5 meraviglie dell’Emilia Romagna

L’Emilia Romagna si è aggiudicata la prima posizione nella classifica di Lonely Planet del 2018 “Best in Europe”. Non c’è da stupirsi: la Regione vanta un ventaglio di esperienze e luoghi da visitare unici al mondo. Vediamone alcuni:

La cucina

Il ragù bolognese, il prosciutto di Parma, l’aceto balsamico di Modena, il Parmigiano Reggiano… prelibatezze conosciute in tutto il Pianeta. Non a caso è qui che si è stabilito il parco agroalimentare più grande del mondo, il FICO Eataly World: dieci ettari dedicati al cibo, dalla campagna alla tavola, a un passo dalla città.

I portici di Bologna

Il capoluogo vanta la più antica università europea, 40 kilometri di portici incantevoli, torri medioevali elogiate da Goethe e da Carducci e ricchi musei per tutti i gusti.

I mosaici di Ravenna

Un esempio magistrale di arte sacra dichiarato patrimonio mondiale dall’UNESCO
Le tessere di vetro tinte di verde acceso, oro raggiante, blu profondo e rosso energico rivestono, tra le altre, la Basilica di San Vitale, la Basilica di Sant’Apollinare Nuovo, il Mausoleo di Galla Placidia e la Basilica di Sant’Apollinare in Classe.

L’arte rinascimentale di Ferrara

Il centro storico è patrimonio dell’UNESCO e si tratta di una meta poco frequentata dai turisti internazionali: l’ideale per una gita senza stress. Imperdibili le torri del Castello Estense e il Teatro Comunale, uno dei più importanti teatri d’opera dal XVIII secolo.

La festa di Rimini

La città che ha dato i natali a Federico Fellini è nota per la sua vita notturna e le sue spiagge, ma vanta anche monumenti romani come l’Arco di Augusto e il Ponte di Tiberio, il più antico ponte romano ancora in uso.

Pomodori stressati, pomodori fortunati

Il metabolismo di una pianta

Il metabolismo vegetale è l’insieme delle reazioni che avvengono nelle cellule di una pianta e ne determinano la crescita e la sopravvivenza. Nel caso delle piante fruttifere vedremo la trasformazione dei nutrienti assorbiti in metaboliti primari, cioè lipidi, carboidrati e proteine che andranno a costituire fusto, radici, fiori e frutti.

Dai processi del metabolismo primario si ottengono collateralmente una serie di altri composti, definiti metaboliti secondari. Questi non sono fondamentali per la sopravvivenza della pianta, ma molto utili per altre funzioni, come ad esempio la riproduzione, attraendo gli insetti con il profumo dei fiori, o la difesa, sviluppando tossine che fungano da deterrente per gli erbivori e pigmenti che conferiscano un aspetto velenoso ai frutti.

Alcuni di questi composti sono poco gradevoli o addirittura tossici, altri invece rendono gli ortaggi particolarmente apprezzabili al palato e benefici per la salute.

La selezione genetica ci ha permesso di ottenere varietà che contengono una quantità minima dei primi e una concentrazione massima dei secondi. Questo processo è avvenuto per tutte le piante che abbiamo addomesticato, ma i pomodori ne sono un esempio particolarmente valido: in origine erano poco digeribili o addirittura tossici, oggi possiamo gustarne moltissime varietà dolci, nutrienti e succose, tra cui i Pachino.

Il territorio

Pachino è il comune più meridionale d’Italia ed è quello che registra il maggior numero di giornate di sole nell’arco di un anno. Questo rende il clima particolarmente favorevole alla maturazione di pomodori ricchi di metaboliti secondari, dal sapore dolce e caratteristico e il colore rosso intenso. Mentre il clima è favorevole alla pianta, il territorio non sarebbe ideale: il terreno è sabbioso e l’acqua salmastra per la vicinanza con il mare.

Quindi come fanno i Pachino ad essere così buoni?

Da problema ad opportunità

La risposta sta proprio nello stress che la pianta subisce: l’acqua salmastra impone alla pianta di sviluppare frutti più piccoli e in quantità ridotta, ma ricchissimi di metaboliti secondari. Per sopravvivere e crescere, infatti, la pianta avrà bisogno di consumare una maggior quantità di energia, generando al contempo vitamine, fenoli e terpeni come sottoprodotti del metabolismo. La selezione genetica ha permesso di individuare le migliori capacità adattative e avere dei pomodori eccezionali.

