Melissa Cole è una nota beer writer (scrittrice di birra) britannica che ha detto “basta!”, denunciando il diffuso sessismo che regna sul mondo della birra. Melissa ha affermato che nel suo Paese la figura femminile viene associata alla bevanda sempre in modo denigratorio e volgare, sia nell’immaginario collettivo che in alcune promozioni di etichette. La conferma delle sue parole è arrivata nel 2019 dalla Stanford University, con lo studio Gender Inequality in Product Markets: When and How Status Beliefs Transfer to Products. La ricerca mostra come prodotti considerati maschili – la birra, ma anche attrezzi per la casa o parti di automobile – siano considerati di minor valore se a fabbricarli sono donne.
Se lo studio in questione non fosse stato condotto, nessun problema: basterebbe già la storia a sfatare questi pregiudizi. Ma bisogna conoscerla.
Fin dai tempi della Mesopotamia la birra è stata legata all’universo femminile: erano proprio le donne a produrla, basti pensare che nel corredo di ogni sposa erano inclusi gli strumenti e gli ingredienti per prepararla. La birra poi è per sua natura legata alle messi, alla fertilità della terra. Non è un caso quindi che molte divinità legate alla birra fossero femminili: i sumeri adoravano Ninkasi, unica figura sacra associata a una professione, mentre gli Egizi consideravano Hathorla dea dell’arte brassicola.
La birra e le bevande fermentate sono state fondamentali anche per moltissime civiltà africane. Gli Zulu, ad esempio, consideravano Mbana Mwana Waresa la loro divinità della birra, dea anche dell’agricoltura e del raccolto.
Il nome latino della birra, cerevisia, deriva dalla dea Cerere, venerata dagli Antichi romani.
Andando avanti nel tempo, quando nel medioevo la produzione della birra fiorì nei monasteri, non bisogna dimenticare che anche quelli femminili erano attivi in questo senso. La protagonista medioevale fu Hildegarda von Bingen, una monaca mai doma, controcorrente e anticonformista, che nell’ultima parte della sua vita, dopo aver fondato il monastero di Eibingen, si dedicò anche ad attività divulgative attraverso alcuni viaggi in altre comunità pastorali.Gli studi che la resero famosa risalgono alla seconda metà del 1100 e sono raccolti nel libro Liber subtilitatum diversarum naturarum creaturarum, grazie al quale il mondo della birra scoprì il luppolo. La monaca ne studio le proprietà stabilizzanti e conservanti e da quel momento il luppolo è diventato uno degli ingredienti più importanti nella produzione di birra.
Nel 2012 Hildegarda è stata dichiarata Dottore della Chiesa da Benedetto XVI. Un birrificio italiano, “La Badia”, le ha dedicato una birra dal nome “Ildegarda”; anche in Canada la Driftwood Brewery ha omaggiato la monaca con la birra Naughty Hildegard.
Ancora in età moderna, nel 1700, circa l’80% delle licenze di birraio era in mano a donne, le cosiddette alewives.
Con l’industrializzazione si è sviluppato quell’atteggiamento denunciato da Melissa Cole.
Negli Stati Uniti alla fine degli anni ’90 grazie alla costante crescita della birra artigianale anche le donne sono tornate a fare la birra, nonostante tutte le superstizioni ancora esistenti. Oggi l’associazione della “Pink Boots Society” riunisce negli Stati Uniti più di 2500 donne che lavorano nel settore.
Un team di ricercatori della Sahlgrenska Academy, Università di Goteborg, ha coinvolto 1.500 donne in uno studio atto a dimostrare in che modo le quantità di bevande ingerite influiscono su una serie di patologie: infarto, ictus, diabete e cancro. Sono stati analizzati i dati raccolti dal 1968 al 2000, quando le volontarie avevano tra 70 e 92 anni. Nell’arco di 32 anni, 185 donne hanno avuto un infarto, 162 un ictus, 160 si sono ammalate di diabete e 345 di cancro.
