L’animale più grande del mondo

Vive nel mare, è affascinante e, guardandola dall’alto, somiglia a un grattacielo azzurro che si muove in orizzontale: è la fantastica balenottera azzurra, l’animale più grande del mondo!

Le dimensioni

Riferiamoci alla più grossa delle grosse: è lunga 33 metri e mezzo e pesa 190 tonnellate, per capirci meglio, 190 mila chili!I suoi denti, detti fanoni (filtrano l’acqua trattenendo il cibo), sono lunghi oltre tre metri e pesano in totale circa 250 kg. La lingua misura 6 metri e sulla bilancia tocca quota 4000 kg.

Andiamo avanti?

Si nutre di molluschi, meduse, crostacei e, direi, di ciò che trova, per un consumo medio giornaliero equivalente a 3600 kg di cibo.

Nuota mediamente a una velocità di 20 km/h e la si può trovare in tutti gli oceani del mondo. Comprende infatti diverse sottospecie, la più numerosa è la B.m. musculus, che conta oggi circa 2000 esemplari.

È un mammifero migratorio, perciò si sposta spesso: nelle stagioni calde abita frequentemente le acque del circolo polare artico, in inverno ama spostarsi in zone più calde.

Un gran cuore

Non elencheremo tutti gli organi e le relative dimensioni, ma abbiamo scoperto che l’enorme mammifero ha anche un cuore grande: nel 2015 un team di biologi canadesi è riuscito a recuperare per la prima volta il cuore di una balenottera azzurra. L’animale era rimasto congelato nelle acque dell’Atlantico per quasi un anno: l’organo non era perfettamente conservato e ricostruirne l’anatomia ha richiesto tempo, pazienza e una buona dose di inventiva. Pesava circa 180 kg e si è scoperto che a ogni battito riusciva a pompare circa 220 litri di sangue. L’operazione ha richiesto più di una settimana di tempo oltre che equipaggiamenti speciali, in parte chirurgici in parte da industria pesante. Gli scienziati hanno prelevato l’intero scheletro dell’animale, il cuore e campioni di vari tessuti. La balena, insieme ad altri 8 esemplari, era annegata a causa di uno spesso strato di ghiaccio che le impediva di risalire in superficie per respirare.

Per spiegare questo processo è utile menzionare un’altra ricerca, compiuta da una equipe di ricercatori della Stanford University.Gli scienziati hanno realizzato un sensore a ventosa, dotato di misuratore del battito cardiaco e rilevatori di profondità (per le immersioni ed emersioni) e GPS, che è stato applicato sulla pelle della balenottera.

È emerso che il battito cardiaco nella fase di immersione varia tra i 4 e gli 8 battiti al minuto, riducendosi a 2 in alcune situazioni. Anche quando si nutre l’animale mantiene una bassissima frequenza cardiaca. Può resistere sott’acqua per circa 20 minuti, dopodiché deve necessariamente “riprendere fiato” risalendo in superficie, dove i battiti si attestano tra i 30 e i 37 al minuto, massima frequenza per il cetaceo. 

Basta stragi!

Anche l’animale più grande al mondo compare nella lista delle specie a rischio estinzione, dopo che la Commissione internazionale per la caccia alle balene (Iwc), ne ha sancito l’intoccabilità nel 1986.

Ma chi caccia le balenottere, e soprattutto, perchè?

Tre Paesi nel mondo: Islanda, Norvegia e Giappone sono in pole position. I nipponici sono stati gli ultimi a sfilarsi dalla commissione sopra citata, rivendicando il diritto a continuare la tradizione.

Spieghiamo meglio.

Dopo le due bombe nucleari, gli americani fornirono al Giappone le proprio baleniere per procurarsi una facile fonte di sostentamento. In base ai dati del governo, negli anni ’60 il consumo di carne di balena si assestava intorno alle 200mila tonnellate l’anno. Secondo gli studi di Junko Sakuma, che ha lavorato per anni con Greenpeace nell’arcipelago, oggi un giapponese mangia in media 30 grammi di carne di balena all’anno. Praticamente nulla, soltanto il 5 per cento circa della popolazione giapponese mangia abitualmente carne di balena.

Lo sterminio sfrenato sarebbe allora giustificato con: preservare la tradizione, portare avanti ricerche scientifiche e sovranità territoriale. Il Governo sostiene chela caccia alle balene è parte della cultura del Paese, che è stata portata avanti per centinaia di anni e che non intende farsi dire da altri cosa può fare o non fare. Lo stesso premier Shinzo Abe tratta l’argomento come un baluardo a difesa dei costumi nipponici. Il dato assurdo è che il settore non riesce a mantenersi da solo, ma sono i contribuenti a doverlo finanziare: negli ultimi trent’anni sono stati spesi circa 400 milioni di dollari per sterminare letteralmente questa specie.

Nell’ottocento si contavano milioni di esemplari, agli inizi del 2000 la situazione era degenerata: erano rimaste in vita poche centinaia di balenottere azzurre. Oggi la situazione, grazie agli sforzi delle associazioni e commissioni a difesa delle specie a rischio estinzione, è leggermente migliorata, si è tornati a una decina di migliaia di individui.

Le tigri rischiano l’estinzione?

Con il suo mantello striato e il suo portamento da “regina” rappresenta uno degli animali più belli sulla Terra. Insieme all’orso, è considerata il più grande predatore del nostro pianeta. Il suo ruggito è capace di immobilizzare una preda, provocando una vera e propria paralisi momentanea.No, non fa le fusa, però se chiude gli occhi potete stare tranquilli: si sta rilassando.

Appartengono tutte a un’unica specie, la Panthera Tigris, ma da questa si sono distinte ben 6 sottospecie: Tigre siberiana o tigre dell’Amur, della Cina Meridionale, dell’Indocina, Malese, del Bengala, di Sumatra. Ognuna di queste sottospecie presenta caratteristiche diverse: colore, peso, altezza, ma anche habitat preferito e tempistiche di riproduzione. 

Nell’arco di 100 anni abbiamo perso circa il 95% di tigri sul nostro pianeta e, considerando che nessun animale è capace di abbatterla in natura, siamo noi esseri umani la causa della scomparsa di un numero così elevato di esemplari.

Perché rischiano l’estinzione?

All’inizio del 900 si contavano circa centomila unità, ad oggi una stima del WWF ne conta circa 4000. Quali sono le cause?

Il bracconaggio, innanzitutto. Ma poi anche il cambiamento climatico, che ne ha fortemente modificato l’habitat e la riserva di cibo disponibile.

I cacciatori di frodo commerciano illegalmente diverse parti del corpo delle tigri, molto richieste in Oriente, impiegate soprattutto nellamedicina tradizionale cinese. Oltre alla caccia, gli insediamenti umani sono un fattore decisivo: con le sue attività, l’uomo ha progressivamente sottratto spazi (e prede) alle tigri.

Nelle aree protette di Cambogia, Laos e Vietnam sono state scoperte oltre 12 milioni di trappole che stanno massacrando la fauna selvatica.

Sono state proposte diverse iniziative per salvaguardare il felino, come ad esempio “Tx2”, che punta al raddoppio del numero di individui in natura entro il 2022. Un programma avviato nel 2010 dai 13 Paesi del mondo che ospitano l’animale (India, Nepal, Bhutan, Bangladesh, Russia, China, Myanmar, Thailandia, Malesia, Indonesia, Cambogia, Laos e Vietnam).

Tuttavia alcuni studi dimostrano che, soprattutto nel Sud-Est asiatico, non si stanno contrastando in maniera efficace le illegalità che la tigre è costretta a subire quotidianamente.