Una varietà recente

La varietà Pachino è stata introdotta solo nel 1989, da un incrocio ben studiato tra pomodori già coltivati nel territorio, quindi già adattati alle particolari condizioni di acqua e suolo. Si trattava principalmente di pomodori da insalata, a bacca grossa: nonostante l’iniziale diffidenza, i pomodorini furono molto apprezzati in tutta Italia, fino ad ottenere il marchio IGP.

Possiamo quindi affermare che la collaborazione tra uomo e natura ha saputo trasformare un problema in una grande opportunità.

Saperi e sapori della Valtellina

Cosa vedere e cosa fare in Valtellina

Iniziamo da Bormio, una delle località più famose della Valtellina: oltre ad essere un’ottima stazione sciistica è nota agli appassionati del wellness per le sue rinomate terme. 
Le Terme di Bormio, divise in Bagni Nuovi e Bagni Vecchi, sono un complesso storico di grotte naturali e vasche conosciuto sin dagli antichi romani.
Da non perdere una tappa a Morbegno, incantevole centro storico con spettacolare vista sui monti della vallata. 
E infine Livigno, altra celebre località turistica della zona: circondato da ghiacciai, il paese offre numerose attrazioni, quali il complesso del Mottolino e la possibilità di fare un giro panoramico sul trenino rosso del Bernina.

Piatti tipici e abbinamenti… Ad alta quota!

La Valtellina si ama anche a tavola: i sapori tradizionali di questa valle, un tempo storico passaggio per raggiungere la Svizzera, sono variegati e genuini.

Assaporiamoli secondo questi suggerimenti enogastronomici:

  • Polenta Taragna: la polenta più rustica fatta con grano saraceno. Da assaggiare con formaggio Casera, che si scioglie al punto giusto, e accompagnata da un bel Rosso di Valtellina
  • Sciatt: queste frittelle di grano saraceno ripiene di formaggio fuso sono irresistibili: una pallina tira l’altra. Il segreto per digerirle? Mangiatele accompagnate da un’insalata fresca e da un buon bicchiere di bianco. Quale? Terrazze Retiche di Sondrio
  • Costine al “lavecc”: costine di montagna cotte su pietra ollare con vino e aromi. La semplicità che non ha bisogno di fronzoli per appagare il palato: il segreto è nella qualità della carne e delle erbe. Nel bicchiere ci sta bene un Valtellina Superiore Inferno.
  • Cunsc con polenta: un sugo di carne, tipico della media valle, con carne di pecora e molte spezie (salvia, alloro, chiodi di garofano, rosmarino..). Veniva servito con la polenta o le patate. Il vino migliore per accompagnarlo? Un Grumello DOCG.
  • Oltre al Casera, il Bitto è uno formaggi dei più conosciuti. Il suo nome deriva dai celti, dove Bitu significava “perenne”. Si accompagna bene con uno Sforzato di Valtellina.
  • Per quanto riguarda i salumi non limitatevi alla seppur ottima bresaola della Valtellina: spingetevi fino al violino di capra della Valchiavenna, una specie di prosciutto, e i prosciuttini della Valtellina. Da abbinare un bicchiere di Inferno o un Rosso di Valtellina.

I Pizzoccheri della Valtellina

pizzoccheri: più che un primo piatto, un piatto unico, listarelle di farina di grano saraceno condite con verza o coste, burro, formaggio Casera giovane, aglio e parmigiano

Considerato un piatto tipicamente autunnale può invece essere servito tutto l’anno, soprattutto da chi utilizza il burro che si scioglie tra le verdure e la pasta.



Come vanno cucinati? Primo segreto: i pizzoccheri vanno cotti direttamente nella pentola in cui stanno cuocendo le verdure: da aggiungere dopo cinque minuti da quando verze e patate iniziano a bollire. Inseriteli lentamente e con l’aiuto del manico di un cucchiaio, occorre girarli in modo che rimangano separati e non si appiccichino tra loro.

