hai un orto, in giardino o sul balcone, esamina regolarmente le tue piante per eliminare eventuali uova: la prevenzione è la miglior difesa.

Come tenerle alla larga

L’opzione più rapida per evitare che invadano le case è acquistare una zanzariera.

Per allontanarle dalle piante, invece, si può nebulizzare del sapone di Marsiglia sciolto in acqua, che le uccide per soffocamento e non è pericoloso per l’ambiente e i frutti. Esistono anche trappole a base di feromoni di aggregazione.

La devastatrice asiatica

Coldiretti rivela: 740 milioni di euro di danni complessivi per il frutteto Italia a causa della Haylomorpha halys, di cui 280 in Emilia, 160 in Veneto, mentre Lombardia, Trentino e Liguria hanno avuto una ricaduta economica negativa più accettabile.

L’insetto, detto “asiatico” perché originario di Cina, Giappone e Taiwan, fece il suo ingresso nel 1998 negli Stati Uniti a causa, si dice, di un errore. Per lo stesso motivo nel 2012 la presenza della prima “colonia” è stata registrata nel modenese e da quel momento si è diffusa in tutta Europa provocando ingenti danni.

Il 18 giugno di quest’anno, in seguito a uno studio durato 3 anni, è iniziata ufficialmente la vendetta degli agricoltori, tramite il lavoro coordinato di CREA (Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria) e FEM (Fondazione Edmund Mach, Trento). La soluzione è arrivata dalla natura, in particolare da un altro insetto chiamato vespa samurai, proveniente dalle stesse zone di origine della cimice. È l’unico predatore naturale della devastatrice di raccolti, così i ricercatori hanno dato vita allo SWAT (Samurai Wasps Action Team), liberando, nelle zone in cui si è registrata una massiccia presenza di cimice asiatica, qualche migliaio di femmine rilasciate a gruppi di un centinaio, a intervalli di una ventina di giorni. La vespa, di dimensioni minuscole (circa 2 mm), è innocua per l’uomo (a differenza di altre specie), e parassita le uova della cimice iniettando al loro interno le proprie uova.

I risultati si vedranno nei prossimi anni, poiché la Haylomorpha halys ha la capacità di depositare fino a 500 uova, con tempistiche di incubazione di circa 50 giorni. Dal 2012 a oggi in sostanza, vivono nell’Unione Europea un numero impressionanti di questa specie.

La partita è iniziata, il mondo intero fa il tifo per le “mini vespe”. Ce la faranno le nostre eroine?

La frutta secca fa bene o fa male?

C’è chi la considera uno strappo alla regola da concedersi solo a Natale, chi invece svuota la ciotolina delle arachidi ad ogni aperitivo perché “tanto fanno bene”. Ma allora la frutta secca fa bene o fa male?

La prima cosa da fare è smettere di incastonare interi gruppi di alimenti in definizioni categoriche e assolute. Non esistono cibi che “fanno ingrassare” o che “fanno male” di per sé: ogni alimento contiene un insieme di nutrienti che, sommandosi a tutte le altre componenti della nostra dieta, possono influire sul nostro bilancio calorico. A fare la differenza saranno poi il nostro stato di salute e il nostro stile di vita nel complesso.

Fatta questa doverosa premessa, possiamo approfondire le proprietà della frutta secca e capire come inserirla correttamente nella nostra dieta.

Secca o essiccata?

Anche se spesso vengono consumate e vendute insieme, la frutta “secca” e quella “essiccata” sono molto diverse.

Con la prima si intende la frutta a guscio come noci, nocciole, mandorle, pinoli, arachidi, pistacchi, castagne e noci di cocco. Tutti questi alimenti hanno un altissimo contenuto di grassi, in buona parteinsaturi e polinsaturi (soprattutto omega 3 e omega 6). Essi contribuiscono ad abbassare il livello di colesterolo nel sangue, perciò l’assunzione di tale tipo di grassi riduce il rischio di malattie cardiovascolari.La frutta a guscio è anche ricca di proteine (circa il 13%), vitamina B ed Esali minerali (magnesio, potassio, calcio, ferro) e fibre. Come i grassi saturi, però, anche i grassi della frutta secca apportano 9kcal per grammo: vanno quindi consumati con moderazione.

Datteri, fichi, albicocche e prugne essiccate e uva passa fanno invece parte della frutta secca polposa, o frutta essiccata: conservano i minerali e una parte delle vitamine del frutto fresco, ma anche le sue calorie. Data la diminuzione di volume tra il frutto “idratato” e quello essiccato, è più facile eccederne con il consumo, dimenticando che gli zuccheri sono gli stessi e, anzi, talvolta vi vengono aggiunti. Se il nostro obiettivo è quello di perdere peso massimizzando il senso di sazietà, è meglio optare per la frutta fresca, più voluminosa a parità di zuccheri.

Consigli e quantità ideali

Si chiama Dottoremaeveroche il sito che la Federazione nazionale dei medici ha deciso di mettere online per contrastare la diffusione delle bufale in medicina.Anche i nostri esperti confermano le proprietà benefiche della frutta secca, soprattutto a guscio, ma ci invitano a un consumo parsimonioso.

Secondo i professionisti l’ideale per un individuo attivo sarebbe assumere intorno ai 20-30 grammi giornalieri di frutta secca, inserendola magari a colazione e negli spuntini. Occhio all’aperitivo: quella proposta dal bar è quasi sempre frutta secca tostata e salata, più ricca sia in grassi che in sodio. Una manciatina di arachidi con lo spritz salate si può spizzicare, certo, ma meglio non farne un’abitudine quotidiana (come d’altronde non dovrebbe esserlo il consumo di cocktail e superalcolici).