I fuorilegge

Il clan Giuliano di Forcella, per anni tra le famiglie a capo della Camorra, usava negli anni ’80 spaventare i commercianti che si rifiutavano di pagare il “pizzo” portandoli davanti a una tigre che detenevano illegalmente. A quel punto gli imprenditori, per evitare di essere sbranati, si piegavano alle richieste dei criminali. Niente armi, niente proiettili nelle vetrine, niente bombe accanto alle serrande, bastava un animale feroce e represso. Il problema è che questa pratica non si è estinta insieme ai suoi fondatori, anzi ha coinvolto un numero sempre più grande di animali.

Ma non è vietato avere una tigre come animale domestico?

La possibilità di tenere animali esotici in casa è regolamentata da un accordo sul commercio internazionale di specie a rischio di estinzione (Cites), chiamato anche Convenzione di Washington. Viene applicato in 127 Paesi, compresa l’Italia. L’accordo vieta l’importazione, la riesportazione, il trasporto, la vendita, l’esposizione e la detenzione degli animali protetti, senza previa autorizzazione.

Bisogna rivolgersi alCorpo Forestale dello Stato o al Ministero dello Sviluppo economico per consultare la documentazione relativa alla Cites e chiedere la dovuta autorizzazione.

Nella pratica criminale, si innesta un microchip estratto da un animale di minor valore e importato regolarmente in Italia.

Il punto di riferimento per i contrabbandieri di tutta Italia sembra essere la fiera di Hamm, in Germania. Si tiene una volta l’anno, un solo giorno, e lì si ritrovano anche trafficanti di ogni specie. “Provengono dal mercato di Bangkok, altro punto di riferimento per i contrabbandieri globali” racconta Saverio Mazzarella, guardia zoofila ad Aversa, in provincia di Caserta. “Chi le commissiona lo fa principalmente per impressionare i suoi ospiti. Tra i clienti, oltre al criminale c’è anche chi trova piacere nel vedere come un piranha sbrana la sua preda o un boa stritola e mangia un coniglio vivo”.

Le curiose tigri domestiche

C’è chi invece ama gli animali, in particolare le tigri, con le quali riesce a instaurare un rapporto inimmaginabile se si pensa alle dimensioni e all’istinto da predatore del felino.

Kevin Thatcher, un dipendente dello Zoo di Bowmanville in Canada, ne è un esempio.Il suo amico a 4 zampe si chiama Jonas, ha 7 mesi e… è gigante!

Alcuni video postati dal ragazzo su YouTube mostrano Jonas che si comporta come qualsiasi altro animale domestico, forse leggermente più ingombrante. Fa compagnia al suo amico sul divano, gioca sul pavimento e assaggia il cibo pacatamente.

Ilja Gorjachev invece si prende cura di Aurora da quasi due anni.La portò nella sua abitazione in seguito alla richiesta del direttore di uno Zoo russo, poiché la tigre mostrava diversi problemi di salute. La mamma aveva smesso di nutrirla, probabilmente perché riteneva che la piccola tigre fosse troppo malata per sopravvivere. Aveva problemi con la glicemia alta che le aveva causato lo sviluppo di una cataratta, e iniziavano i primi segni del rachitismo, che avrebbe potuto ucciderla.Ilja la portò con sé, la nutrì e diede inizio alle cure veterinarie necessarie. Adesso vivono in una casa molto più grande, nella quale ospitano altri animali esotici che hanno bisogno di cure provvisorie.

Ecco le parole del ragazzo, utili a chi abbia idea di prendersi cura di un animale di questo tipo: “Nell’allevare un simile animale ci sono molte difficoltà, specialmente per qualcuno che non è preparato. L’addestramento è totalmente differente da quello di un cane o di un gatto: per tenere una tigre a casa bisogna dedicarle molto tempo e attenzione. Aurora non viene mai lasciata incustodita, ci è abituata. Una volta l’abbiamo lasciata temporaneamente allo zoo (dovevamo andare via) e lei ha ruggito così tanto e senza sosta che le persone che vivevano nelle vicinanze non hanno potuto dormire fino al nostro ritorno! Ci sono state così tante lamentele che lo zoo ha rifiutato di prenderla di nuovo”.

L’ultima incredibile testimonianza del rapporto uomo-tigre arriva dal Brasile. Ary Borges e la sua famiglia hanno deciso di fare la loro parte nella lotta all’estinzione, adottando ben sette esemplari. Gli animali girano liberamente per la casa dove l’uomo vive con le tre figlie ventenni, senza alcuna limitazione, e giocano con gli abitanti della casa, compresa la nipotinadi due anni, che spesso si fa portare a cavallo dai felini.

È importante tenere a mente che preservazione di tigri addomesticate, tema peraltro controverso, non compensa la carenza di esemplari selvatici. Il WWF ricorda: “Le tigri costituiscono l’anello più alto di tutti gli ecosistemi in cui vivono, e per questo regolano le popolazioni di cervi, maiali selvatici, antilopi, buoi. Senza predatori principali come le tigri, queste specie si espanderebbero a dismisura, con effetti devastanti sulle risorse e sul territorio. I danni alla vegetazione avrebbero a loro volta un grave impatto su animali più piccoli come gli insetti, che perdendo il loro habitat si sposterebbero probabilmente sui campi coltivati, con gravissime conseguenze anche per l’uomo.”

Dall’ultima rilevazione sembrano però arrivare dati confortanti: dal 2006 al 2018, infatti, si stima che la popolazione di tigri in India sia più che raddoppiata. In Nepal, dal 2009, le tigri sono quasi raddoppiate e la popolazione del solo Bardia National Park è quintuplicata fino a raggiungere gli 80 individui nel 2018. Nel Parco Nazionale Royal Manas del Bhutan, le tigri sono più che raddoppiate tra il 2010 e il 2018. Nei confini settentrionali dell’areale delle tigri, in Cina e nell’Estremo Oriente della Russia, le tigri stanno aumentando e si stanno spostando in territori circostanti.

Il gatto Sphynx: origini e particolarità

Peloso, morbido, affettuoso, divertente, dispettoso, egocentrico e chi più ne ha più ne metta. Tutte queste qualità, tranne la prima, possono essere attribuite all’originalissimo gatto Sphynx. Non è completamente privo di pelo come il gatto hawaiano, ma ha un mantello cortissimo e rado, il che comporta alcune necessità particolari da tenere in considerazione per gli amici dei felini.

La storia

La prima testimonianza scritta di un gatto privo di pelo risale al 1903, nel libro The book of cat (Il libro dei gatti) di Frances Simpson. Vengono descritti Dick e Nellie, due gattini glabri che abitavano in New Mexico, insieme al padrone F.J. Shinick. Questi gattini furono considerati i primi esemplari della razza “Mexican Hairless”; primi e ultimi, perché non ebbero eredi.

Nel 1950, a Parigi, da una coppia di gatti siamesi nacquero tre gattini “nudi”; stesso risultato nella cucciolata successiva, ma dall’accoppiamento dei genitori con altri esemplari nacquero solo cuccioli pelosi. Anche questi felini senza pelo non riuscirono a riprodursi, interrompendo così la perpetuazione della razza.

Uno dei punti di svolta arrivò nel 1966, quando in Canada da una coppia di gatti a pelo corto nacque Prune, un cucciolo senza pelo. Un allevatore della zona si incuriosì e decise di far accoppiare nuovamente i genitori, riuscendo a dare vita a una nuova razza: i Canadian Hairless. Nel 1970 la nuova razza fu riconosciuta dalla CFA (Cat Fanciers’ Association), ancora oggi il più grande registro al mondo di gatti di razza, che concesse lo status provvisorio. Dopo circa un anno lo status fu revocato perché era a disposizione un campionamento troppo limitato. Inoltre molti gattini morivano per problemi di salute non diagnosticati. L’ultimo micio discendente da Prune fu spedito in Olanda dall’esperto Hugo Hernandez, che dovette aspettare fino al 1978 per provare l’accoppiamento con una felina glabra, nata curiosamente a Toronto. La cucciolata purtroppo fu persa, così anche la Canadian Hairless cessò di esistere.

