La presenza di gas serra è fondamentale per la vita: è grazie a loro che una parte del calore solare rimane sulla Terra, rendendo possibile la vita.
Il primo a teorizzare questo meccanismo fu Fourier nel 1822, quando osservò che la temperatura sulla Terra non rispettava la sua teoria di diffusione del calore. Secondo i suoi calcoli, infatti, la temperatura media del pianeta avrebbe dovuto essere di -18°C (come effettivamente è sulla Luna), mentre, se il calore portato dai raggi solari fosse stato completamente trattenuto, avremmo raggiunto la temperatura del Sole stesso.
Ipotizzò così la capacità dell’atmosfera di trattenere una parte del calore sulla superficie terrestre, ipotesi che fu confermata da Eunice Newton Foote.
Gli esperimenti della scienziata dimostrarono la capacità dell’aria di trattenere il calore e, tra i gas osservati, la particolare efficienza della CO2 in quel senso. Concluse che “un’atmosfera di questo gas darebbe alla nostra Terra una temperatura elevata.“
I suoi risultati furono presentati presso l’Associazione Americana per l’Avanzamento della Scienza nel 1856, ma trattandosi degli studi condotti da una donna non furono presi in considerazione. Qualche mese dopo l’American Journal of Science and Arts pubblicò un articolo a riguardo, ma cadde velocemente nel dimenticatoio.
Gli stessi esperimenti di Foote furono ripetuti tre anni dopo da John Tyndall, il quale fu ritenuto universalmente lo scopritore dell’effetto serra fino al 2011, quando l’articolo sul lavoro di Foote fu finalmente riscoperto.
Dall’Ottocento a oggi la quantità di CO2 dell’atmosfera è aumentata della sua metà: più di quanto abbia fatto in 3 miliardi di anni.
Le attività umane hanno sempre inciso sugli equilibri degli ecosistemi, che si trattasse di caccia e pesca, agricoltura, allevamento o produzione di energia. Dopo la Rivoluzione Industriale, tuttavia, la loro portata è cresciuta enormemente e così il loro impatto ambientale.
Sia le foreste che i combustibili fossili rappresentano grosse riserve naturali di carbonio, “intrappolato” sottoterra o nella struttura delle piante. Quando li bruciamo, quel carbonio torna nell’atmosfera sotto forma di CO2, innescando così un circolo vizioso: le alterazioni climatiche inficiano sul ciclo dell’acqua, sulla vita di flora e fauna selvatiche e sugli equilibri tra le specie.
Gli incendi delle foreste in Australia, Amazzonia e Africa, le invasioni di insetti provocate dalla scarsità di predatori naturali e le precipitazioni violente a cui stiamo assistendo con frequenza crescente ci fanno capire l’entità del problema.
Il protocollo di Kioto, pur rappresentando una presa di coscienza da parte della politica internazionale, pone degli obiettivi insufficienti a invertire il surriscaldamento dell’atmosfera, anche se fossero rispettati alla lettera (cosa che comunque non avviene).
Bisogna ridurre drasticamente le emissioni di gas serra e aumentare i serbatoi naturali di carbonio. Sono due fronti che si integrano a vicenda: gli ecosistemi delle foreste sono fragili e dipendono dal clima. Se non tuteliamo entrambi,con il passare del tempo avremo meno alberi a proteggerci, un clima più ostile e meno possibilità di tornare indietro.
Abbiamo pochi anni per intervenire e un approccio blando non basterà: ce la faremo?