La frutta secca è poi sconsigliata a chi soffre di patologie dell’apparato digerente, quali colite, gastrite, ulcera ecc., a causa della grande quantità di fibre in essa contenuta. I diabetici, coloro che presentano problemi renali e le persone che seguono una dieta ipocalorica, devono limitare soprattutto la frutta secca polposa per il suo alto apporto di zuccheri.

Per chi gode di buona salute va comunque ricordato che, per godere al meglio dei benefici di qualsiasi alimento, questo va inserito in una dieta varia, accompagnata da uno stile di vita attivo.

L’importanza dell’idratazione

La calda stagione è ormai alle spalle, ma l’argomento che affronteremo oggi è di fondamentale importanza per la nostra salute durante tutto l’arco dell’anno. Idratarsi risulta infatti un’azione quasi meccanica della quotidianità, perciò si tende a non approfondire i rischi derivanti dalla disidratazione.

Cosa significa idratazione

L’idratazioneè quel processo chimico che consente all’organismo di ricevere l’acqua necessaria per svolgere le normali funzioni fisiologiche. Considerato che l’acqua rappresenta circa dal 55 al 70% del peso corporeo, l’idratazione è fondamentale per la nostra salute. Quando il bilancio idrico nell’organismo è negativo, ovvero il consumo di acqua è maggiore rispetto all’acqua introdotta, il corpo inizia a funzionare male.

Una corretta idratazione è in gradodi regolare la temperatura corporea, disupportare il metabolismo, favorisce lo smaltimento delle tossine e contribuisce a mantenere lacorretta elasticità e tonicità dei muscoli e delle articolazioni.
Quando siamo ben idratati ancheil nostro intestino ci ringrazia: l’acqua, insieme alla fibra, è ideale per combattere la stitichezza.

È opinione comune che sia necessario bere almeno otto bicchieri d’acqua al giorno, ma in verità non esiste un numero magico che stabilisca la quantità di liquidi che andrebbero assunti durante la giornata. Il bisogno varia da persona a persona, in base all’attività fisica, alla sudorazione e al clima.

L’idratazione nel cervello e per il cervello

In un lavoro del 2016, gli scienziati dell’Università di San Francisco (California) stabilirono che cellule sensoriali specializzate nella bocca e nella gola sono in grado di soddisfare i neuroni dell’ipotalamo responsabili della sensazione di sete, non appena afferriamo una bevanda ghiacciata: molto prima che il drink arrivi nel sangue.Tuttavia un bicchiere di acqua di mare ghiacciata attiverebbe gli stessi recettori.

Come fa l’ipotalamo a sapere, esattamente, se quella bevanda ci idraterà?

Lo stesso gruppo di scienziati ha monitorato attraverso fibre ottiche l’attività dell’ipotalamo di topi che bevevano acqua salata. I neuroni della sete si sonodisattivatiai primi sorsi, ma sono tornati in attività poco dopo. In seguito gli studiosi hanno infuso liquidi direttamente nello stomaco dei roditori, mentre monitoravano l’ipotalamo. Le infusioni di acqua potabile hanno calmato i neuroni della sete, ma quelle di acqua salata li hanno lasciati attivi.

In sostanza il nostro cervello si affida alle cellule di bocca e gola in un primo momento, ma poi chiede conferma a un’altra serie di cellule, situate probabilmente nella zona dell’intestino tenue, per essere sicuro che il liquido sia idratante.

A questo punto ci si chiede: una cattiva idratazione è pericolosa per il cervello? Uno studio condotto dalWeill Cornell Medical College’s Brain and Mind Research Instituite di New York, sostiene di sì.

Secondo gli esperti, una perdita di acqua corrispondente al 5% del peso corporeo, può portare conseguenze sull’attività neurale e le prestazioni cognitive. Ne risentirebbero particolarmente la memoria a breve termine, la capacità di attenzione e il tempo di reazione agli stimoli.Inoltre, periodi di disidratazione prolungata influirebbe negativamente sulla capacità di organizzare il lavoro e sull’elaborazione di concetti complessi.

Per gli sportivi

L’acqua è un elemento fondamentale per lo sportivo, in particolare se pratica attività di lunga durata che, per lo più, si svolgono in un ambiente che determina sudorazione abbondante. Ma questa considerazione va tenuta presente anche nel periodo invernale. In qualsiasi stagione è importantissimo per l’atleta arrivare alla partenza della gara o all’inizio della seduta di allenamento in condizioni di perfetta idratazione, ed è fondamentale reintegrare le perdite di liquidi causate dalla sudorazione. Una insufficiente idratazione durante l’attività sportiva causa un peggioramento della performance e può addirittura compromettere lo stato di salute.

Non va dimenticato che l’organismo perde di continuo acqua attraverso i reni (urina), l’apparato digerente (feci), la cute (sudore) e i polmoni (vapore acqueo). Inoltre, giornalmente le ghiandole dello stomaco e del primo tratto dell’intestino producono una grande quantità di liquidi, dai 7 ai 10 litri, che vengono quasi totalmente riassorbiti nell’intestino crasso. Dunque, affinché l’equilibrio idrico sia mantenuto, le perdite di acqua devono essere pareggiate dalle assunzioni.

La somministrazione di liquidi deve iniziare già prima dell’esercizio per garantire uno stato di idratazione ottimale nel momento dello sforzo. E’ sconsigliato assumere grandi quantitativi di acqua nei 45-60 minuti precedenti la performance, perché può stimolare la diuresie la conseguente eliminazione di liquidi.