Dopo una decina di minuti scolare con una schiumarola e disporre il tutto in una pirofila dove andrà poi aggiunto il burro bollente (in cui nel frattempo è stato soffritto l’aglio) e il formaggio.

Dulcis in fundo

Per chiudere in dolcezza non perdete l’occasione di assaggiare qualche dolce tipico della Valtellina! Questo il podio degli immancabili:



Bisciola: fatto di uva sultanina, pinoli e fichi secchi è un dolce-salato perfetto per ogni momento della giornata.

Cupeta: miele, zucchero, gherigli di noci e fogli di ostia: non serve altro per preparare una Cupeta. Dolcezza da provare.

Biscutin de Prost: specialità inimitabile prodotta da secoli dalla Famiglia del Curto nell’antico mulino di Piuro, in Valchiavenna.

Pane fresco, pane Bio.

Il pane “fresco” è quello appena fatto!

Di solito si mantiene morbido, saporito e profumato per uno o due giorni.

Se non si vuole mangiare subito il pane che si è comprato, la cosa migliore è conservarlo nel congelatore, per poi riscaldarlo in forno qualche minuto prima di mangiarlo; in frigorifero, invece, il pane rischia di assorbire troppa acqua e di sviluppare muffe che lo rendono non più commestibile.

Il buon pane fresco deriva da un processo di produzione molto lungo, che parte dai campi dove si coltivano i cereali. Dal raccolto delle spighe mature dei cereali e dalla separazione dei chicchi dal resto, si passa alla fase della macinazione per ottenere la farina.

Una volta pronta, la farina viene portata ai forni: possono essere piccoli forni artigianali, dove i fornai producono il pane che poi vendono nel loro negozio, o grandi forni industriali, dove il processo di produzione del pane è del tutto automatizzato e compiuto da macchine. Dal forno, il pane passa ai punti vendita, e da lì alle nostre tavole!

E se scelgo un prodotto “biologico”? Cosa significa?

Con “prodotti biologici” si intendono quegli alimenti ottenuti escludendo pesticidi, organismi geneticamente modificati, tutelando la composizione del terreno, la biodiversità.

Pane Carasau: curiosità, spunti e…spuntini!

Noto anche come “Carta da Musica”, il pane Carasau si presenta come una sfoglia ruvida, sottile e croccante. La ricetta ha radici molto antiche ed è radicato nella cultura sarda: essendo facile da conservare senza perdere le proprie caratteristiche, si adattava particolarmente allo stile di vita dei pastori.

La preparazione artigianale è piuttosto laboriosa: l’impasto viene steso e tirato diverse volte, fino ad ottenere dei dischi molto sottili. Durante la cottura l’impasto si gonfia e viene tagliato lungo il perimetro del disco: in questo modo si ottengono due sfoglie che vengono lasciate raffreddare, separate da panni di lino. L’ultima fase è la “carasatura”, in cui i sottili dischi di impasto vengono cotti per la secondo volta, assumento un colore dorato e una consistenza friabile e croccante.

Come si mangia

Il modo più semplice di consumarlo è al naturale, o arricchito da qualche goccia d’olio per ottenere il famoso “Guttiau”: perfetto per uno snack o per stuzzicare l’appetito all’inizio del pasto.

Decisamente più sostanzioso è invece il “Frattau”, dove il pane inumidito viene coperto di sugo di pomodoro, pecorino e uova e le sfoglie vengono sovrapposte: qualcuno lo prepara omettendo le uova, ma sicuramente si può considerare un piatto vero e proprio più che uno spuntino.

Un’idea originale che non richiede cottura è ammorbidire immergendolo per qualche secondo in acqua fredda, quindi farcirlo e arrotolarlo a creare degli involtini. Un finger food molto apprezzato e declinabile per soddisfare tutti i gusti. Il nostro consiglio? Una farcitura a base di mousse di tonno e formaggio spalmabile, con pomodori secchi tritati: basterà frullare gli ingredienti per qualche minuto con un po’ di succo di limone.

Ci sono anche ricette che prevedono l’utilizzo delle sfoglie sovrapposte come basi per torte salate, lasagne e sformati: ti sta già venendo qualche idea?

