I ristoranti domestici

I ristoranti domestici

Nato all’estero alla fine degli anni ’90 e arrivato in Italia da poco più di dieci anni, il fenomeno dell’home restaurant sta riscuotendo un successo mondiale, nonostante i diversi ostacoli che continuano a presentarsi. 

Come funziona

Chi aderisce a questa particolare attività ospita nella propria abitazione un numero limitato di persone, in base allo spazio disponibile, cucinando solitamente piatti tipici del territorio in cui si vive, dietro un corrispettivo economico. 

In sostanza si tratta di trasformare la casa in un vero e proprio ristorante. 

Basta iscriversi ad una piattaforma, tramite la quale i clienti riescono a prenotare. La più famosa in Italia si chiama “Gnammo” ma ne stanno nascendo altre anche a livello locale; a Roma ad esempio è attiva da qualche anno “Ceneromane”.

È evidente che le spese di gestione di una simile attività sono assai ridotte rispetto a quelle di un ristorante tradizionale. Proprio per questo diversi ristoratori si sono scagliati contro gli home restaurant, richiedendo a gran voce una specifica normativa che regolasse quella che loro considerano una concorrenza sleale. 

In Italia nel 2015 si stimavano più di 7000 “cuochi domestici”, con un fatturato totale di circa 7 milioni di euro. Cerchiamo di capire meglio cosa spinge le persone a preferire un’esperienza di questo tipo rispetto al tradizionale ristorante. 

Perché ha successo 

I ristoranti domestici sono attivi principalmente nelle grandi città, mete molto gettonate per i turisti, come Roma, Milano, Torino e Firenze. Sono infatti gli stranieri i più inclini ad una cena “fatta in casa” nel vero senso della parola. 

“I turisti sono sempre curiosi di vedere come sono le case dei romani e di sapere quello che cucinano. Vogliono anche un momento di immersione nella vita quotidiana, per questo spesso passiamo una parte della serata a raccontare qualche aneddoto meno conosciuto sulla città” racconta una donna proprietaria di una home restaurant nella capitale. 

Chiaramente la qualità del cibo è un aspetto fondamentale, ma la si può trovare facilmente nelle centinaia di migliaia di ristoranti del nostro Paese. È la curiosità di conoscere la cultura e lo stile di vita quotidiano di chi vive nelle affascinanti città d’arte a fare la differenza nella scelta. 

“Anche per noi padroni di casa è un momento interessante dal punto di vista culturale: le serate scorrono sempre in maniera piacevolissima” afferma un’altra gestrice. 

Il successo dell’attività dipende quasi completamente dalla capacità di coinvolgere gli ospiti, di essere accoglienti e disponibili a rispondere a tutte le curiosità, proponendo un’esperienza che va oltre l’aspetto culinario. C’è chi racconta ad esempio di far entrare i clienti in cucina, spiegando i metodi di preparazione dei piatti e facendosi aiutare nel servizio, in modo da creare un ambiente familiare. 

Le normative

Come abbiamo accennato, anche se le caratteristiche generali si discostano da quelle di un tradizionale ristorante, le home restaurant vengono considerate delle forme “mascherate” di ristorazione, perciò si è reso necessario un intervento legislativo che regolasse, da tutti i punti di vista, tali attività commerciali. 

Nel 2016 la Commissione europea esortava gli Stati membri a incentivare le forme di economia collettiva, viste come un’opportunità per partecipare alla crescita economica dell’intera comunità. 

In Italia è stata proposta una legge, approvata alla Camera nel 2017, ma che ancora oggi è rimasta arenata in attesa dell’approvazione in Senato. 

L’attività non deve essere continuativa e abituale ma deve essere saltuaria. Gli alimenti messi in tavola e adottati in cucina dovranno provenire da prodotti a Km 0. I coperti messi a disposizione non possono superare 500 ospiti all’anno. Gli introiti pervenuti non devono superare i 5.000 euro annui. Occorrerà prenotarsi all’evento obbligatoriamente tramite piattaforma online. Anche Il pagamento deve essere online, tramite apposita piattaforma. Bisogna possedere le competenze “Haccp” per la manipolazione degli alimenti, tramite certificato rilasciato da un ente riconosciuto che ne attesti il possesso. Un Home restaurant non può coesistere con b&b, affitta camere o con qualsiasi altra attività ricettiva che prevede ospitalità e pernottamenti sotto i 30 giorni. Bisogna comunicare al Comune di residenza l’inizio dell’attività. Vige l’obbligo di stipula di assicurazione per copertura dei rischi e per la responsabilità civile verso terzi.

Tutte queste limitazioni fanno parte della proposta di legge, che è poi rimasta bloccata a causa dell’intervento del Garante per la Concorrenza. Sono stati individuati diversi punti non giustificati. 

Ad esempio i limiti di guadagno vanno contro i principi di libertà economica sanciti dalla Costituzione. O ancora l’obbligo di utilizzo delle piattaforme online sia per le prenotazioni che per i pagamenti scoraggia la partecipazione di chi è meno avvezzo all’uso di sistemi digitali. 

Ci si trova perciò ancora in una fase di stallo. 

“Oltre alle tasse, ho dovuto sottostare a tutta una serie di norme costosissime, dall’assunzione dei dipendenti, agli spogliatoi, ai dispositivi anti barriere architettoniche, passando per estintori e canne fumarie. La sharing economy va normata, non può consentire ai furbi di fare il bello e cattivo tempo” questo il punto di vista di Mirko Derosa, giovane ristoratore milanese. 

“Le associazioni di categoria non hanno realmente compreso quanto l’home restaurant sia lontano dall’esperienza del ristorante e sia non avversario ma strumento di sviluppo del settore. Ponendo limiti di fatturato, la legge rischia di andare contro lo sviluppo, contro i suggerimenti della Comunità Europea, a favore di qualcuno” afferma invece con decisione Cristiano Rigon, fondatore e Ceo di “Gnammo”. 

La curiosità dalla Crusca 

Un’ultima curiosità giunge dall’Accademia della Crusca, che ha bacchettato il Parlamento in merito alla terminologia utilizzata nella proposta di legge sugli home restaurant

È stato dichiarato: “È sorprendente che per definire tale attività il legislatore italiano debba ricorrere all’anglismo ‘home restaurant’, quasi che l’arte culinaria casalinga del nostro Paese abbia origini oltremanica e la lingua italiana non disponga di un termine per designare ciò che si potrebbe senz’altro denominare ‘ristorante domestico’. Questo termine risulta non solo immediatamente comprensibile per tutti, ma riunisce semanticamente tutti gli elementi della definizione che il testo di legge fornisce dell’attività in questione.” 

Insomma, il tema di una cucina fatta e servita in casa, in favore della socializzazione, ha generato un gran numero di dibattiti, talvolta anche accesi. Fatto sta che nella nostra penisola ci sono sempre più persone che si dedicano ai fornelli nelle proprie abitazioni, portando in alto la cultura culinaria e inclusiva italiana.