I veri antenati del gatto Sphynx, oggi molto più comune rispetto ai suoi lontani parenti, sono nati negli anni ’70 e si chiamano Epidermis, Dermis (americani), Bambi, Punkie e Paloma (canadesi).

I primi due nacquero nel 1975 e furono affidati a Kim Mueske, la quale riuscì a dar vita alla razza che oggi conosciamo come Sphynx, il gatto Sfinge.Gli altri tre furono trovati in un quartiere di Toronto, prelevati dall’allevatrice Shirley Smith e fatti accoppiare, divenendo insieme ai cugini americani, i progenitori della nuova razza.

Prima di essere riconosciuta ufficialmente furono necessarie diverse faccende burocratiche, ma oggi tutte le associazioni di felini americane ed europee più importanti hanno inserito nei propri registri la razza Sphynx.

Le caratteristiche

Il corpo praticamente glabro potrebbe farlo sembrare un gatto fragile, sensibile e indifeso. In realtà lo Sphynx ha una corporatura molto robusta e resistente. Il torace è ampio e le zampe sono mediamente grandi, con cuscinetti molto sviluppati. Ha una coda con pochi peletti all’estremità, molto sottile, morbida e mobile.

La pelle è rugosa, mentre per quanto riguarda ilpesoquesto amico a quattro zampe varia fra i 3,5 e i 7 kg. Le sue orecchie sono grandissime, larghe alla base e molto distanziate tra di loro; gli occhi, anch’essi ben distanziati, hanno la forma di un limone e sono leggermente inclinati, il colore è conforme a quello della pelle.

Prestare attenzione

È affettuosissimo, lo dicono tutti gli amici che ci convivono, ma ha bisogno di diverse attenzioni.

La mancanza di peli lo rende molto sensibile al freddo, perciò ha bisogno di temperature confortevoli. È infatti molto incline al contatto fisico, sia per il suo carattere particolarmente amichevole, ma anche e soprattuto per ricercare calore. Ha grande appetito e deve essere nutrito spesso per permettergli di accumulare le calorie necessarie a mantenere la temperatura corporea.

È importante non esporlo al sole, poiché ha un rischio di ustione elevatissimo, non avendo peli a proteggerlo. Come tutti i felini è molto intelligente, e sembra voler essere sempre al centro dell’attenzione. Inoltre, non ama rimanere da solo: un altro amichetto a quattro zampe potrebbe essere la soluzione.

Bisogna prestare particolare attenzione all’igiene dello Sphynx: la pelle di questo gatto ha, infatti, una produzione sebacea che, non essendo assorbita dal pelo, va tenuta sotto controllo con una delicata pulizia quotidiana (una scarsa igiene provocherebbe l’insorgenza di cattivi odori). È necessario prendersi cura anche delle grandi orecchie, perché la mancanza di pelo favorisce l’accumulo di cerume.

Il futuro è nell’elettrico?

Facciamo chiarezza

E’ un dato oggettivo e palese che i veicoli elettrici emettono meno Co2, ma è bene sapere che l’anidride carbonica non è l’unico elemento inquinante legato all’industria dei trasporti. Bisogna perciò evitare affermazioni del tipo: “l’elettrico eliminerà l’inquinamento”, se non si conoscono tutte le fasi che portano alla realizzazione di un veicolo di questo tipo.

La fase a più alto impatto ambientale è quella della produzione delle batterie.

Queste sono composte da: alluminio, rame, cobalto, nichel, manganese e litio. Tutti elementi con caratteristiche chimico-fisiche che non consentono un semplice smaltimento. E qui arriva il secondo problema: le tecniche di riciclaggio delle batterie sono ancora alle fasi sperimentali. I margini di miglioramento sono però enormi, considerando che la produzione su larga scala dei veicoli elettrici è in atto da pochi decenni.

Dalle ricerche

Il Paese europeo più attivo in termini di ricerca sul tema è la Francia. Attualmente conta poco più di 130000 veicoli elettrici in circolazione, ma il governo si è dato degli obiettivi importanti entro il 2030, inserendo il trasporto “green” al centro delle strategie per ridurre l’inquinamento nel Paese.

La “European Climate Foundation” e la “Fondation pour la Nature et l’Homme” hanno coinvolto diverse aziende del settore dei trasporti francese, in una ricerca che esamina l’impatto ambientale dei veicoli elettrici nell’intero ciclo di vita, dalla produzione allo smaltimento.

E’ stato dimostrato che le emissioni di gas serra diminuiscono dal 44 a il 63% rispetto ai veicoli diesel e benzina, in base al peso delle vetture.

La situazione italiana

In Italia nel 2020 sono stati stanziati 2.6 miliardi di euro totali per l’acquisto da parte delle regioni dei bus ecologici, con motori completamente elettrici.

L’azienda milanese ATM ha annunciato che nel 2030 tutti gli autobus in città passeranno all’alimentazione elettrica. Si stima una risparmio di CO2 pari a 75 milioni di tonnellate.

Passi in avanti si sono registrati anche nel settore dei taxi. A Firenze per esempio, grazie a un piano di supporto a 360 gradi fornito a quelli che sarebbero stati i futuri tassisti elettrici, sono state emesse 70 licenze già nel 2017. Il tassista poteva aderire a una soluzione “all inclusive” di Nissan, comprensiva di stazione di ricarica domestica Enel, con l’obiettivo di poter ricaricare l’auto nella tranquillità del garage sotto casa e avere quindi al mattino l’autonomia chilometrica per poter svolgere l’intera giornata lavorativa senza problemi.

Le criticità

Cosa impedisce allo stato attuale un “passaggio di massa” all’elettrico?

costi troppo elevati, che però dipendono proprio dalla scarsa domanda. Il primo problema è perciò risolvibile con misure di agevolazione che attivino un sistema di produzione a ritmi cosiddetti “industriali”, in modo da aumentare la competitività con conseguente riduzione dei prezzi.

Ciò che più concretamente frena le persone nell’acquisto di un auto elettrica è la scarsa autonomia di percorrenza.

Ad oggi si è arrivati ad un massimo di 500 km di autonomia, sufficienti per gli spostamenti di un lavoratore pendolare. Con le attuali tempistiche di ricarica è però impensabile intraprendere un lungo viaggio.

L’AD di Enel Francesco Storace a tal proposito, in un’intervista rilasciata pochi giorni fa ad “Affari & Finanza”, promette: “Avremo presto un’autonomia di 1000 km”.

Possibile balzo in avanti

Una soluzione al problema dei lunghi tempi di ricarica sembra arrivare da un ricercatore australiano, anche se ancora in corso di perfezionamento. Si tratta della batteria di flusso. Quest’ultima utilizza degli elettroliti che, attraverso vari passaggi, trasformano la loro energia chimica in elettrica. L’energia è contenuta in un fluido, quindi quando l’energia elettrica è terminata, basta sostituire il liquido “scarico” con uno carico. Il risultato è una batteria che si ricarica senza doverla collegare a una presa di corrente. In sostanza si passerebbe dal normale rifornimento di benzina ad un rifornimento di energia elettrica, con tempi pressoché identici. Tuttavia l’elemento innovativo più importante è un altro: il liquido non esaurisce il suo ciclo una volta consumatasi la carica elettrica; viene rigenerato all’interno di appositi centri – utilizzando anche energia solare – e rimesso in circolo nella rete di distributori.

Una proposta che, se dovesse dimostrarsi applicabile ai veicoli, permetterebbe di superare una parte consistente degli ostacoli al passaggio all’elettrico.

Tutta colpa dei furbetti

Il 15 luglio 1907 il primo Electrobus fece il suo ingresso nelle strade di Londra.