Durante l’esercizioil reintegro dovrà tener conto:delle caratteristiche ambientali nelle quali si pratica il lavoro e del tipo di lavoro muscolare. Tuttavia, l’apporto di 1/4 di litro ogni 15 minuti può in generale essere considerato ottimale.

Alla fine della seduta è invece fondamentale aumentare l’assunzione di liquidi, per recuperare le perdite causate dalla sudorazione.

Solo acqua?

Ma se si parla di idratazione, ci si riferisce solo all’assunzione di acqua? Non proprio.

Una gran parte dell’acqua esogena non deriva dalle bevande, ma dai cibi. Frutta, verdura, carne, pesce, sono costituiti per oltre il 70% da acqua. È perciò fondamentale seguire una dieta bilanciata, ricca soprattutto di frutta e verdura, per mantenere una corretta idratazione. Anche in questo caso però, l’alimento fondamentale sembra essere sempre e solo l’acqua.

Uno studio dell’Università britannica di Loughborough ha messo a punto il nuovo “indice di idratazione delle bevande”: un sistema che permette di capire quanto un liquido bevuto rimane in circolo – idratando maggiormente – prima di essere espulso sotto forma di urina.

Anzitutto gli scienziati hanno fatto bere un litro di acqua a un campione di 72 ragazzi di circa 25 anni, definendo come indice di idratazione standard – 1,0 – il liquido rimanente nel corpo dei partecipanti a due ore dall’ingestione. Successivamente sono state testate allo stesso modo altre 12 bevande, modellando il loro punteggio su quello dell’acqua: un punteggio superiore a 1,0 indicava che nell’organismo, dopo due ore, era rimasto più liquido rispetto all’acqua e dunque esso aveva un potere di idratazione maggiore. Ciò che è emerso è chequattro bevande sono risultate più idratanti dell’acqua: il latte a zero grassi (indice 1,5), quello intero (1,5), il succo d’arancia (1,1) e i reintegratori idrosalinici (1,5)che servono per reidratare il corpo dopo vomito o diarrea.

C’è da fare un’ultima considerazione: come ricorda anche il Ministero della Salute, la disponibilità di minerali nell’acqua potabile è estremamente ampia, ma in momenti di maggiore sudorazione o di necessità, soprattutto quando si pratica attività fisica o durante la stagione calda, è possibile colmare una eventuale carenza di sali ricorrendo all’integrazione idrosalina. Importanti sono soprattutto il Magnesio che svolge, tra le altre cose, un ruolo decisivo nella produzione di energia, e il Potassio, utile nella reidratazione durante e dopo lo sforzo fisico e nel mantenimento dei normali livelli di pressione arteriosa.

Minerale o oligominerale?

Si definiscono acque minerali naturali quelle che provengono da una falda sotterranea, sono microbiologicamente pure e presentano proprietà benefiche per la salute.

Per legge, un’acqua minerale dovrà avere un residuo fisso compreso tra i 500 e i 1500 mg/l: significa che, facendone bollire un litro fino a completa evaporazione, nel contenitore dovrà rimanere un deposito di 500-1500 mg di sali minerali. La composizione di questi micronutrienti varia a seconda della provenienza, poiché è influenzato dalle rocce del sottosuolo; ci sono acque più ricche di ferro o di calcio, zolfo, sodio ecc.

Si definiscono invece oligominerali le acque con un residuo fisso inferiore a 500mg/l: queste vengono spesso pubblicizzate come acque diuretiche, adatte a depurarsi e sconfiggere la ritenzione idrica, magari in contrapposizione a quelle di rubinetto. Eppure, controllando le analisi delle “acque pubbliche”, quella dei nostri rubinetti presenta quasi sempre un residuo fisso inferiore alla soglia. A cambiare, spesso è il contenuto di calcio e magnesio, che ne determinano la durezza.

Se non hai esigenze particolari per motivi di salute e non pratichi sport a livello agonistico, l’acqua di rubinetto è un’alternativa più sostenibile sia per il portafogli che per l’ambiente. Se a infastidirti è la presenza di cloro, non devi fare altro che lasciarla riposare in una caraffa o in una bottiglia di vetro aperta per farlo evaporare.

Il pesce fa bene al cervello

Che il pesce faccia bene al cervello già si sapeva. Ce lo ripetono da quando siamo bambini, ricordandoci l’importanza del fosforo, così importante per la memoria. Ma è davvero così?

Le funzioni del fosforo

Il fosforo è molto importante per la formazione delle ossa e dei denti. È poi necessario per attivare l’ATP, la molecola che veicola l’energia nell’organismo, permettendo gli scambi di nutrienti ed elettroliti tra le cellule. È anche una componente essenziale delle membrane cellulari, costituite appunto da fosfolipidi, acidi grassi legati a un atomo di fosforo.
Se il pesce è sicuramente ricco di questo prezioso minerale, è anche vero che non ne è la fonte più abbondante: il fosforo è reperibile anche nei legumi, nella frutta secca, nel latte e nel cacao.

Il legame tra pesce e cervello è dovuto soprattutto ad un altro gruppo di preziosi nutrienti: gli omega 3.

Omega 3 e cervello

I neuroni sono composti di grassi al 35%: un delicato equilibrio tra grassi Omega 6 e Omega 3 fa in modo che le cellule nervose comunichino correttamente tra loro e con l’ambiente esterno. Fondamentale per lo sviluppo e le funzioni cerebrali è il DHA, un grasso particolarmente abbondante nel pesce azzurro.

