Non di rado accade sentire, in qualità di barman, publican, addetti alla spillatura in eventi e manifestazioni, frasi del tipo “Mi dai una birra poco fermentata?”, “Io preferisco la bassa fermentazione perché non mi dà problemi di digestione” o “Posso avere una birra con poco o senza lievito?”. È necessario fare un po’ di chiarezza circa la questione della fermentazione birraria. Innanzitutto essa avviene quando i lieviti (ingrediente fondamentale della birra!) aggrediscono la parte fermentiscibile del mosto trasformando la componente zuccherina in alcol e anidride carbonica. Esistono principalmente due tipi di fermentazione: bassa o alta.
A bassa fermentazione viene prodotto oltre il 90% delle birre mondiali, le cosiddette Lager. È un metodo produttivo mediante il quale i lieviti del ceppo Saccharomyces Carlsbengensis lavorano prevalentemente sul fondo del tino a temperature comprese tra i 6 e i 9 gradi. Con questo tipo di tecnica vengono prodotte birre rigorose che, nella maggior parte dei casi, rientrano nello stile cui appartengono e valorizzano il puro utilizzo di acqua, malto d’orzo, luppolo e lievito. Non a caso sono la Germania e la Repubblica Ceca a esprimere le migliori birre con tali caratteristiche. L’unica accortezza, necessaria a trattare le Lager come si deve, è fare in modo che la catena del freddo sia sempre mantenuta e che il prodotto venga consumato entro 3-4 giorni al massimo dal momento in cui il fusto viene attaccato all’impianto di spillatura.
Quando parliamo, invece, di alta fermentazione ci riferiamo al mondo delle Ale, birre generalmente di derivazione belga, inglese o americana. In questo caso i lieviti utilizzati sono del tipo Saccharomyces Cerevisiae e lavorano nella parte alta del tino a temperature comprese tra i 15 e i 23 gradi. È un metodo produttivo che permette al mastro birraio una libertà creativa maggiore, grazie anche alla possibilità di elaborare ricette che comprendano l’impiego di un quantitativo di spezie pressoché illimitato. Ne risultano birre molto ricche dal punto di vista sensoriale: gustativo quanto olfattivo. Tuttavia la produzione mondiale di prodotti ad alta fermentazione conta meno del 10% del totale. Per quanto riguarda l’universo della birra artigianale, è comunque la tecnica preferita dei mastri birrai italiani, artisti sapienti nell’utilizzo di materie prime di qualità anche provenienti dal territorio nazionale.
Esiste, poi, un terzo tipo di fermentazione meno conosciuta e comune tra i consumatori di birra tradizionale: la fermentazione spontanea. È un procedimento caratteristico con cui viene prodotto il Lambic, tipologia di birra tipica del Belgio (regione del Pajottenland) e, in particolare, derivante dalla città di Lambeek. È definito spesso come l’anello mancante tra il mondo della birra e quello del vino per le sue note acide caratteristiche. La tecnica produttiva consiste nel lasciare il mosto in grandi vasche all’aperto, durante i mesi freddi, cosicché avvenga una fermentazione grazie ai batteri “selvaggi” autoctoni che trasformano gli zuccheri in alcol. Alcuni di questi lieviti sono stati selezionati e catalogati come Batteriomyces Bruxellensis e B. Lambicus. Successivamente avviene una rifermentazione in botte che può durare da un anno (giovane) ad anche più di tre (vecchio). Data la notevole (e spesso ostica per i palati “comuni”) acidità, viene talvolta aggiunta della frutta. A seconda del prodotto impiegato il Lambic, cambia nome: Kriek (ciliegie), Framboise (lamponi), Faro (zucchero candito) o Geuze (blend di lambic giovane e vecchio). Alcune aziende aggiungono anche pesche, uva o sciroppi di frutta per dolcificare il risultato finale e raggiungere un target più ampio di consumatori. Negli ultimi anni, in Italia, questa tipologia sta prendendo largamente piede e sono molti i mastri birrai che si sono cimentati in birre artigianali con elevata acidità, riscuotendo anche un buon successo nel resto del mondo.