La sua autonomia era di appena 60 chilometri e la ricarica delle batterie richiedeva 8 ore, ma gli ingegneri della compagnia avevano inventato un metodo molto ingegnosoper rimettere in strada rapidamente il bus. Il mezzo raggiungeva una officina attrezzata dove, in soli tre minuti, il suo pacco di batterie veniva sostituito.

Nel giro di pochi mesi i cittadini erano estasiati da questo servizio così poco rumoroso e per nulla maleodorante. L’euforia però durò ben poco. Edward Ernest Lehwess ed Edward “Teddy” Beall, gli inventori dell’Electrobus, decisero di approfittare del successo che stavano ottenendo per truffare migliaia di cittadini.

Con l’annuncio che avrebbero in pochi anni prodotto 300 Electrobus, i due spinsero le persone a comprare leazioni della società, promettendo un ritorno del 25% annuo sull’investimento. Il guadagno fu impressionante: circa 300000 sterline, corrispondenti agli odierni 30 milioni di euro.

In realtà non non esisteva nessun brevetto che permetteva di produrre il numero di mezzi promesso; così nel giro di un paio di anni i giornali iniziarono ad informare i cittadini della truffa subita.

Esattamente il 3 gennaio 1910 gli Electrobus sparirono dalla circolazione.

Probabilmente se le cose fossero andate diversamente, a quest’ora non sarebbe necessaria una rivoluzione per salvaguardare l’ambiente.

D’altronde la colpa è sempre dei furbetti, in un modo o nell’altro.

Considerazioni finali

Le ricerche in tutto il mondo progrediscono: i colossi aziendali dei trasporti stanno virando tutti nella stessa direzione. Le politiche degli Stati e anche delle singole città si pongono obiettivi concreti a breve termine sul passaggio all’elettrico.

È evidente che macchine, bus, taxi e treni che dimezzano l’emissione di gas tossici sono un obiettivo da perseguire a livello globale.

Gli esperti dovranno darsi ancora da fare per ridurre l’impatto delle batterie. Il rischio, infatti, è quello di incorrere in un processo paradossale, riducendo l’inquinamento a breve termine ma aumentandolo sul lungo periodo.

La raccolta differenziata in Italia

Breve storia

Fino agli anni ’70 il riciclo dei rifiuti non veniva preso in considerazione, probabilmente perché non si percepivano ancora i rischi dell’inquinamento. In passato, infatti, i negozi di alimentari vendevano i prodotti in sacchetti di carta o cassette in legno per frutta e verdura, che venivano utilizzati dai consumatori per riscaldare le proprie case.

Fu il boom economico a introdurre nel mercato nuovi materiali da imballaggio.

La prima legge in Italia a tema smaltimento risaliva al 1941 e regolamentava lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani. Il DPR 915 del 1982 introdusse il termine riciclo, emanando obblighi di raccolta, riuso e appunto riciclo dei rifiuti. Nel 1988 il legislatore si occupò di disciplinare il tema raccolta differenziata nei centri urbani. Due leggi successive, rispettivamente 1997 e 2006, diedero indirizzi specifici sulle metodologie da utilizzare per la raccolta differenziata.

Ancora oggi, dopo circa quarant’anni dalle prime campagne di sensibilizzazione, la maggior parte della popolazione è scettica sull’efficacia della raccolta differenziata. I dati, che saranno proposti più avanti, dimostrano invece che l’Italia è uno dei migliori Paesi nel rispetto delle norme.

Le normative generali sono emesse dall’Unione Europea, poi adottate dallo Stato, il quale lascia la gestione ai comuni, che in base alle loro esigenze decidono la metodologia più sostenibile.

Il percorso dei rifiuti 

I rifiuti che gettiamo nei secchi delle nostre case vengono raccolti dagli operatori ecologici tramite dei camioncini, con il sistema porta a porta o direttamente dai vari bidoni disposti nelle strade.

Vengono trasportati in dei centri di trasferimento, dove vengono controllati e smistati in base al materiale, per poi essere caricati su altri mezzi di trasporto. Arrivano a questo punto alla stazione responsabile del loro trattamento e rigenerazione, cioè la trasformazione in nuovi oggetti.

In entrambi gli stabilimenti, quindi, i rifiuti che noi differenziamo in casa vengono accuratamente ricontrollati e, nel caso della plastica ad esempio, ulteriormente separati in base ai materiali che compongono un prodotto.

Ciò può portare a due considerazioni e di conseguenza a due reazioni. Una controproducente e fastidiosa: “se li ricontrollano, che senso ha fare fatica a differenziarli?” La seconda reazione è invece intelligente e collaborativa: “se tutti facciamo la nostra parte, ci vorrà sempre meno tempo a smaltire i rifiuti inquinanti!”.

La plastica riciclata viene usata per innumerevoli scopi, ad esempio la costruzione di nuovi arredi urbani: panchine, staccionate e giochi per i parchi pubblici. Il 90% circa dei sacchetti, delle scatole e dei giornali è realizzato con carta riciclata. Con un chilogrammo di vetro riciclato si possono produrre un chilogrammo di nuovi recipienti, senza la necessità di aggiungere materiale. Sistima che ormai in Italia oltre il 70% delle bottiglie di vetro sia prodotto tramite il materiale vetroso recuperato con la raccolta differenziata.

In caso di ulteriori dubbi sulla corretta gestione dei rifiuti nel nostro Paese, il ministero dell’Ambiente, le agenzie regionali per la protezione dell’ambiente e gli stessi comuni rendono pubblici i rapporti sui controlli effettuati periodicamente.

I numeri in Italia 

L’Eurostat (l’ufficio statistico dell’Unione Europea) ha stilato nel 2017 una classifica dei Paesi europei in tema riciclaggio. L’Italia si trova in testa con il 76,9% di rifiuti riciclati, oltre il doppio rispetto alla media continentale, pari al 37%.

I Paesi del Nord Europa in realtà utilizzano metodi molto avanzati, come la trasformazione di rifiuti in energia elettrica tramite i termovalorizzatori, quindi occupano le parti basse di tale classifica poiché è minore la quantità di rifiuti che vengono riutilizzati.

Nell’Est invece l’80% circa della spazzatura finisce in discarica. La Commissione Europea ha emanato un regolamento nel 2015, che fissa il massimo dei rifiuti smaltiti in discarica al 10% del totale dei rifiuti urbani.

I dati nel 2018 rivelano che in Italia la plastica è differenziata e quindi riciclata dall’87,1% delle famiglie, il vetro dall’85,9%, la carta dall’86,6%. Il meccanismo funziona ottimamente perché nella nostra penisola c’è un sistema di consorzi di raccolta e riciclo molto attivo: “Conai” per gli imballaggi, “Conou” per gli oli lubrificanti usati, “Conoe” per gli oli e grassi animali e vegetali, “Cobat” per batterie ed apparecchiature elettroniche, “Ecopneus” per gli pneumatici. I consorzi pagano i Comuni per ritirare i loro rifiuti, e questo incentiva gli enti locali a fare la raccolta differenziata.

Confidando nell’utilità di queste informazioni, si spera di eliminare (o almeno ridurre) la circolazione delle leggende metropolitane che creano scetticismo e rischiano di deviare comportamenti che non dovrebbero essere messi in discussione.

Tutti i benefici dell’orto

Un’indagine di Coldiretti dello scorso anno sostiene che il 62% degli italiani possiede un orto domestico. La definizione comprende tutte le forme e le quantità di coltivazione: da una sola piantina ad un intero terreno, dal davanzale della finestra al giardino. Fatto sta che l’orto domestico è in crescita e le superfici coltivate hanno raggiunto 174 milioni di metri quadrati sulla Penisola.

I ritmi elevati e la tendenza alla digitalizzazione in tutti i settori rischiano di far estinguere diverse tradizioni, tra cui l’orto. Fortunatamente sono attive in tutto il mondo diverse iniziative atte proprio a conservare e a promuovere tale pratica, che porta con sé benefici per l’ambiente e per la salute di tutti gli esseri viventi. Vediamone alcune.