Oltre a far parte della sua struttura, gli omega 3 proteggono il cervello nel tempo, grazie al loro effetto vasodilatante sulle arterie e fluidificante per il sangue:

  1. Limitano le conseguenze dell’arteriosclerosi, che normalmente comporta un ridotto afflusso di sangue al cervello
  2. Ostacolano la formazione di emboli e trombi, che sono tra le principali cause di ictus

Mangiare regolarmente pesce azzurro aiuta quindi a mantenere la nostra materia grigia in forma, sia in età precoce che in età avanzata.

A prescindere dall’età

260 volontari si sono messi a disposizione di un gruppo di studio che ha dapprima raccolto informazioni sulle abitudini alimentari, per poi procedere a una risonanza magnetica del cervello di ciascun partecipante.

I ricercatori hanno osservato che, nei soggetti che mangiavano almeno una volta a settimana pesce cotto al forno o alla griglia, le aree cerebrali connesse alla memoria e alle capacità cognitive avevano un volume maggiore del 4 – 14%. Sembrerebbe esserci una correlazione positiva tra il consumo regolare di pesce e rallentamento dell’invecchiamento cerebrale.

Il discorso cambia per il pesce fritto poiché: “friggere espone l’alimento ad altissime temperature con un effetto negativo su quantità e qualità dei nutrienti. Per non compromettere i contenuti di vitamine e acidi grassi è molto meglio cucinare il pesce per tempi brevi e senza raggiungere temperature troppo alte: in questo modo si riducono i rischi che potrebbero derivare dal consumo a crudo, si mantiene più sapore e soprattutto si fa il pieno dei preziosi nutrienti, primi fra tutti gli omega-3” , spiega la dietista Ambra Morelli.

La ricerca pubblicata sull’American Journal of Preventive Medicine consiglia un consumo di almeno una volta a settimana di pesce, ma “meglio sarebbe portarlo in tavola almeno due o tre volte alla settimana, l’ideale è consumarlo quattro volte”, conclude la Morelli. Lo studio stesso aggiunge un’importante conclusione: la strategia di prevenzione deve includere buone abitudini anche al di là della dieta e va avviata con sufficiente anticipo.

Omega 3 nei bambini

Alex Richardson e Paul Montgomery dellaOxford University hanno invece lavorato su un campione di 493 bimbi dai 7 ai 9 anni, dando ragione a quei genitori che tanto si sforzano a proporre pesce ai propri figli. A un maggiore livello di omega 3 nel sangue si associavano migliori prestazioni nella lettura e nella memoria: insomma, il pesce aiuta a prendere bei voti a scuola.

Omega 3 in età avanzata

Allenare la mente leggendo o studiando, mantenersi in movimento svolgendo attività fisica e … mangiare pesce: ecco la ricetta per tenerci stretta la memoria.

Lo rivela una ricerca condotta presso laRush University Medical Centere l’Università di Wageningen in Olanda, pubblicata sulla rivistaNeurology.

I ricercatori hanno analizzato le capacità cognitive di 915 anziani di 81,5 anni in media attraverso alcuni test appositamente formulati. Dopo cinque anni sono stati riproposti gli stessi test, per verificare se si fosse presentato un declino delle capacità sotto esame: memoria, velocità di ragionamento, senso di orientamento.

Gli studiosi volevano dimostrare quanto il consumo di pesce potesse influenzare l’eventuale declino, così hanno diviso il campione in gruppi a seconda del consumo settimanale dell’alimento. E’ emerso che mangiare pesce almeno una volta a settimana rallenta la riduzione della memoria e della velocità di ragionamento.

Altro che “memoria da pesce rosso”!

Ma quale pesce?

I più ricchi di omega 3 sono: acciughe, aringhe, sgombro, salmone, sardine, storione, trota e tonno. Tutti questi alimenti sono facilmente reperibili e possono essere inseriti in diverse ricette della nostra amata dieta mediterranea.

L’importanza della colazione

“Appena sveglio non riesco a mangiare, è più forte di me. Al massimo bevo un caffè per svegliarmi un po’, e dopo un paio d’ore mangerò ‘qualcosa’”. Grande errore.

La colazione è uno dei tre pasti principali, nonché primo della giornata, quello cioè che ci accompagna a scuola, al lavoro, a fare sport. Tutte attività che richiedono uno sforzo innanzitutto cognitivo e, come vedremo, senza una buona colazione il cervello non è in gran forma.

Passeremo in rassegna alcuni studi molto interessanti, partendo da una piccola curiosità.

La curiosità

Lo scorso Settembre, nel presentare gli omaggi della raccolta a punti, una nota marca di prodotti da forno ha reso noto un dato sul pasto mattutino. Negli anni ’60 i biscotti venivano consumati allo stesso modo in cui oggi prendiamo un dessert: erano un dolce da fine pasto, rigorosamente fatto in casa.

A inizio anni ’70, nell’immaginario comune, solo i bambini dovevano mangiare “dolce” al mattino, gli adulti non ne avevano bisogno, al massimo mangiavano salame, pane o polenta a metà mattinata. A partire dal ’75, grazie ad un marketing molto mirato, i biscotti hanno assunto una nuova funzione: erano il cibo perfetto per la colazione, tanto che il 70% dei prodotti venivano consumati al mattino, secondo alcune indagini dell’epoca. Oggi, secondo l’azienda parmigiana, l’88% degli Italiani non rinuncia alla prima colazione, un macro dato poco preciso se si volesse considerare: cosa si mangia a colazione, come si mangia, quando e quanto. Passiamo al primo studio.