Secondo la ricerca, le donne che bevono birra in modo moderato, sarebbero più protette dal rischio infarto rispetto alle altre.
“Precedenti ricerche suggerivano che l’alcol in quantità moderata può avere un effetto protettivo” ha spiegato Dominique Hange, fra gli autori del lavoro. “I nostri risultati tengono conto di altri fattori di rischio cardiovascolare, ma allo stesso tempo non possiamo confermare che il consumo moderato di vino abbia lo stesso effetto. Insomma, i nostri risultati devono essere confermati da studi di follow up”, ha concluso l’esperto.
Le donne italiane sono prime al mondo per apprezzamento della birra. È ciò che afferma la ricerca “Gli italiani e la birra”, commissionata da AssoBirra ad AstraRicerche.
È emerso che Il 70% delle donne italiane consuma birra, il 30% delle quali lo fa almeno due volte a settimana.
Tra queste, il 58% dice di amare la birra per il suo sapore, il 48% per la sua capacità di abbinarsi ai cibi, il 37% per il suo ruolo “socializzante” nelle serate con gli amici.
La ricerca è entrata nei dettagli fornendo indicazioni anche sul tipo di birra preferito da signore e signorine: un 55% preferirebbe un sapore leggero, l’80% una bassa gradazione alcolica, mentre il 39% delle donne apprezza le birre molto frizzanti.
Francesca Torri, una delle prime birraie italiane, ha raccontato: “ho aperto Mostodolce a Prato nel 2003. A quei tempi era una scelta da pazzi anche perché erano gli albori di tutto il movimento artigianale. Oggi sono in tanti a conoscere i nostri prodotti, ma ricordo che durante i primi eventi ai quali partecipavo, i clienti si avvicinavano al bancone e quando capivano che le birre erano prodotte da me si allontanavano senza nemmeno assaggiare”.
La seconda testimonianza, quella di Cecilia Scisciani, dimostra che le cose sono cambiate: “soprattutto quando si è ai festival di settore nessuno si pone in modo diverso a seconda che la birra sia stata prodotta da me o da Matteo, il mio socio.”
Anche in Italia, come in America, esiste un’associazione composta da sole donne birraie: si chiama “le Donne della Birra”, è stata fondata a Genova nel 2015 e conta più di 100 socie.
Presso i coloni americani era d’uso, quando una donna rimaneva incinta, produrre la groaning beer (la “birra del lamento”), che sarebbe stata pronta per l’appunto nove mesi dopo.
Ciò che ci chiediamo è: si può bere birra durante questi nove mesi?
Sono stati condotti pochi studi sul consumo leggero di alcol in gravidanza, al contrario di quanto è stato fatto sul bere più regolarmente: ci sono abbondanti ricerche che sostengonoquanto “l’azione tossica dell’alcol interferisce sui normali processi di sviluppo fisico ed intellettivo del feto provocando malformazioni e ritardo mentale più o meno gravi a seconda dei livelli di consumo”.
Beve in gravidanza fino all’80% delle donne incinte nel Regno Unito, Irlanda, Nuova Zelanda e Australia. In Italia, sulla base di stime dell’Istituto superiore di sanità diffuse in occasione della “giornata della sindrome feto-alcolica 2016”, le future madri che non rinunciano completamente a piccole quantità di alcol, o che continuano addirittura a comportarsi come al solito, sarebbero circa il 50 %.
Uno studio condotto da Epidemiologi dell’Università di Bristol, ha esaminato i risultati di 26 studi, per capire quanto il consumo di basse quantità di alcol incidesse sulla salute del feto. I ricercatori in questo caso non sono riusciti a dare delle risposte certe, a causa dell’insufficiente materiale a disposizione.
Si sono così limitati a consigliare: “Sebbene sulla base delle prove attuali definire orientamenti sia difficile, l’opzione più sicura per le future madri è non bere alcool in gravidanza, anche perché ‘l’assenza di prove non è prova di assenza’”. E hanno concluso: “Le donne dovrebbero sapere che non abbiamo ad oggi prove che esista un livello di bere che sia sicuro.”