Gli orti urbani

Un orto urbano è uno spazio verde di proprietà comunale la cui gestione è affidata per un periodo di tempo definito ai singoli cittadini.I beneficiari ricevono in concessione questi spazi per produrre fiori, frutta e ortaggi che serviranno a soddisfare i propri bisogni.Il Comune concede la gestione di piccoli appezzamenti di terreno tramite un bando e dietro il pagamento di un affitto, con cifre poco più che simboliche.

La prima forma di tale pratica si sviluppò in Francia a fine Ottocento, con i jardins ouvriers (giardini operai), promossi da Jules Lemire, prete e deputato riformista.

Oggi sono tantissime le città italiane che offrono ai propri cittadini questa possibilità, con l’obiettivo concreto di combattere il degrado in specifiche aree periferiche, che proprio grazie a questo tipo di attività possono essere riqualificate in breve tempo. Ci si pone il nobile fine di coltivare nelle menti di bambini e adulti un pensiero green, all’insegna della cura dell’ambiente e del ritorno allo stile di vita naturale. Inoltre, gli orti urbani fanno bene alla regolazione del microclima locale, per il quale l’aumento delle aree verdi è un toccasana. Non solo: sono uno strumento potentissimo per l’inclusione sociale e la crescita di nuovi gruppi di persone attive, accomunate dal desiderio di vivere sani, in un ambiente accogliente e a stretto contatto con la natura.

I cittadini che aderiscono sono spinti, secondo alcune analisi, dal desiderio di mangiare prodotti sani e genuini edal risparmio sulla spesa che l’orto urbano garantisce. Un modesto 5% afferma invece di dedicarsi all’attività per pura passione.

Riciclo e coltivo

Nel 2016 è nato a Milano un progetto che coinvolge tutte le scuole dell’infanzia della città, riuscendo a sensibilizzare contemporaneamente il tema del riciclo e della coltivazione, chiamato appunto “Riciclo e coltivo, l’orto verticale a scuola”.

Dodici tonnellate di piatti e stoviglie di plastica usati nelle mense sono stati trasformati in scaffali a più ripiani, comprendenti 12 vasi e un annaffiatoio ciascuno, per un totale di 175 kit distribuiti nelle varie scuole.

I bambini hanno in questo modo la possibilità di rendersi conto concretamente dell’importanza di una corretta raccolta differenziata. Inoltre impareranno a prendersi cura delle piante, a distinguere la stagionalità dei prodotti che mangiano e a ricavare compost dagli scarti dei cibi della mensa.

Ortoterapia

Nata accidentalmente nel XVII secolo in Inghilterra, l’ortoterapia sta prendendo sempre più piede in Italia e nel mondo.

Gli inglesi che non riuscivano a pagare le proprie cure a causa di difficoltà economiche, nel 1600 dovevano prendersi cura del giardino dell’ospedale durante il ricovero. I medici constatarono con stupore che, i pazienti ai quali era chiesta tale attività guarivano più in fretta rispetto agli altri.

Ancora in Gran Bretagna, alla fine della seconda guerra mondiale, ci si rese conto che i soldati ritrovavano gioia di vivere, stabilità mentale e capacità motorie venendo a contatto con la natura.

Sono queste le radici di una pratica che sembra in grado di dare parecchi benefici nel percorso di guarigione di diverse patologie.

Naturalmente l’orto terapia non può rappresentare una terapia a sé, ma costituisce uno strumento in più che va ad integrare il percorso sanitario di uno specifico soggetto. Non ha controindicazioni, ma possiede invece numerosi effetti positivi. Ad esempio aiuta a sviluppare la motricità: seminare, potare, raccogliere i frutti stimolano infatti il movimento favorendo anche il coordinamento, l’incremento della forza e della resistenza. Migliora la capacità di apprendimento attraverso attività come la memorizzazione del nome di alcune piante, di nozioni spazio-temporali, la percezione della ciclicità delle stagioni, l’identificazione dei tempi adatti per la semina e il raccolto e l’organizzazione degli spazi del giardino. Sono tutte operazioni che rafforzano la sfera cognitiva dell’individuo, stimolando concentrazione, capacità logichememoria. Il soggetto inoltre esercita un ruolo attivo, da cui scaturiscono frutti concreti e tangibili: fattore che incrementa l’autostima. Il suo ruolo non è però isolato e si inserisce nell’ambito di un intento comune, condividendo col gruppo di lavoro spazi, strumenti e obiettivi e favorendo quindi l’integrazione sociale.

Le iniziative citate, insieme ad altre che stanno nascendo e, si spera, nasceranno, fanno sì che il progresso tecnologico vada di pari passo con una prevenzione costante della natura, permettendo alle future generazioni di vivere in un ambiente sano.

Il buco nell’Ozono

La giornata mondiale

Sono trascorsi vent’anni dall’istituzione da parte dell’ONU della Giornata Mondiale per la Preservazione della Fascia d’Ozono. Oggi in tutto il mondo si terranno iniziative e conferenze per continuare a salvaguardare questo importantissimo scudo atmosferico. Vediamo cosa rappresenta la fascia e cosa significa l’espressione ricorrente “buco dell’ozono”.

L’ozonosfera

L’ozono è un elemento chimico molto abbondante nella parte bassa della stratosfera, la seconda a partire dal basso dei cinque strati dell’atmosfera terrestre. Questa zona è appunto detta “ozonosfera” e occupa la fascia che si estende dai 15 ai 35 km di altitudine rispetto al suolo. L’ozono fa parte dei gas serra e svolge un’importantissima funzione: trattenere parte delle radiazioni ultraviolette provenienti dal sole. Questi raggi, non visibili all’occhio umano, sono molto potenti: riescono a spezzare diversi tipi di legami molecolari, arrivando a danneggiare il DNA degli esseri viventi. Sono infatti tra le cause principali di tumori alla pelle. Senza ozono, la vita sulla superficie terrestre come la conosciamo oggi non sarebbe possibile.

Come si forma

Nella nostra atmosfera l’ossigeno si trova normalmente sotto forma di O2: significa che una molecola è formata da una coppia di atomi di ossigeno, che si raggruppano per avere una maggior stabilità. Quando O2 sale e raggiunge la stratosfera, però, viene colpito dai raggi UV, che spezzano il legame. Ecco che gli atomi si riorganizzano e formano una tripletta, cioè l’ozono (O3). Questo reagisce ancora di più con i raggi UV, assorbendoli e lasciandone passare solo una parte.

Il buco

Le sostanze ozono-lesive sono composti che, quando raggiungono l’ozonosfera, reagiscono con l’ozono riconvertendolo in ossigeno. Questo avviene ad esempio con i gas CFC, clorofluorocarburi, utilizzati a partire dagli anni 40 per gli impianti di refrigerazione e in quantità minore nelle bombolette spray. Queste molecole contengono cloro, che reagisce con l’ozono trasformandolo in ossigeno; un singolo atomo di cloro distrugge fino a 10.000 molecole di ozono.

Ogni anno, tra agosto e ottobre, le correnti d’aria trasportano questi gas fino all’ozonosfera sopra i poli, causando la riapertura temporanea del buco. Il fenomeno è stato osservato per la prima volta nel 1981 e il 16 settembre del 1987 è stato preso il primo provvedimento a livello mondiale: il Protocollo di Montreal.

Quel giorno 197 governi hanno firmato degli accordi per regolamentare l’utilizzo e lo smaltimento delle sostanze ozono-lesive, ma per vedere dei risultati abbiamo dovuto attendere per oltre un decennio: i CFC, infatti, permangono molto a lungo nell’atmosfera e per il primo periodo la situazione ha continuato a peggiorare nonostante le limitazioni.