In generale

Abitudini poco salutari nell’approccio alla colazione si riscontrano in tutto il mondo, tuttavia tramite la ricerca portata avanti da Eurisko “Italiani e la prima colazione”, ci riferiremo solo al popolo italiano.

I dati raccolti fanno registrare: un 66% di Italiani che dedica alla colazione al massimo 10 minuti (quanto), e un 55% si siede a tavola da solo per il primo pasto della giornata (come). Solo un 15% la consuma con tutta la famiglia.

Passiamo al “cosa si mangia”: su 100 persone, 15dichiarano di consumare solo un caffè, 25 puntano su caffè e cornetto, 8persone invece non mangiano né bevono nulla.

Andrea Poli, coordinatore del lavoro, afferma: “La colazione fornisce al termine del periodo di digiuno notturno l’energia necessaria per affrontare le attività della mattina, favorendo la performance intellettuale e fisica, e di tutta la giornata perché migliora la qualità nutrizionale complessiva della dieta”.

L’esperto ha evidenziato l’importanza che questo pasto riveste per il metabolismo. I carboidrati complessi (pane, fette biscottate, biscotti, cereali), le proteine e i grassi (apportati principalmente dal latte e dai derivati) riescono a modulare la sazietà e controllano l’appetito, permettendo una maggiore regolazione delle calorie assunte ai pasti successivi.In sostanza, se facciamo una colazione abbondante e con i giusti nutrienti, il nostro corpo non avrà bisogno di un pranzo o di una cena “esagerati”.

Dallo studio sono emerse le 5 caratteristiche che una colazione deve avere per essere considerata “amica” del metabolismo, ma li elencheremo alla fine della discussione.

Dai 30 anni in su

I ricercatori della School of Public Health di Loma Linda, in California, hanno preso in esame le abitudini alimentari di ben 50.660 persone dai 30 anni in suseguendole per una media di 7 anni.

Prima di tutto è stato chiesto ai volontari di riempire un questionario specificando terapie di ogni genere, abitudini sportive e alimentari. La procedura è stata poi ripetuta periodicamente.

Chiaramente uno studio di tali dimensioni non si concentrava solo sulla colazione, ma è possibile estrapolare quanto segue: “Le persone che facevano colazione regolarmente tendevano a perdere peso più di quelle che la saltavano … i partecipanti il cui pasto più grande della giornata era la prima colazione hanno registrato una forte diminuzione del IMC (indice di massa corporea), a differenza di coloro che hanno fatto di pranzo o cena il loro pasto principale … anche tra persone over 60 anni, chi faceva della prima colazione il pasto principale tendeva ad evitare il guadagno di peso tipico di questa fascia di età”.

Naturalmente non sarà una colazione a base di uova e pancetta a farci smaltire quei due-tre kg di troppo, ma una combinazione tra uno stile di vita attivo e un controllo delle porzioni nel resto della giornata. Una buona colazione ci aiuterà a seguire il nostro piano di dimagrimento senza arrivare troppo affamati a pranzo, riducendo la nostra voglia di “sgarrare” e dandoci le energie necessarie per muoverci di più.

5 imperativi per una colazione sana

Regolarità: Oggi faccio colazione, domani … anche!

Completezza: Cosa mangiare? Una fonte di grassi e proteine (latte, yogurt, uova, affettato magro), una di carboidrati complessi, meglio se integrale (pane, fette biscottate, cereali da colazione, biscotti o prodotti da forno) e frutta (fresca o sotto forma di spremuta).

VarietàNon è necessario mangiare tutti i giorni le stesse cose. Puoi alternare colazione dolce e salata, magari prediligendo le combinazioni più ricche di fibre e proteine e concedendoti di tanto in tanto un goloso cornetto alla crema. In questo modo sarà più facile rispettare il primo principio, la regolarità, accontentando anche la tua voglia di dolci.

Equilibrio15-20% delle calorie giornaliere complessive necessarie. Ogni persona ha un valore diverso dalle altre in questo caso, perciò prima di tutto bisogna informarsi sulla quantità totale di calorie da assumere in tutto l’arco della giornata.

Piacevolezza: Siamo noi a renderla importante: a partire dalla preparazione della tavola, passando per il tempo che le dedichiamo, fino ad arrivare alla qualità del cibo con cui la consumiamo. Facciamo sì che sia un momento felice per noi e per tutta la famiglia.

Onde riabilitative

È entrata a far parte della vasta gamma di terapie mediche dagli anni ’80, prima di tutto in campo urologico per combattere i dolorosi calcoli renali.

Terminati i primi periodi di sperimentazione, nel giro di dieci anni è stato scoperto che la terapia tramite onde d’urto poteva essere applicata in diversi campi, uno su tutti la fisioterapia. Ma in cosa consistono le onde d’urto, e quali benefici possono apportare al nostro corpo?

Le onde d’urto

Si tratta di onde acustiche, prodotte da appositi generatori (ilitotritori), in grado di propagarsi nei tessuti in sequenza rapida e ripetuta.

Si distinguono in due categorie: le onde d’urto radiali, che vengono distribuite “sfericamente” in tutto l’organismo, e quelle focali, le quali invece si concentrano su una zona specifica di trattamento.

In sostanzal’onda entra a contatto con la superficie cutanea, dalla quale viene poi propagata su tessuti e cellule. Questi reagiscono allo stimolo con un aumento dell’attività metabolica, accelerando il processo di guarigione e incrementando la vascolarizzazione nell’area colpita. Per i tessuti ossei il processo è lo stesso: in caso di fratture, la terapia onde d’urto porta all’aumento della vascolarizzazione con successiva stimolazione osteogenica, favorendo la formazione di tessuto osseo.