Pane raffermo: che fare?

È opinione comune che il pane, dopo uno o due giorni, diventa raffermo perché il contatto con l’aria comporta una perdita d’acqua. Diversi esperimenti, il primo dei quali svolto nel 1852, hanno però comprovato un livello di disidratazione molto al di sotto delle aspettative. Il fenomeno, quindi, è in realtà dovuto alle variazioni di temperatura. Il processo è infatti quasi del tutto reversibilemettendo il pane in forno ad almeno settanta gradi, ma attenzione: questo funziona soltanto se il pane è intero, ovvero se la sua crosta è intatta. Se si tratta di fette di pane, la disidratazione in forno risulterebbe incisiva.

Se ci troviamo dunque con dei pezzi di pane vecchio, oppure se vogliamo approfittare di questo fenomeno, ci sono diverse cose che possiamo fare. Ad esempio, basta tostare le fette in forno condendole con pomodori, mozzarella e/o rucola per ottenere delle invitantissime bruschette. Un’altra possibilità è tagliarlo a piccoli pezzettini, l’ideale per accompagnare le zuppe o per farci dei crostini aromatizzati: per questi basterà spennellare la superficie del pane tagliato con olio, cospargere sopra gli aromi che si preferiscono (origano, rosmarino, aglio) e poi farli tostare in forno per pochi minuti.

Per ottenere il pangrattato, utile e versatile, è sufficiente far seccare il pane in un sacchetto di carta o in forno e grattugiarlo.

Un’altra opzione, inzuppando la mollica nel latte, è creare un impasto che possiamo impiegare per fare polpette, gnocchi e torte dolci e salate.

Concludiamo con qualche consiglio per conservare il pane:

  • Non metterlo in frigo: diventa umido e perde la sua croccantezza. In più, rischia di sviluppare muffe.
  • Non congelarlo: se proprio vuoi farlo, mettilo in un sacchetto apposito, eliminando l’aria. Fallo scongelare a temperatura ambiente, passandolo infine in forno per pochi minuti.
  • È preferibile conservare il pane nel sacchetto di carta o di tessuto, in luogo asciutto.
  • È necessario mantenere pulito il porta pane per evitare il proliferare di muffe.

I rinoceronti hanno un angelo custode

Le bufaghe

La bufaga è un piccolo uccello della famiglia degli storni, che vive nelle grandi savane dell’Africa sud del Sahara, principalmente in Senegal e Sudan.Ne esistono due specie, distinguibili dal colore del becco: la Buphagus africanus (becco giallo) e la Buphagus erythrorhynchus (becco rosso).

Si nutre principalmente di zecche e altri parassiti, perciò la si vede (a fatica vista la differenza di dimensioni) spesso sul dorso di grandi animali erbivori della zona africana: ippopotami, rinoceronti, zebre, bufali ecc.

La lotta alla sopravvivenza è spesso feroce in quelle zone, sia per individui della stessa specie che tra animali diversi: la bufaga, con i suoi 50 grammi di peso, è il miglior pronto intervento che si possa desiderare. Si poggia sulle ferite e inizia a nutrirsi di tutto ciò che potrebbe infettare l’animale colpito, spesso senza che questi se ne accorga. In molte immagini della savana la si vede in sella a bestie di diverse tonnellate, mentre svolge consciamente la propria principale funzione vitale e, inconsciamente, un fondamentale ruolo medicinale per i suoi grandi amici.

Il preferito

Il rinoceronte è enorme, ha una pelle molto resistente, è dotato di un corno appuntito e potente; peccato sia quasi cieco. I bracconieri riescono ad avvicinarsi a meno di cinque metri di distanza dal grosso mammifero, che risulta una facile preda a causa della vista poco sviluppata, tanto che rientra nella lista degli animali a rischio estinzione.

I ricercatori della Victoria University Roan Plotz e Wayne Linklater, mentre tracciavano una popolazione di bufaghe, si sono accorti che il rapporto tra gli uccellini e il rinoceronte va oltre i “normali” benefici reciproci (il rinoceronte offre cibo, l’uccello lo disinfetta).