La situazione attuale

Dal report pubblicato dall’ONU a novembre 2018 è emerso che dal 2000 il buco si è ridotto dall’1% al 3% (a seconda della zona) per ogni decennio. Se i progressi dovessero proseguire a questo ritmo, le Nazioni Unite calcolano che l’ozonosfera potrà essere del tutto “ricompattata” nell’emisfero nord già nel 2030, mentre nell’emisfero sud si parla del 2050. Per le regioni polari il completo risanamento è previsto nel 2060.

Anche una ricerca della Nasa ha rivelato che il buco non era così piccolo dal 1988. Gli sforzi per la protezione dell’ozonosfera, inoltre, hanno in parte contribuito alla lotta contro il cambiamento climatico: grazie al protocollo di Montreal, infatti, è stata evitata, tra il 1990 e il 2010, l’emissione di 135mila milioni di tonnellate di anidride carbonica.

Ricordiamo però che buco nell’ozono e effetto-serra sono due fenomeni diversi: mentre per il primo siamo in fase di miglioramento, purtroppo non possiamo ancora dire lo stesso del secondo.

Verso lo pneumatico green

Sono tra i prodotti più presenti sul nostro pianeta, nonché, purtroppo, tra i più inquinanti.

Per garantire la sicurezza sulle strade c’è bisogno di un frequente ricambio di pneumatici poiché, per le loro caratteristiche, tendono a usurarsi in breve tempo.

Alcuni studi risalenti al 2017 hanno scoperto che dal 10 al 28% dei materiali inquinanti presenti negli oceani provengono dagli pneumatici.

La “coscienza green” sembra però essere arrivata anche alle grandi case produttrici, portando allo sviluppo di progetti ambiziosi, che puntano a ridurre in modo massiccio l’impatto ambientale di questi prodotti.

Storia degli pneumatici

Per migliaia di anni le ruote sono state fatte di legno o di pietra e non è servita alcuna copertura. Per attutire la corsa è stato poi aggiunto del cuoio sulla superficie, seguito dalla gomma solida. Le automobili furono inventate alla fine dell’Ottocento e pneumatici e camere d’aria arrivarono poco dopo.

All’epoca la gomma degli pneumatici proveniva principalmente dagli alberi della gomma, e ciò contribuì alla deforestazione massiva del pianeta. All’alba del Ventesimo secolo, però, le automobili si fecero meno costose e più diffuse: il mondo iniziò ad aver bisogno di più gomma di quanta ce ne fosse disponibile. L’improvvisa carenza di materia prima verificatasi al termine della guerra, da un lato rese evidente l’importanza economica e politica della gomma naturale, dall’altro stimolò la ricerca di prodotti alternativi, in particolar modo di gomma sintetica. I primi pneumatici sintetici prodotti furono ilpolisoprenein Germania nel 1909 ed ilpolibutadienein Russia nel 1910. Importante fu anche l’invenzione della gomma stirene-butadiene ad opera di chimici tedeschi nel 1935.

Potendo essere prodotti su larga scala, i nuovi materiali fecero abbassare considerevolmente i prezzi, ma non si tenne conto di un grande dettaglio: non sono biodegradabili.

Oggi la gomma sintetica costituisce circa il 60% del corpo degli pneumatici, un’altra buona percentuale deriva da materiale naturale, il resto è occupato da alcuni metalli, anch’essi difficili da smaltire.

Il caucciù e la vulcanizzazione

La gomma naturale che l’uomo ha sfruttato per dar vita alle sue gomme artificiali si ricava dall’hevea brasiliensis, una pianta diffusa nel Brasile settentrionale, principalmente nella regione amazzonica.Incidendo la corteccia dell’albero si ricava del lattice, che viene poi miscelato con alcune sostanze dando vita al caucciù: la gomma naturale.

Nel 1855 l’americano Charles Goodyear scoprì un processo chimico che riusciva sostanzialmente a rendere più elastico e resistente il caucciù. La reazione prende il nome di vulcanizzazione e consiste nel far reagire a caldo la gomma con zolfo e suoi derivati, con l’aggiunta di altre sostanze che rendono più efficace la reazione principale. Il procedimento stabilisce “ponti” di zolfo, un tipo di legami chimici, tra le catene di molecole che costituiscono la gomma e che sono divise tra di loro, creando un vero e proprio reticolo stabile. Questo impedisce al materiale naturale di deformarsi e di rammollire se la temperatura sale, e gli conferisce la caratteristica elasticità. A seconda della quantità di zolfo impiegato, si ottengono gomme più o meno dure.

Il caucciù è riciclabile al 100%, il problema è che la pianta da cui deriva ha bisogno di condizioni climatiche particolari per potersi sviluppare, tanto che ancora oggi la si può trovare solo in zone tropicali.

La scoperta del tarassaco

L’istituto Fraunhofer di biologia molecolare ed ecologia applicata, insieme al centro di ricerca agricola Julius Kühn-Institut e all’Aeskulap GmbH ha sperimentato l’utilizzo di un prodotto alternativo al caucciù per la produzione di pneumatici. Si estrae dal tarassaco, una pianta di gran lunga più comune rispetto all’hevea brasiliensis. Il tarassaco infatti non richiede cure eccessive e può essere coltivato nei climi nordeuropei e in terreni poco fertili. Questo consentirà di evitare lunghi viaggi della materia prima tradizionale proveniente dalle piantagioni di alberi di gomma tropicali. Inoltre non ci sarà più la necessità di sacrificare le foreste pluviali. Ciò permetterà una riduzione dell’impatto ambientale e un aumento della biodiversità.

Grazie alle ricerche è iniziata la coltivazione di una specie di tarassaco russo molto resistente e ad elevato rendimento, e si sta lavorando nel laboratorio TLA (Taraxagum Lab Anklam) per renderne possibile l’industrializzazione. I prototipi degli pneumatici prodotti hanno già superato le fasi di test.

È in fase di sperimentazione anche l’utilizzo dell’amido di mais al posto della silice e del nerofumo, che renderebbe il prodotto finale compostabile e biodegradabile, a differenza degli attuali pneumatici, che impiegano circa 100 anni per decomporsi.

Il progetto Vision

Senz’aria, composto unicamente da materiali provenienti da fonti sostenibiliconnesso, personalizzabile e completamente biodegradabile. Sono queste le caratteristiche del nuovo pneumatico in progettazione nelle fabbriche Michelin.

Il potenziale per lʼindustria dell’innovativo prodotto e delle tecnologie a cui è applicato è enorme, perché stravolge del tutto la filiera produttiva di un settore fondamentale, visti i miliardi di gomme che vengono prodotte ogni anno nel mondo. Rivoluzionati saranno anche la gestione e i costi del pacchetto pneumatici di un veicolo. Attraverso lʼapp di riferimento,basta un clic sullo schermo per ricaricare lo pneumatico oppure modificarne il battistrada per un diverso utilizzo. E girare con le ruote sgonfie in cerca di un gommista diventerà il ricordo lontano di generazioni passate. La strategia annunciata a Montreal prevede che entro il 2048 gli pneumatici Michelin saranno composti all’80% da materiali sostenibili e che, se tutti i protagonisti della filiera saranno coinvolti, si possa arrivare al 100% del riciclaggio a fine vita.

Su scala mondiale il tasso di recupero degli pneumatici è attualmente del 70% ma, poiché molti vengono bruciati per produrre energia, il tasso di riciclo scende al 50%. Al traguardo del 2048, con gli obiettivi annunciati, sarà possibile ottenere un risparmio pari a 33 milioni di barili di petrolio ogni anno (cioè il carico di 16,5 superpetroliere). Valutando il 100% di riciclaggio a fine vita in termini di energia, si può arrivare a un taglio dei consumi pari a 54.000 GWh, l’energia totale consumata in un mese in un Paese delle dimensioni della Francia. 

Il Gruppo francese propone di sviluppare partnership e di identificare nuovi modi per riciclare gli pneumatici e anche nuovi sbocchi per il riciclo.