In base all’entità del problema i professionisti decidono se applicare onde d’urto ad alta, media, o bassa intensità. Si tratta dionde acustiche di naturameccanica, che pertanto non presentano le caratteristiche di rischio associate alla radioattività. Non è perciò un trattamento invasivo, non provoca alcun dolore e, in alcuni casi, può essere una valida alternativa all’intervento chirurgico.

Gli studi sul miocardio

Più di 1.600 chirurghi italiani si sono ritrovati nel 2014 al Congresso nazionale della Società italiana di cardiologia invasiva (Sici-Gise), per discutere l’efficacia delle onde d’urto sulla rivascolarizzazione del miocardio, il tessuto muscolare del cuore.

Dal 2009 al 2014 si sono sottoposti alla terapia 60 pazienti, con ottimi risultati. I volontari hanno dichiarato di non aver avvertito alcun fastidio o dolore durante i trattamenti, divisi in nove sessioni da 20-30 minuti ciascuna.Per il complicato e sensibile sito anatomico, la cavità toracica, è stato progettato appositamente un particolare generatore di onde d’urto.

La terapia ha avuto inizio attraverso un monitoraggio ecocardiografico, con cui si localizzava l’area di trattamento sulla quale intervenire. Le onde d’urto venivano successivamente propagate all’interno della cavità toracica fino all’area di trattamento e sincronizzate con l’elettrocardiogramma.

Per gli sportivi

Inizialmente si è parlato di fisioterapia. Sono proprio i professionisti di tale settore a sfruttare in maggior misura le onde d’urto, su pazienti giovani e meno giovani.

Chi pratica sport a livello agonistico va spesso incontro a tendinite, fascite plantare, contratture e dolori muscolari di ogni tipo (ma gode anche di enormi benefici). Le onde d’urto sono un ottimo rimedio a questo tipo di problemi. Per comprendere al meglio il lavoro specifico che le onde d’urto compiono sul tessuto muscolare è utile riprendere le parole della professoressa Angela Zissler, responsabile di un gruppo di ricerca sul tema: “Il nostro studio indica che le onde d’urto aumentano i livelli di fattori di segnalazione chimica del tessuto muscolare. Questi fattori risvegliano le cellule progenitrici satellite che diventano via via nuove fibre muscolari”.

Rocco Di Cosmo, fisioterapista con studio a Genova, nell’aprile del 2016 ha presentato una relazione scientifica presso il Congresso Internazionale Football Medicine Strategies svoltosi a Londra. Secondo le sue ricerche sono circa 150 negli ultimi tre anni le persone che hanno tratto giovamento dal protocollo riabilitativo tramite onde d’urto.

Il dottore ricorda: “Tra le sedute di trattamento devono passare almeno 7 giorni per il recupero completo del muscolo, e il giorno del trattamento si deve evitare di allenarsi. Il protocollo prevede di terminare ogni seduta con stretching analitico, attività necessaria anche come prevenzione delle contratture muscolari; da eseguire per pochi minuti, ma in modo preciso, dopo ogni seduta di allenamento per gli sportivi o dopo una giornata lavorativa molto intensa”.

Traduzione: no, non è una cura miracolosa che fa sparire il dolore nel giro di qualche minuto.

È un protocollo che richiede più sedute e la collaborazione del paziente, poiché senza un adeguato stretching, assumendo posizioni scorrette durante la giornata e continuando a sforzare i muscoli “danneggiati”, il processo di guarigione viene compromesso.

L’acqua ossigenata: quando e come va usata

Aprire un cassetto (o scaffale o armadietto) dei medicinali e non trovare acqua ossigenata. Conseguenza: iniziare a cercare in bagno, nello sgabuzzino, tra i prodotti per lavare, tra i cosmetici o in frigorifero. Già, perché non esiste casa che in un angolino inesplorato non nasconda perossido di idrogeno, come non esiste persona che non ne abbia bisogno almeno una volta nell’arco di un anno. Sembra semplice: prendiamo l’acqua (H2O), aggiungiamo un atomo di ossigeno (O), ovvero “ossigeniamo”, e vedremo apparire il prodotto dai mille usi: H2O2.

Breve storia

Eppure non è un prodotto facile da ottenere: ci sono voluti quasi 80 anni di studi, dalla prima intuizione, per arrivare a produrre il primo flacone in laboratorio.

Nel 1818 il chimico francese Louis Jacques Thénard sperimentò una reazione tra perossido di bario e acido nitrico, ottenendo perossido di idrogeno. Fu il tedesco Richard Wolffenstein a sintetizzare per la prima volta acqua ossigenata in forma pura nel 1894, grazie a un gran numero di ricerche per le quali è da ricordare il prezioso contributo di due scienziati britannici, William Penney e Gordon Sutherland.

Disinfettante

Non appena viene a contatto con una ferita, l’H2O2 reagisce immediatamente liberando ossigeno e uccidendoi microrganismiche potrebbero provocare un’infezione.

In commercio è acquistabile solo acqua ossigenata diluita: la soluzione pura, infatti, ha una temperatura di ebollizione di 150° e, a contatto con alcune sostanze, può causare esplosioni. Il prodotto diluito, l’acqua ossigenata che utilizziamo quotidianamente, bolle a 114° ed è decisamente più sicura.

Oltre che sulla pelle, si può utilizzare anche in sede orale per combattere herpes labiale, gengiviti e ferite di lieve entità interne alla bocca (occhio però, perché a volte brucia!). Consigliamo di diluirla con una pari quantità di acqua potabile e di fare attenzione a non ingerirla.