Lo studio in questione è riuscito a dimostrare che le bufaghe riescono ad avvertire i rinoceronti della presenza degli umani: non è ancora chiaro se lo fanno consapevolmente, o se l’obiettivo sia quello di avvertire gli altri uccellini della famiglia.Plotz e Linklater hanno cominciato l’esperimento calcolando il numero delle bufaghe e mettendolo in relazione con i loro incontri diretti con i rinoceronti. Hanno scoperto che tra il 40% e il 50% dei rinoceronti accompagnati da bufaghe sul dorso riusciva a evitare completamente di incrociare il loro percorso. Questo perché gli uccelli, che a differenza dei rinoceronti ci vedono bene, emettono un richiamo molto riconoscibile quando avvistano un umano, che mette in guardia i rinoceronti quando l’intruso si trova ancora ad almeno 60 metri di distanza.

Secondo i ricercatori è possibile che le bufaghe abbiano sviluppato questa strategia negli ultimi 150 anni, quando la caccia al rinoceronte ha quasi portato all’estinzione la loro principale fonte di cibo.Gli studiosi stanno valutando, in collaborazione con le istituzioni che si occupano della prevenzione delle specie a rischio, la possibilità di introdurre le bufaghe nelle zone popolate dai rinoceronti, in modo da mantenere vivo questo fantastico rapporto.

Una vita da farfalla

Un insetto che non fa rumore, non punge, è bello da vedere e non vuole saperne di disturbare gli altri animali. Non è un sogno signori, si chiama farfalla.

Oggi ne parliamo per sfatare uno dei luoghi comuni più diffusi su questi esemplari: “la farfalla sopravvive solo per un giorno.”

Prima però è interessante ricordare il percorso di trasformazione che compie prima di svolazzare tra le piante e le nostre case.

La metamorfosi

Mamma farfalla, dopo un accoppiamento con il maschio della durata di circa 2 oredepone delle piccole uova rotonde. Può decidere di lasciarle “cadere” mentre vola, oppure scegliere una pianta su cui depositarle.

L’uovo bianco nel giro di un paio di giorni inizia a farsi più scuro, tendente al giallo, e nel giro di 5 giorni è pronto per schiudersiIl piccolo bruco al suo interno fora la parte superiore per poter uscire all’aria aperta e subito si nutre delle micro sostanze del guscio peravere le energie per iniziare a cercare una pianta come nutrimento.

Quando una farfalla depone le uova direttamente sulla pianta, il bruco potrà saltare la fase della ricerca, che comunque durerà poche ore. I bruchi possono sopravvivere da poco più di una settimana a tre anni, durante i quali il loro unico scopo è quello di aumentare la loro massa corporea, nutrendosi delle foglie della pianta ospite.

Dopo aver compiuto alcune mute della pelle per potersi difendere dai predatori, il bruco è pronto alla prima trasformazione: la pelle esterna si indurisce andando a formare un vero e proprio guscio protettivo: è una crisalide, lo stadio intermedio tra bruco e farfalla. All’interno del guscio avviene una serie di trasformazioni che porteranno alla nascita della farfalla. I tempi differiscono in base alla specie, ai fattori ambientali e all’esposizione ai pericoli esterni.

Quanto vive, allora?

Può vivere un solo giorno, certo, se qualche altro essere vivente la sceglie come preda, o se si verifica un evento ambientale che la colpisce direttamente. È assolutamente sbagliato, però, pensare che il ciclo di vita naturale di una farfalla si concluda in 24 ore.

Per fare un esempio esaustivo, prendiamo le due specie agli antipodi per quanto riguarda la longevità: le farfalle della Costa Rica sopravvivono al massimo due giorni, la Vanessa Atiopa (una specie presente in tutto il mondo) può arrivare anche a compiere un anno di vita.

Un esemplare interessante è la farfalla monarca, che vive tra Stati Uniti e Messico e compie lunghe migrazioni. In tal caso, la durata della vita dipende dal periodo dell’anno in cui avviene l’ultima fase della metamorfosi. Se si verifica d’estate, allora le farfalle compiono l’intero ciclo di vita, compresa la riproduzione, nel luogo in cui sono “nate”.Se invece ci si trova in un periodo invernale, la farfalla compierà lunghe migrazioni (andata e ritorno) per potersi riprodurre e dovrà utilizzare una grande quantità di energia. Questo fattore, unito agli altri che abbiamo già menzionato, fa la differenza sui tempi di sopravvivenza dell’insetto: dai 14 giorni agli 8 mesi di media.