In quest’ottica, nel 2017 si è tenuto un hackathon relativo a soluzioni che prevedano l’uso di granulato di gomma, ricavato appunto da pneumatici da riciclare. Ha vinto il progetto Black Pillow, che propone la creazione di arredi urbani, come ad esempio i pilastrini per i marciapiede, realizzati con questo materiale e quindi molto più sicuri e meno invasivi rispetto al cemento o alla pietra.

Considerazioni finali

Inserire uno pneumatico tra i prodotti ecologici può risultare una forzatura, ma oggi, grazie ai progetti che abbiamo visto e ad altri molto validi che sono in fase di sperimentazione, è diventata una sfida.

La scoperta del tarassaco rappresenta un balzo enorme in direzione dell’ambiente, perché permette di preservare una zona molto delicata, che per anni è stata vittima di pericolose desertificazioni. La riuscita del progetto Vision invece vorrebbe dire aver sconfitto definitivamente il problema. Ciò che risulta più importante, aldilà dei risultati che ne conseguiranno, è il fatto che le grandi aziende sentano la necessità di investire nella prevenzione dell’ambiente. Sicuramente, come per ogni attività commerciale, ci sarà la prospettiva di guadagno economico a stimolare le iniziative, ma poco importa. Il pianeta ha bisogno di persone che lo salvaguardino.

Stagionatura: non solo formaggi

Nel formaggio

La stagionatura è l’insieme dei processi biochimici che trasformano la cagliata in formaggio, conferendo al prodotto finale le sue caratteristiche organolettiche.

Nei formaggi a pasta molle, come lo stracchino, la stagionatura è molto breve e avviene a una temperatura compresa tra 5 a 10°C. Dal momento che conservano un’alta percentuale di acqua, sono più deperibili e vanno consumati a pochi giorni dalla loro produzione. 
I formaggi a pasta cotta, ad esempio il parmigiano, richiedono invece un tempo di maturazione superiore ai 6 mesi (può arrivare fino a 3 anni), con temperatura di stagionatura sui 15-20 gradi. In questi casi l’acqua è praticamente assente ed è più elevata la concentrazione di grassi.

La stagionatura dei formaggi si compone di tre fasi: fermentazione latticaproteolisi e lipolisi.

Dopo la separazione del siero, la cagliata conserva circa l’1,5% di lattosio, che viene poi metabolizzato dai alcune popolazioni di batteri e trasformato in acido lattico. Nel caso questo non avvenga, i formaggi andranno incontro ad altri tipi di fermentazione che daranno ai prodotti un aspetto particolare. È il caso dell’Emmental, dove vengono appositamente utilizzati batteri incapaci di metabolizzare il lattosio.

La proteolisi consiste nella trasformazione, da parte di complessi enzimatici, delle proteine del latte, le caseine. In questa fase viene liberato anche l’acido glutammico, amminoacido responsabile della sapidità di molti alimenti. Gli stessi enzimi consentono una maggiore conservabilità del prodotto, poiché abbassano il pH rendendolo più acido e ostacolando la proliferazione di batteri nocivi.

La lipolisi consiste nella scissione dei trigliceridi in acidi grassi liberi ed è responsabile degli aromi e sapori forti e intensi di molti formaggi italiani, come il gorgonzola

Nella carne

È detta frollatura e serve essenzialmente a rendere commestibile la carne: dopo la macellazione,il muscolo dell’animale subisce cambiamenti un naturale irrigidimento, il rigor mortis. Occorre attendere che gli enzimi presenti nelle carne agiscano sulle proteine denaturandole e facendo in modo che le fibre si inteneriscano, rilasciando parte dei succhi.

Il tempo, la temperatura, la maturità e l’ossigenazione sono i fattori fondamentali del processo di maturazione. Esiste la frollatura sottovuoto, nella quale la carne viene frollata intagli piccoli e per un periodo breve. La carne sottovuoto in assenza di ossigeno espelle la parte sanguigna e l’acqua, frollando in“ammollo”nei suoi stessi succhi. Questo tipo di stagionatura, chiamata anche frollatura umida, è più una macerazione veloce in grado di ammorbidire le fibre della carne ma non di caricarla adeguatamente di sapore.

La frollatura a secco ha invece tempi più lunghi che permettono alla carne diventare tenera, saporita e più digeribile. In questo caso le carni sono conservate in celle frigorifere a temperature dai 0 ai 4 gradi, con tempistiche che variano in base alla razza dell’animale e alla qualità del taglio di carne.

Nei salumi

Si parte dalla stufatura, che può durare fino a 4 giorni a secondo del prodotto: il salume comincia a perdere acqua e, di conseguenza, peso e volume. Si passa poi all’asciugatura: avviene in un ambiente con temperatura e grado di umidità controllati, che cambiano man mano che si arriva alla fine della fase (in genere servono fino a 8 giorni). La stagionatura, chiamata anche invecchiatura, è l’ultima e anche la parte più lunga di tutta la fase. Questo processo si attua in cantina, ambiente completamente naturale contraddistinto da un microclima unico nel suo genere (10-12°C con umidità del 60%). È importante considerare che la scelta dei luoghi di stagionatura è fondamentale per l’ottenimento di un buon prodotto.

Infatti, essendo il budello naturale un involucro che “respira” può facilitare il passaggio degli odori del luogo di stagionatura e di conservazione. Diviene pertanto indispensabile scegliere locali “neutri”, al riparo cioè da quegli odori o profumi troppo marcati che si ritroverebbero sistematicamente nel salume in tavola.

Prima di lasciare gli alimenti, è bene sapere che la stagionatura che i produttori applicano a carne, formaggi o salumi, non è garanzia di conservazione del prodotto dopo l’acquisto. Per capirci, se acquistiamo un formaggio stagionato e lo teniamo per 10 giorni al sole, non c’è stagionatura che mantenga integri sapore e consistenza di quel formaggio.

Nel legno

Anche il legno, un prodotto che a volte è usato come contenitore degli alimenti di cui abbiamo parlato, subisce il suo personalissimo processo di stagionatura. Appena tagliato contiene una grande quantità di acqua, che può variare da un terzo a più della metà del suo peso.

Per renderlo più leggero, quindi facilitarne il trasporto, e più resistente al deterioramento è necessario ridurre la quantità di acqua. Motivo ancora più importante è la maggiore resa di combustione che un legno stagionato possiede rispetto a un legno fresco.

Il legno è un materiale igroscopico, cioè assorbe e rilascia umidità cambiando volume e forma.È quindi fondamentale eliminare l’acqua soprattutto in quei legni che vengono utilizzati per costruire case, o giochi, ma anche sedie, perché è evidente che un cambio di volume potrebbe comportare il crollo di qualunque struttura.

Il processo di essiccazione viene chiamato, appunto, stagionatura. Essa può avvenire in maniera artificiale o all’aria aperta. La seconda consiste nel lasciare il legno in una zona coperta e ventilata, in modo da far abbassare il tasso di umidità naturalmente; può durare anche alcuni anni.

La stagionatura artificiale invece può contare su più metodi.

Nell’essicazione in camera le cataste vengono messe in delle apposite camere in muratura, in acciaio o alluminio, nelle quali è possibile regolare temperatura, umiditàflusso dell’aria. In questo modo si forza l’essiccazione del legno, ma senza esagerare per non rischiare che questo, seccando troppo in fretta, si spacchi.

L’essiccazione per condensazione si effettua a basse temperature e con un monitoraggio costante dell’umidità del legno per evitare di danneggiarlo. L’umidità presente nel legno viene fatta evaporare con il calore e poi condensata per riportarla allo stato liquido facendola uscire fuori dalla camera stessa.

L’essiccazione ad alta frequenza si ottiene attraverso un campo elettrico alternato ad alta frequenza, che surriscalda il legno molto velocemente rilasciando il vapore acqueo e quindi l’umidità.