In ambito medico viene utilizzata anche per sterilizzare strumenti e siti chirurgici.

Sbiancante

“È biondo ossigenato”. Proprio così, quel tipo di colorazione è ottenuta grazie alla nostra H2O2unita in tal caso all’idrossido di ammonio.

Come fa la corteccia di un albero a diventare foglio bianco? Acqua ossigenata.

Uno dei responsabili della colorazione bianca di prodotti tessili? Perossido di idrogeno.

È utile anche per candeggiare i capi delicati o per restaurare i colorati ingrigiti. Si tratta anche di una soluzione più eco-sostenibile della varechina.

Per un sorriso più bianco puoi creare un rimedio casalingo con due cucchiaini di bicarbonato di sodio e qualche goccia di acqua ossigenata per trasformarlo in una pasta dentifricia. Strofinandolo sui denti con lo spazzolino per un paio di minuti, rimuoverai le macchie superficiali.Naturalmente ricorda di non ingerire il composto e sciacquare molto bene la bocca dopo, onde evitare controindicazioni. Questo rimedio non va usato quotidianamente, ma come trattamento occasionale.

Non solo odore pungente e spuma bianca sulle feritine allora, ma tante altre potenzialità. Avete rovesciato tutti i cassetti ma non c’è? Mettetela nella lista, non può mancare.

Osservare il tempo che scorre

Klépto, “io rubo”. Hydùr, l’acqua. Il termine “clessidra” deriva dall’unione delle due parole greche, che vanno a comporre l’espressione: io rubo l’acqua.

Il tempo infatti non si compra, tantomeno si ruba, chissà se il sogno dei primi utilizzatori dello strumento fosse proprio quello di farla propria, quell’entità astratta così fondamentale nella vita di tutti i giorni.

La storia

La più antica clessidra che conserviamo ancora oggi risale al 1400 a.C. e si trova al Museo del Cairo. Fu prodotta per il Re d’Egitto Amenophi III e fa parte della vasta gamma di clessidre “primordiali”, quelle ad acqua.

In un recipiente con un foro sul fondo veniva immessa costantemente acqua. Questa passava in un altro contenitore, dotato solitamente di tacche poste alla medesima distanza l’una dall’altra, che determinavano lo scorrere del tempo. Lo strumento però non poteva essere considerato preciso: il foro tendeva a variare le sue dimensioni per erosione, temperatura e presenza di impurità. La presunta omogeneità con cui l’acqua giungeva nel secondo recipiente venne perciò presto messa in discussione, così i nostri antenati si ingegnarono per trovare un’altra soluzione per misurare il tempo.

Nacque nel Medioevo la clessidra come la conosciamo oggi.

Venivano utilizzati gusci d’uovo triturati e setacciati, ma anche diversi altri tipi di polvere, con caratteristiche simili alla sabbia. Il foro sul fondo era scomparso e ciò permetteva il trasporto, viste anche le piccole dimensioni delle clessidre più utilizzate.

Ma in che modo poteva essere utile a uomini e donne del Medioevo?

Essendo chiuse e avendo di conseguenza una porzione definita di “sabbia” all’interno, le clessidre venivano utilizzate per misurare archi di tempo limitati.

A Roma la cosiddetta “clessidra giudiziaria” serviva per stabilire la durata dei dibattiti pubblici in parlamento: 40 minuti erano sufficienti per ascoltare tutti.

Clessidre più grandi venivano utilizzate per scandire i tempi dell’insegnamento e dello studio. Altre delimitavano la durata della preghiera e delle prediche.

Chi godette in maggior misura del nuovo strumento a sabbia fu, paradossalmente, quel gruppo di lavoratori che trascorrevano la vita a navigare in acqua: i marinai.

Anche dopo l’invenzione dell’orologio meccanico i navigatori continuarono a usare le clessidre. I motivi sarebbero sostanzialmente due: l’ampolla dava un’idea tangibile sia del tempo trascorso che di quello da trascorrere. L’altra motivazione, più tecnica, risiederebbe nel fatto che gli orologi meccanici avrebbero smesso di funzionare a contatto con la ruggine e la salsedine, mentre le ampolle non avevano problemi. Il cambio del turno di guardia veniva scandito dal suono di due grandi campane, ma solo dopo che otto clessidre da mezz’ora avevano terminato il loro ciclo.

Famosa è anche la testimonianza che arriva da una nave con a bordo Cristoforo ColomboLa notte del 13 dicembre 1492 il genovese scriveva sul diario di bordo che dal crepuscolo all’alba la clessidra da mezz’ora si era svuotata ben venti volte, segnalando una lunga nottata della durata di 10 ore.

Una vita a contatto col tempo

“Meglio avere la testa di topo che una coda di leone” aveva sentito da sua nonna Adrian Rodriguez Cozzani, il settantenne venezuelano proprietario di una delle botteghe più alternative di Roma. L’espressione è servita ad Adrian per convincersi a lasciare il “posto sicuro” che avrebbe trovato nel mondo dell’architettura (forte dei suoi studi e del suo talento), e dedicarsi alla passione della sua vita: misurare il tempo.

La bottega nel cuore di Trastevere produce, grazie solo alle mani del suo proprietario, circa 1000 clessidre all’anno, sia ad acqua che a sabbia. Si possono trovare piccoli pezzi, da uno o due minuti, ma anche enormi clessidre da due ore.Ne realizza alcune ad hoc per gli psicologi, da 50 minuti – questa sarebbe la durata ideale di una seduta terapeutica. Molto interessante è anche la sua dote nel creare clessidre artistiche, come quella racchiusa in una rete di corde per trasmettere l’impressione di poter ingabbiare il tempo.