Mito sfatato.

Non toccare le ali della farfalla

Ce lo raccomandano da quando siamo piccoli e ci sono almeno quattro ragioni per non farlo: le ali sono ricoperte di microscopiche scaglie colorate, responsabili dell’affascinante colorazione delle farfalle. Toccandole, tale “polvere” viene facilmente eliminata, rendendone difficile sia la mimetizzazione che la capacità di dissuadere i predatori. La farfalla, inoltre, rischia di non essere più riconosciuta dagli altri esemplari, perciò verrebbero compromesse le sue possibilità di riproduzioneLe ali sono infine fondamentali per l’assorbimento del calore, immagazzinato e poi sfruttato nei periodi freddi.

Poi, diciamolo: perchè mai dovremmo disturbare uno dei pochi insetti che ci lasciano in pace?

Come nascono i canguri

Pensiamo Australia e diciamo canguri. Il fascino di questi animali attira ogni anno molti turisti in Australia, dove è facile poterli vedere anche in libertà, anche se il riscaldamento globale e la riduzione dei loro habitat ne minacciano sempre più la sopravvivenza.

Il marsupio

Come i koala, i diavoli della Tasmania e oltre 200 specie che abitano il continente, i canguri appartengono alla classe dei marsupiali.

La caratteristica comune aquesti mammiferi è la presenza del suddetto marsupio, una sacca derivante da una grande piega della pelle, che copre le mammelle e funge da incubatrice per i cuccioli.

Solo le femmine di canguro possiedono questa parte del corpo. Partoriscono i piccoli tra il trenta e trentaseiesimo giorno di gravidanza. Il neonato esce dal ventre materno quando è ancora allo stato embrionale: pesa circa 1 grammo e raggiunge i 2cm di grandezza.Le piccole braccia sviluppate gli permettono di spostarsi dal ventre al marsupio, dove inizia a nutrirsi del latte materno, rimanendo al sicuro per altri 8 mesi circa.

I consueti 9 mesi sono in questo modo completati, le mamme canguro si godono però il loro cucciolo già dal primo mese, accudendolo nel cosiddetto “ventre esterno”. Dato che il piccolo non ha sufficiente forza per succhiare, un muscolo della mammella materna favorisce periodicamente la secrezione lattea; inoltre, affinché la deglutizione non ostacoli la respirazione, la laringe del neonato si prolunga tramite un tubo che raggiunge le fosse nasali.Trascorso il tempo necessario a sviluppare corporatura e forze sufficienti per sopravvivere, i cuccioli possono iniziare ad affacciarsi al mondo esterno.

Nei primi periodi, però, si comportano da veri e propri “mammoni”: si rifugiano spesso all’interno della sacca materna, sia per continuare a nutrirsi, sia per proteggersi da eventuali attacchi dei predatori.

Un’altra famiglia, oggi rigidamente protetta, che vive in Australia principalmente nelle foreste di eucalipti, suscita enorme tenerezza, “sciogliendo” anche i cuori più freddi: il koala.

La prima fase della riproduzione è essenzialmente la stessa dei canguri, la differenza simpatica si presenta alla fine dei 9 mesi. Il cucciolo di koala vive letteralmente aggrappato al dorso della mamma, arrampicatrice di alto livello, per circa un anno.

Sul web si trovano un’infinità di immagini rappresentanti il fantastico rapporto madre-figlio dei marsupiali, di una dolcezza inaudita.

Acquacoltura: caratteristiche generali

La pesca ci permette di ottenere molte varietà di pesce fresco: Pam Panorama è stato il primo supermercato a dotarsi di una flotta di pescherecci che, ogni notte, salpa dal porto di Chioggia per rifornire i banchi di tutti i punti vendita.

Tuttavia la pesca, da sola, non basta a soddisfare la richiesta di pesce: la sovrappesca, infatti, causa grossi problemi a livello ecologico ed è fondamentale saper rispettare i limiti imposti nel rispetto del mare.