Infine abbiamo l’essiccazione sotto vuoto, effettuata in delle camere stagne di metallo in cui viene abbassata notevolmente la pressione atmosferica. All’interno di queste camere sono presenti dei pannelli riscaldati, o un semplice meccanismo di riscaldamento, che trasmettono calore al legno facendo evaporare l’acqua. La bassa pressione accelera il procedimento.

Nelle fibre tessili

Come il legno, anche le fibre tessili sono materiali igroscopici. Fra tutte, la lana è molto apprezzata per la confezione di maglieria intima, perché ha il più alto potere igroscopico, ossia può assorbire una notevole quantità di acqua. La seta assorbe cosi facilmente l’umidità da far constatare variazioni del suo peso che giungono sino al 18-20%, senza che al tatto si possa riscontrare la grande quantità di acqua (non si percepisce il sudore, per esempio). I regolamenti internazionali definiscono quale deve essere l’umidità di un filato per avere caratteristiche uguali non solo ai fini delle transazioni commerciali, ma anche per ottenere lavorazioni con caratteristiche costanti.

Per rispettare i regolamenti, i produttori si servono di apposite camere, dette “di ripresa”, che procedono al trattamento dei materiali, permettendo una regolazione dell’umidità. L’impianto che deve realizzare queste condizioni dispone di un grande volume d’aria in circolazione per assicurare una buona ventilazione all’interno della camera, poiché questo è un fondamentale parametro per ottimizzare la ripresa di umidità. I vantaggi che si ottengono con una buona ripresa di umidità sono non solo quelli di garantire un certo peso costante nelle confezioni di filato, siano rocche, fusi o matasse, ma soprattutto quelli di migliorare le caratteristiche tecniche della fibra.

Energia eolica: a che punto siamo?

L’energia eolica rientra a pieno titolo nelle categorie “Green Energy” e “Energie rinnovabili”. Il vento infatti, unico protagonista dell’eolico, è una fonte rinnovabile, ovvero non soggetta al rischio di esaurimento, e il suo sfruttamento ha un impatto minimo sull’ambiente. 

Esistono due tipi di installazione di un impianto eolico: on shore (sulla terraferma) e off shore (in zone marine: montate su piattaforme galleggianti). Andiamo a vedere come si compone un impianto e il suo funzionamento.

Come funziona

Un generatore eolico somiglia a un’enorme girandola: una torre altissima, con delle pale rotanti fissate all’estremità superiore. All’interno, però, la struttura è ben più complessa, il cui scopo è trasformare l’energia cinetica delle pale in energia elettrica.

Le pale sono collegate a un rotore, che muove a sua volta un albero posto all’interno della torre. Questo conduce l’energia cinetica fino a un generatore posto alla base dove, con un processo di induzione elettromagnetica, avviene la conversione in energia elettrica.

Anche se la produzione e lo smaltimento di un impianto eolico richiede risorse ed energia, il suo utilizzo ha comunque un impatto decisamente positivo sull’ambiente.

Gli svantaggi dell’eolico

Il pensiero più diffuso sulle grandi turbine eoliche, soprattutto nel nostro Paese, è che rovinino il paesaggio. Si tratta del più forte limite che frena la produzione degli impianti, in particolare nei luoghi con un alto afflusso turistico.

Inoltre, come il sole, anche il vento non è un fenomeno che si può programmare. Il fotovoltaico e l’eolico condividono perciò questo aspetto negativo: funzionano perfettamente quando sole e vento ci sono, ma hanno bisogno di essere sostituiti quando le fonti di energia scarseggiano, per garantire elettricità.

Gli impianti eolici producono un tipo di inquinamento diverso da quello atmosferico: quello acustico. Questo li rende inadatti ad essere posizionati vicino a centri abitati. Il problema è però risolvibile collocando i complessi in zone isolate, o puntando sulle installazioni off shore.

I vantaggi dell’eolico

Ai fattori positivi già elencati si può aggiungere il vantaggio economico. I costi sono decisamente più bassi rispetto ad altri produttori di energia e si riducono anche i tempi di produzione.Ad esempio, sono sufficienti due mesi per costruire una centrale da 10 megawatt, capace di fornire energia elettrica a circa tremila abitazioni.Chiaramente, più la zona è “ventosa” più l’investimento è giustificato e il rapporto costi-benefici cresce a favore dei secondi.

Il caso Danimarca

Quasi la metà dell’energia consumata in Danimarca nel 2019– il 47 % – è stata ricavata dal vento.

L’Europa produce circa il 75% dell’energia eolica mondiale e la Danimarca è il primo Paese europeo per consumo di energia eolica (in percentuale), anche se il primo per consumo di energie rinnovabili in generale è la Svezia. Per farsi un’idea dei numeri, l’obiettivo europeo per il 2030 è raggiungere il 32% di energia prodotta con fonti rinnovabili; quello italiano il 30 per cento. La Danimarca ci ha già superato di circa il 20% con dieci anni di anticipo, considerando solo l’eolico, e non le restanti energie rinnovabili: impressionante.

Il grosso dell’energia eolica danese proviene dalle pale che si trovano nei territori a ovest del Paese o sulle isole, ma recentemente stanno crescendo anche gli impianti in mare, in zone dove l’acqua è poco profonda e dove la velocità del vento è significativamente più alta. Le condizioni meteorologiche sono favorevoli, anche se non eccezionali rispetto agli altri Paesi europei la cui velocità del vento viene considerata mediamente alta.

La Danimarca cominciò a investire nell’energia eolica negli anni Ottanta, quando dovette fare i conti con la crisi del petrolio e le elevate emissioni di CO2 che provenivano dalle centrali elettriche a carbone molto diffuse in quegli anni. L’energia nucleare fu ai tempi fortemente osteggiata dalla cittadinanza, e l’energia eolica divenne quindi una scelta quasi obbligata.

La necessità di investire in questa nuova fonte energetica portò a incentivi esovvenzioni statali che, mentre in altri Paesi europei ebbero scarso successo, in Danimarca furono particolarmente efficaci. Tra le aziende che ne approfittarono ci fu in particolare Vestas, che produceva inizialmente elettrodomestici e che in quegli anni cominciò a costruire pale eoliche sempre più alte (oggi superano i 100 metri). Oggi Vestas è la più grande società di costruzione di pale eoliche al mondo e la città dove ha sede, Aarhus, è uno dei centri più importanti per la ricerca e la produzione in tema di energie rinnovabili a livello internazionale.

In Italia

In Italia le potenzialità per valorizzare l’energia dal vento esistono: l’Anev (Associazione nazionale energia del vento) le stima in circa 2.500 MW, capaci di soddisfare i fabbisogni elettrici di 1,9 milioni di famiglie.

Secondo WindEurope tuttavia, l’Italia appare piuttosto indietro nella realizzazione di nuove installazioni oltre che per impianti e potenza installati.

I dati più recenti fanno registrare la presenza di 5645 impianti eolici, collocati per il 91% nelle regioni meridionali, con una potenza massima raggiunta di 10GW.

Tuttavia una prospettiva decisamente positiva arriva dall’Analisi Trimestrale del sistema energetico italiano firmata dall’Enea (agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) lo scorso giugno. La nuova potenza eolica, fotovoltaica e idroelettrica connessa nei primi sei mesi dell’anno è risultata superiore del 64% rispetto a quanto registrato nello stesso periodo dello scorso anno. In forte aumento la nuova potenza di impianti eolici, complessivamente pari a 300 MW nei sei mesi, tre volte le installazioni di un anno fa.

La strada verso una rivoluzione Green è stata intrapresa e sono stati annunciati nuovi accordi a su scala mondiale. Inoltre, sono sempre più attivi centri di ricerca che si pongono l’obiettivo di eliminare completamente i rischi, seppur minimi, derivanti dalle energie rinnovabili.

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