“A differenza di tutte le tecnologie digitali che ci accompagnano e che continuamente ci spiattellano in faccia il passare dei minuti, qui hai un controllo. L’unico vero capitale che ha l’uomo è il tempo: con la clessidra scorre più lento. Te lo fa godere. Assaporare. Respirare. Sì, te lo fa vivere” ha dichiarato l’artigiano in una recente intervista.

Parole profonde, vere e su cui si dovrebbe riflettere. Nei confronti del tempo siamo tutti sulla stessa barca, siamo impotenti. Bisognerebbe imparare a gestirlo, certo, ma soprattutto a goderselo.

Se pensate che una clessidra sul comodino possa aiutarvi a rilassarvi, allora non perdete tempo, procuratevela!

Come liberarsi dalle vesciche

Non è un problema solo per gli atleti, vero? Anche una scarpa nuova, specie se più elegante che comoda, può dare il via al tormento delle vesciche. Come curarle?

Cosa sono

Anche se non particolarmente belle e assai fastidiose, le “vesciche” sono in realtà uno stratagemma che il nostro corpo usa per proteggerci. In che senso?

Quando la nostra pelle, a contatto con determinati materiali, subisce un eccessivo sfregamento che potrebbe danneggiarla, si difende producendo un accumulo di liquidi. Questi si “radunano” in una sacca, la vescica appunto, che ha il compito di proteggere gli strati cutanei più profondi da eventuali batteri e altre sostanze infettive.

Ma se funge da protezione, perché la bolla provoca tanto fastidio?

Perché il liquido che viene a formarsi deriva da una forte pressione delle aree circostanti alla zona di attrito. Ne risulta il comune dolore che avvertiamo, leggero o forte in base alla grandezza della sacca protettiva.

Prevenire

Derivando da uno sfregamento, la prima soluzione per evitare la formazione delle vesciche è ovviamente ridurre al massimo il contatto tra pelle e materiali che inducono tale attrito. In che modo? Prima di tutto acquistare scarpe della misura giusta: non bisogna sentire il piede “compresso”, ma neanche troppo libero all’interno della calzatura.

Tra piede e scarpa è fondamentale indossare i calzini. Anche questi devono avere delle caratteristiche particolari. Prima di tutto il materiale deve essere traspirante, poiché se il piede dovesse rimanere umido la pelle si ammorbidirebbe, facilitando l’attrito. Sono utili sotto questo aspetto le parole di Carlo Gelmetti, direttore di Dermatologia Pediatrica al Policlinico di Milano: “è buona abitudine utilizzare calzini in cotone o altro materiale traspirante e privo di cuciture che possono aumentare l’attrito con la pelle”.

Nella stessa intervista il medico ha poi consigliato un altro metodo di prevenzione: “prima di indossare le calze e le scarpe, infine, può essere un’utile accortezza quella di applicare sulla pelle delle polveri a base di talco (per diminuire gli attriti) oppure a base di ossido di zinco (per assorbire l’umidità)”.

Possono essere utili anche delle creme idratanti, poichéuna pelle troppo secca può favorire l’insorgenza di vesciche ma, per lo stesso principio descritto poco fa, prima di iniziare l’attività fisica è bene verificare che i piedi non siano unti o umidi.

Le donne che indossano il tacco probabilmente conoscono un altro ottimo espediente, valido per ogni tipo di scarpa: indossare le scarpe appena acquistate passeggiandoci in casa per qualche minuto al giorno aiuta il piede ad “abituarsi” alla nuova calzatura.

Lo studio

Il prodotto che previene in maniera più efficace l’insorgenza di vesciche (soprattutto per gli sportivi) è, secondo alcuni ricercatori dell’Università di Stanford, il nastro adesivo chirurgico.

Lo inventò nel 1845 Horace Day, un chirurgo americano, sperimentando un adesivo fatto di gomma arabica, trementina, pepe di Cayenna e diversi altri materiali. Oggi il prodotto è economico e facilmente reperibile, poiché per produrlo si utilizzano sostanze più comuni, quali alcuni tipi di carta, nylon, stoffa e schiume.

Per condurre lo studio, i ricercatori dell’università americana si sono serviti dell’aiuto di 128 ultra maratoneti, in occasione dell’affascinante maratona RacingThePlanet: 250 chilometri di corsa attraversando quattro deserti diversi.

Gli atleti hanno applicato del nastro chirurgico nelle zone del piede dove solitamente, dopo gare o allenamenti, comparivano le vesciche, lasciando l’altro piede “nudo”.

Risultato:a fine gara 98 su 128 non presentavano vesciche sui piedi protetti, mentre 81 su 128 avevano le bolle sui piedi non protetti.

“Curare”

Per quanto riguarda le vesciche di lieve entità è consigliato lasciare che il liquido si riassorba autonomamente: la pelle in quella zona risulterà addirittura rinforzata.

Quando però il dolore è acuto e la bolla ampiamente estesa, esistono alcune cure che accelerano il riassorbimento della vescica. Bisogna rivolgersi a personale medico esperto, poiché solitamente si procede con un’incisione tramite siringhe che “risucchiano” il liquido interno alla sacca.

Può capitare che la vescica scoppi a causa dell’eccessiva pressione. In questi casi bisogna usare agenti disinfettanti immediatamente e bendare la ferita con garze sterili, in modo da evitare infezioni.

I detti popolari spesso ci consegnano in poche parole la linea da seguire. Perciò, ricorda: prevenire è meglio che curare.