Ecco quindi che entra in gioco l’acquacoltura, che, se praticata nel rispetto dell’ambiente e della salute dei pesci, ci permette di gustare prodotti ittici di ottima qualità.

L’acquacoltura

Si tratta di una forma di allevamento di organismi acquatici, realizzabile tramite tecniche caratterizzate da diversi livelli di intensità.

A seconda della tipologia di pesce allevato, si andrà a ricreare un certo tipo di habitat, perciò troveremo acquacoltura delle acque calde (pesci tropicali o ciprinidi) e delle acque fredde (ne sono un esempio trota e salmone), dolci o salate.

Acquacoltura a tecnologia avanzata e rurale

Quella a stampo industriale, che si serve di tecnologie all’avanguardia, è diffusa nei Paesi più sviluppati e rappresenta un importante comparto delle economie. La seconda invece è solitamente a conduzione familiare, ha un mercato ristretto nelle aree sottosviluppate, servendosi di metodi decisamente più economici.

La “molluschicoltura” riguarda l’allevamento di molluschi. La “piscicoltura” si riferisce a tutte le specie ittiche. L’”alghicoltura” alle alghe e la “crostaceicoltura”, chiaramente, è l’allevamento dei crostacei.

Come agisce l’uomo per garantire il rispetto dei pesci e inserire sul mercato prodotti di qualità?

Forme di allevamento

Forma estensiva: è praticata in zone particolarmente ampie e l’unico intervento umano si registra nella fase di estrazione dei pesci. Questi infatti si nutrono in maniera completamente autonoma, senza aggiunta di mangime o concimi. A livello economico si tratta della forma meno redditizia, considerando il rapporto chilogrammo per ettaro, risultando però la migliore in termini di conservazione di specie e ambienti naturali.La vallicoltura è una delle tecniche più sviluppate di allevamento estensivo, praticata nelle valli e nelle lagune costiere.

Forma semintensiva: gli organismi marini si nutrono sia degli alimenti che rintracciano naturalmentesia di una discreta quantità di mangime. In questo modo viene garantita una dieta più completa, mirata all’accrescimento delle specie allevate. Le zone in cui si pratica sono ristrette rispetto alla precedente, è diffuso l’allevamento in vasche a terra, non si fa largo uso della tecnologia, ma la resa economica è leggermente più elevata.

Forma intensiva: si registra una completa somministrazione di alimento da parte dell’uomol’eliminazione delle sostanze di scarto e anche il mantenimento di adeguati livelli di ossigeno. Ciò comporta l’utilizzo di tecnologie altamente sviluppateL’area di allevamento è ancora più limitata: vasche in PVC, vetroresina o cemento per quanto concerne l’allevamento a terra, e specchi d’acqua in cui vengono collocate gabbie, sia galleggianti che sommerse, nel caso di allevamento in mare aperto.Dal punto di vista economico parliamo del metodo più redditizioanche se sul piano ambientale è necessario un impegno degli allevatori per mantenerne la sostenibilità.

Le tre fasi

Riproduzioneallevamento larvale e ingrasso sono le tre fasi di cui si compone il ciclo di allevamento.

La prima è attivata da individui sessualmente maturi che depongono le uova. Queste vengono isolate e nel momento in cui si schiudono inizia l’allevamento larvale, portato avanti fino al raggiungimento del cosiddetto “stadio giovanile”. I giovani pesci vengono così sottoposti alla fase dell’ingrasso, con la quale si punta a raggiungere determinate taglie in base alla destinazione finale del prodotto.

Le prime due fasi per gli individui marini avviene principalmente in vasche a terra per facilitare la gestione dei controlli. La terza invece può avvenire anche in mare.

L’utilizzo delle gabbie sopra menzionate ha permesso di allargare le zone di applicazione dell’allevamento intensivo. Allo stesso tempo ha favorito la conservazione di caratteristiche ben più simili dell’habitat naturale delle specie allevate. Inoltre si mantengono le caratteristiche organolettiche tipiche della pesca tradizionalelimitando l’insorgere di malattie, grazie alla migliore qualità delle acque marine rispetto alle vasche artificiali.